Recensione. La Plaza della compagnia El conde de Torrefiel, è tornato in Italia per due date, al festival Contemporanea di Prato e a Primavera dei Teatri. Ospitiamo lo sguardo di Giulia Muroni dalla replica al Teatro Metastasio di Prato
È potente l’immagine di un memoriale, composto da un tappeto di erba e fiori, costellato di lucine, che appare sul palco del Teatro Metastasio di Prato. Incipit di La Plaza della compagnia catalana El conde de Torrefiel, spettacolo del 2018 ospite del festival Contemporanea, apre su uno scenario disabitato di umani, dove un fondale accoglie le parole di Paolo Gisbert.
In una scena silenziosa, la drammaturgia inquieta e interroga gli astanti. “Questo è uno spettacolo che avviene 365 giorni l’anno, in tutto il mondo” – ci dice, quasi dichiarando una resa alla possibilità della rappresentazione e poi prosegue: “Il teatro del futuro consisterà in rappresentazioni del nulla, in silenzio e senza alcuna presenza umana sul palco”.
Enigmatica l’atmosfera, si alzano i volumi e cala il sipario e, con una densità fremente, si rivela uno scenario di corpi senza volto, donne con il velo, un rider di Glovo, militari armati, turisti. Umanità di una qualunque città europea, in un qualsiasi quartiere multietnico assuefatto alla presenza violenta dell’arma, soggetto mai neutro, simbolo di una inesausta guerra latente.
Senza parola e senza visi, queste figure disegnano i movimenti di una socialità condivisa: la traiettoria di un passeggino, la deviazione di un cane al guinzaglio, l’andamento incerto di un gruppo di ubriachi, il conforme agglomerato dei turisti.
La scrittura sul fondale prosegue, non descrive e non accompagna la scena, apre parentesi, suggerisce letture, incalza chi guarda. “Sappiamo già chi saranno le vittime dei prossimi attentati”, troneggia sopra le teste di donne islamiche che fanno la spesa, conversano, si incontrano.
Calano le luci, tre figure di ragazze barcollano, la camminata scomposta dell’ubriachezza. Una di loro si perde, resta sola, si accascia. Chi la incontra la supera senza aiutarla, tanti la ignorano, qualcuno poi le sfila le mutandine mentre un altro riprende con il telefono. Lei si riprende, se ne va.
I volumi si alzano ancora, la scena cambia composizione e coloriture, ma la rappresentazione è definitivamente ribadita come una possibilità negata quando – al chiudersi del sipario – non c’è nessuno a raccogliere gli applausi. Non c’è niente di cui fregiarsi, la piazza condivide con il teatro la capacità di raccogliere le memorie collettive ma troppe volte agisce in contumacia, celebra idoli posticci, in una tensione necrofila sovente inconsapevole.
Viene evocata la figura di Linda Lovelace: “Tornati a casa – recita il fondale – vi masturberete di fronte a un video porno. Magari raggiungerete l’apice su Linda Lovelace, attrice porno morta nel 2015. Vi starete così masturbando su una persona deceduta.”
“L’opera è la maschera mortuaria della concezione”, scrive Walter Benjamin nelle sue tesi per l’autore, in Strada a senso unico, atlante allegorico che ne raccoglie varie anime, in una cartografia popolosa. “La plaza” propone paesaggi allegorici, abitati da una costitutiva violenza, che rivelano il cadavere fondativo della società, le contraddizioni e le storture che la innervano.
Come nel paradosso del mentitore cretese – che afferma che tutti i cretesi mentono – qui El Conde de Torrefiel, negando la possibilità di rappresentare, mostra con grande cura del dettaglio e maestria scenica un’opera che riflette la lacerante contraddittorietà del reale, l’impossibilità di una conciliazione dei conflitti, la perversa inclinazione a immaginare un futuro, che non è dato.