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L’ape e l’elefante. Nella solitudine, di fronte alla fine

Recensione. Il Ministero della Solitudine de lacasadargilla visto a VIE Festival; con un breve sguardo anche su Éléphant della coreografa e danzatrice marocchina Buchra Ouizguen. Entrambe le opere guardano con occhi e linguaggi diversi al mistero della solitudine e delle possibili alleanze di fronte all’estinzione come morte collettiva.

foto di Claudia Pajewski

Sono curiosi i titoli allarmistici sull’estinzione delle api. Il più delle volte, il peso della loro prossima estinzione è associato al crollo del PIL, o allo svuotamento dei banchi del supermercato. In genere, poi, solo sfogliando quegli articoli si apprende che un’altra conseguenza sarebbe la nostra stessa scomparsa nel giro di pochi anni. Preserviamo le api, dunque, sì, ma in primis per mantenere il nostro standard di vita – ribadendo, cioè, i modelli di consumo e uso delle risorse che le mettono a repentaglio. Certo anche la preservazione di una specie solo per prolungare la vita della nostra sarebbe un riflesso esclusivamente antropocentrico.

E allora, non basta? Bisogna amare le api?

Ci possiamo commuovere per le api, per quella che viene a morire al primo freddo sul bancale della finestra? Chi si commuove per le api che muoiono? Chi si commuove per le ultime rappresentanti di una specie? C’è una parole per dire il peso inconsapevole di rappresentare l’ultima entità vivente di tutta una storia sull’orlo dell’estinzione: endling. Questa categoria di perfetta, malinconica solitudine è stata uno delle chiavi del confronto con lacasadargilla, che avevamo ospitato su queste pagine per parlare del lungo lavoro di gestazione, attesa, inciampi istituzionali, che è diventato Il Ministero della Solitudine.

Tutto inizio nel 2018, quando il governo britannico di Theresa May ne aprì uno, destinato poi a essere chiuso dopo pochi mesi, immaginifico ed effimero araldo elettorale. Ci sembra di vederlo nella città, grigio e monumentale, oppure no, un moderno polo ambulatoriale di acciaio e lineoleum, luci fredde. Un po’ di Jack London, un po’ di Ken Loach, un po’ di Huxley e Horwell. Il materiale è parso subito essenziale a Lisa Ferlazzo Natoli, Alessandro Ferroni e Maddalena Parise, che hanno lungamente e proficuamente frequentato testi anglosassoni (da Caryl Churchill ad Andrew Bovell). Qui si trattava di un luogo, la scrittura era da fare e il suo farsi è diventato lo spettacolo, andato in scena a Vie Festival presso il Teatro Fabbri di Vignola, ma anche un libro (Luca Sossella editore), che è anche un paesaggio. Li vorremmo comparare, libro e spettacolo, ad un acquario, una teca-mondo per la messa in mostra dei suoi abitanti, ma anche un perfetto, autonomo dispositivo di trasparenza. C’è un acquario in scena, piccolo, e un secondo grande come la scena attraverso la quale Caterina Carpio, Tania Garribba, Emiliano Masala, Giulia Mazzarino, Francesco Villano, esordiscono lungo linee fra se stesse estranee ed estranianti. L’incipit de Il Ministero è una danza che non riempie i corpi di chi la agisce, è una danza-silenzio per la cura di Marta Ciappina, drammaturga del movimento, che aiuta i corpi a scrivere sottili controcanti alla materia sonora e intellettuale delle parole.

foto di Claudia Pajewski

La scena tutta esplode di cura: le parole sono un coro di scritture in cui ciascun* è autore e autrice del proprio personaggio: la drammaturgia di Fabrizio Sinisi è un lavoro di sponda che ora raccoglie, ora lascia passare le parole, ora le ripiega su loro stesse per accostare lembi delle storie, creando diffrazioni e simmetrie, instaurando un dialogo profondo, ma mai diretto fra le figure. L’incontro fra i personaggi è simile allo scontrarsi randomico, eppure precisissimo, di pesci in un acquario, o di presenze nottambule in una città solissima. Ad esempio Teresa e Alma (Carpio e Mazzarino), madre e figlia prigioniere nella casa come nella città, si parlano solo attraverso le soglie, mura o finestre, che nel sontuoso disegno scenico di Ferroni diventano il fulcro meccanico della scena, un corpo a base triangolare rotante che articola e disarticola il vuoto intorno: una carta da parati di palmette verdi su un fondo di cielo inquadra una finestra che si rivelerà la teca di un’arnia; un muro urbano con un palinsesto di poster à-la Mimmo Rotella e incastonato un distributore automatico di ricordi; un enorme freddo e luminoso frigorifero. E il Ministero? Tutto nella voce di Tania Garriba e nel piccolo desco o pulpito che affaccia in platea: Simone non è una delle figure, in qualche modo ne è la summa. Personaggio e spazio, coro greco, front office per lamentatio tutte accomunate da una profonda, commovente incapacità di comunicare con l’altro.

foto di Claudia Pajewski

“L’ufficio del ministero è una stanza di diciotto metri quadri. Una fila di sedie per l’attesa, una serie di orologi che segnano le ore ai diversi fusi del mondo. Dietro la scrivania la gigantografia di un atollo nel Pacifico. Palme e sabbia bianchissima, un angolo di cielo si accartoccia su se stesso. L’archivio è occupato dai nomi”, scandisce Simone. Nell’angolo di cielo accartocciato la scena confida un livello di finzione, la compresenza di almeno due piani di realtà. Come nelle foto di Ghirri che ritraggono le carte da parati, che diventano così un paesaggio, oltre che sé stesse. “Le figure – o personaggi – sono immerse in uno spazio specifico e virtuale: specifico perché ognuna di loro è nel proprio luogo, nel qui e ora delle propria storia; virtuale perché l’ambiente di ciascuna interferisce con quello altrui, facendo funzionare il palco come una regione di sovrapposizioni – di sto, di azioni, di affezioni” leggiamo nella premesse del volume. Alma non sopporta la vista di un ape che rintocca sul vetro della finestra, per venire a morire sul davanzale: la finestra, infatti, al posto delle vetrate rivela l’alveolatura ambrata di un’arnia, e l’ape che bussa per un letto di morte è forse lo stesso F., un insuperabile Francesco Villano. Divorziato, indigente, nevrastenico, F. investe le energie residue nell’apicultura e nella vana richiesta di un sussidio al Ministero. Sembra cercare l’amore in ogni voce, ma, come chiunque altro sulla scena, è lui stesso a eludere al dunque ogni possibile incontro. La solitudine è una forza misteriosamente magnetica, non solo il corollario di una condizione sociale, storica o linguistica. lacasadargilla qui ne compulsa le radici, ed è evidente il lungo lavoro su sé stessi che ha richiesto la costruzione di queste biografie per la scena, ben tracciate nel volume per la cura di Maddalena Parise.

foto di Leonardo Vincenzetti

Ci resta dietro le palpebre la solitudine di Primo (Emiliano Masala), la sua relazione con una realdoll. Ci resterà persino impressa la solitudine di quel corpo di silicone, forse il più solo di tutti, il suo silenzio come una profezia che finirà per essere il centro della scena sul finale. Non c’è spazio per un happy ending, nemmeno fra le note di un party d’addio nel locale al piano terra del Ministero, in cui nessuno finirà a fare l’amore con nessuno, anche se farà l’amore con qualcuno. Solo luci fredde, anche quelle dai toni sgargianti dei neon che dominano la scena, conferendo un’atmosfera che rimanda ad un certo modo di illuminare le periferie americane, agli anni ‘80, a Ed Hopper, alle atmosfere di Città sola di Olivia Laing. Il Ministero della Solitudine scompare nella deflagrazione controllata di un’implosione interiore, un tentativo fallito o forse mai davvero intrapreso. Si resta con un nodo alla gola. Music off.
Poco dopo la fine dello spettacolo, ci spostiamo nella vicina Modena per vedere Éléphant di Buchra Ouizguen (Compagnie O). Sul foglio di sala leggiamo: “Come mantenere accesa la speranza di fronte alla scomparsa delle cose?” e ci sembra una domanda sufficiente a legare i due lavori, pur diversissimi. Quattro donne magrebine (Milouda El Maataoui, Halima Sahmoud, Joséphine Tilloy e la stessa coreografa) danzano e cantano sul palco sgombro del Teatro Storchi, in immaginifiche fogge tradizionali. La loro festosa performance, preceduta dalla meticolosa sacralizzazione dello spazio, mondato e inondato di incenso, racconta di un modo di stringersi e fare alleanza, tutto femminile, di fronte all’incombere di una fine: anche gli elefanti sono minacciati dall’estinzione. Ouizguen mutua dalla cultura popolare magrebina strategie possibili per una messa in poesia della paura collettiva di fronte alla morte. Curiosamente, quella voce che nel Ministero si spezzava in gola, musica trattenuta, qui esplode fino a colmare il cielo sulla scena e a trascinare la platea, all’inizio interdetta di fronte al lento, scarno, rituale di pulizia. Alla fine ci sentiamo così, un po’ nordafricani, un po’ anglosassoni, un po’ api e un po’ elefanti, di fronte all’imminente estinzione.

Andrea Zangari

Vignola, Teatro Ermanno Fabbri, ottobre 2022
IL MINISTERO DELLA SOLITUDINE
uno spettacolo di lacasadargilla
parole di Caterina Carpio, Tania Garribba, Emiliano Masala, Giulia Mazzarino, Francesco Villano
drammaturgia del testo Fabrizio Sinisi
regia Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni
con Caterina Carpio, Tania Garribba, Emiliano Masala, Giulia Mazzarino, Francesco Villano
drammaturgia del movimento Marta Ciappina
cura dei contenuti Maddalena Parise
spazio scenico e paesaggi sonori Alessandro Ferroni
luci Luigi Biondi
costumi Anna Missaglia
aiuto regia Caterina Dazzi
assistente al disegno luci Omar Scala

Modena, Teatro Storchi, ottobre 2022
ÉLÉPHANT
Direzione artistica Bouchra Ouizguen
Danzatrici e cantanti Milouda El Maataoui, Bouchra Ouizguen, Halima Sahmoud, Joséphine Tilloy
Disegno luci Sylvie Mélis
Produzione – Amministrazione Mylène Gaillon
Produzione Compagnie OO
Con il supporto di Fondation d’entreprise Hermès nel quadro del New Settings Program

 

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Andrea Zangari
Andrea Zangari
Architetto, laureato presso lo IUAV di Venezia, specializzato in restauro. Ha scritto su riviste di settore approfondendo il tema degli spazi della memoria, e della riconversione di edifici religiosi dismessi in Europa. Si avvicina al teatro attraverso laboratori di recitazione, muovendosi poi verso la scrittura critica con la frequentazione dei laboratori condotti da Andrea Pocosgnich e Francesca Pierri presso il festival Castellinaria prima e Short Theatre poi, nel 2018. Ha collaborato con Scene Contemporanee, ed attualmente scrive anche su Paneacquaculture. Inizia la sua collaborazione con Teatro e Critica a fine 2019, osservando la realtà teatrale fra Emilia e Romagna.

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