Recensione. Grief & Beauty di Milo Rau, visto al Teatro Argentina per Romaeuropa Festival. In scena al Teatro Metastasio di Prato e al Teatro Nazionale di Genova. Qui tre punti di vista, tre racconti e analisi personali che tentano di dare voce a un dibattito sull’opera.
Sulla necessità della morte in scena. Di Andrea Zangari
La traduzione è un’arte impossibile, si sa. “Dolore” e bellezza” suonano un po’ come le caricature romantiche di Grief & Beauty. Ma non è tutto qui. Grief viene dal latino gravis, e rimanda alla materialità lapidea di grave. È il dolore della perdita, è la pietra pesante e tagliente che insiste fra ventre e diaframma, più in basso del cuore, meno astratta e più viscerale del cor-doglio, altra traduzione insufficiente. Eppoi c’è quella e commerciale, che disegna una strana alleanza, un patto di mercato sulle economie della vita, strana coppia tragicomica che presto o tardi dobbiamo incontrare. E quel Beauty con la b maiuscola, un vezzo idealista? No, conoscendo il lavoro di Milo Rau verrebbe da pensare che Beauty sia proprio il nome della gatta di Johanna B. Milo Rau e il cast di Grief & Beauty hanno incontrato Johanna durante il processo di studio per la seconda parte di The Trilogy of Private Life, fatto di incontri con “care takers, undertakers, doctors, people who lost a loved one”. Il volto di Johanna, che ha scelto l’eutanasia a 85 anni per via di una malattia cronica, domina la scena dallo schermo, con sguardo sereno – stabat mater non dolorosa. La scena è un capezzale domestico: al centro, in asse con il volto di Johanna, un letto con tutti gli attributi iconografici che denotano le pratiche assistenziali del fine-vita.
Arne de Tremerie, Anne Deyglat, Staf Smans, Princess Isatu Hassan Bangura sono quattro sconosciuti, le increspature più taglienti della loro vita che non si era intrecciata fino al casting per lo spettacolo, sono l’unico movente della loro compresenza. La drammaturgia è un lavoro di maglia ordito da Carmen Hornbostel, che procede per accostamenti apparentemente bruschi fra una voce e l’altra, come un medley senza nuance. Non c’è un vero dialogo, solo piccoli scambi situazionali per porgersi la voce, mentre ciascuno ricompone la geografia mnestica del proprio dolore, o meglio grief. Quello sprofondare con gli occhi rivolti al pubblico, amplificato dai primi piani ripresi da una camera in scena, ritaglia intorno alle quattro figure le forme di un polittico. La fissità del tema iconografico è declinato in musica da Clémence Clarisse, in un angolo della scena col suo violoncello come una quinta voce dell’ensemble. L’azione ricalca la gestualità delle opere di misericordia: Arne, Anne e Princess sostengono, lavano e depongono il corpo di Staf, che ci confida della sua malattia terminale. Biografia e finzione si fiancheggiano come pennellate giustapposte, come la biofiction nella vita dei santi. Alcuni tratti biografici sono verificabili online: lo spettacolo ci impone la curiosità della verifica, ma c’è pur sempre un limite oltre cui è dato solo sospendere l’incredulità, anche in questo teatro della realtà. Simbolo di questo paradosso che è il teatro di Milo Rau, gli oggetti di scena donati da Johanna: una trapunta, un pendolo, gufi impagliati. Presenze quotidiane d’affezione, la cui matericità diviene essenza mistica come nei ninnoli funerari di una civiltà antica.
Siamo chiamati a stare con Johanna mentre il suo respiro si fa breve, la pelle trascolora: il video documenta il momento della morte, con un focus sul volto. Come, dove ci collochiamo rispetto all’eccesso dell’immagine? È questa condivisione un’esibizione pornografica? Quanto è radicato in noi il tabù, nonostante il lavacro quotidiano di immagini mortifere fra guerre e pandemia? Eppure Grief and Beauty non è uno spettacolo sull’eutanasia: accettarlo è difficile, proprio perché vuol dire demistificare l’enormità dell’evento filmato, ammettere che la morte è vita e come tale può, anzi deve entrare in scena. Come sempre, l’opera di Milo Rau manifesta un impegno radicale, diretto, senza intellettualismi, attento sin dal processo di scrittura e casting a selezionare figure e temi rappresentativi di diverse età, generi ed etnie – materia rara sulle scene nostrane. Qui il regista e autore ci strattona al centro della rimozione di massa della morte, della vergogna che relega anziani e morenti in ovattati (benché spesso efficientissimi) hospice ai margini della città. E una volta lì, nel cuore della perdita, ci suggerisce che la stessa rimozione della morte individuale può celare la rimozione della morte collettiva dell’antropocene. È soprattutto Anne, veterinaria in pensione, a carezzare il tema, mentre enumera, ricorda e intona le voci di specie volatili estinte o quasi. Il teatro può essere questo dialogo impossibile coi morti e con chi muore. La traduzione, si sa, è un’arte impossibile.
La civiltà oltre il dolore. Di Simone Nebbia
È una prospettiva di sofferenza, per questi nostri occhi, il paesaggio di una morte. Ne viviamo spesso una percezione appesantita e distorta, come se ogni morte si somigliasse e anche la sofferenza che produce fosse un atto della burocrazia in cui siamo costretti a passare la vita. Eppure, come accade in questo Grief & Beauty di Milo Rau, il dolore potrebbe sciogliersi in consapevolezza, ognuno potrebbe accogliere quella sofferenza e affrontare il passaggio con serenità e non più paura, la vita di chi resta saprebbe allora distinguere il passato dal futuro, il lutto che trattiene dalla levità del lasciar andare. L’eutanasia, questo il tema tra i temi nello spettacolo del regista svizzero, è per etimologia “la buona morte” che si raffronta, almeno nell’immaginario e non in scena, a una morte che definiamo più naturale, non determinata. Qui non è sede per discutere quale sia davvero la costrizione, la privazione di libertà, perché non è di questo che Milo Rau vuole dibattere, ma di quella relazione tra il dolore e la bellezza, come da titolo, un dolore per il lutto, per la perdita su più larga scala semantica, un dolore che intride la nostra società e la spinge in basso come la pressione di una nebbia perenne, mentre invece all’altro lato del cielo esiste un candore privo di giudizio, là dove gli esseri umani si sottraggono alla dipendenza dall’immagine che la società dipinge per loro, uno spazio di assoluta dignità nel vivere anche la morte come una scelta, come un atto di coraggio e non di rassegnazione.
L’interno di una casa, là dove finirà la vita di qualcuno, uguale a mille altre abitazioni in cui finisce la vita di qualcun altro, che perderà il nome e conserverà solo il numero di protocollo all’agenzia che si occuperà della sepoltura. Discutere questo anonimato della morte mi sembra la scelta più grande che si nasconde nello spettacolo, far affiorare di nuovo la specificità dell’umano in vita anche quando la vita, presto, non sarà più. E c’è bisogno, tanto bisogno, che gli artisti sappiano mostrare il coraggio, fuori dalla retorica, per affrontare i temi urgenti della società, esprimere i termini di un discorso di civiltà; quello schermo su cui appare la donna che ha deciso di abbandonarsi liberamente all’oscurità che non conosce eppure accetta, è il simbolo di una profonda disponibilità a farsi carico del peso del mondo, per dire a chi resta che in fondo, quel peso, è poca cosa se confrontato con la bellezza del vivere, da conservare anche quando la bellezza, al confine dell’esistenza, è del morire.
Eccesso di realtà o gesto politico? Di Andrea Pocosgnich
Nella capitale del paese che ha bocciato un referendum voluto dai cittadini sul fine vita un regista di fama internazionale mette in scena una riflessione sulla morte, mostrando al pubblico in sala il momento del trapasso. Radicale come sempre Milo Rau, senza compromessi, ma che fastidio questa volta: io, spettatore, vengo posto, nella collettività della platea, di fronte a qualcosa di così ultimo, personale e potente senza difesa alcuna, una sorta di cura Ludovico in cui l’arte non vuole fare da schermo o da interpretazione della realtà ma solo da veicolo.
Un’anonima casa ricostruita in scena, uno schermo sopra di essa, nella dimensione della rappresentazione teatrale le attrici e gli attori recitano la morte di uno di loro; siamo nel solito ambito di Milo Rau nel quale gli interpreti non professionisti si mescolano con i professionisti e il racconto corale è il risultato delle narrazioni parallele dei singoli attori/autori. Il collante non è solo la morte che torna in ogni biografia, ma l’incontro con il fare teatro, con il gioco e mestiere della recitazione. Anche lo schema registico relativo alla messinscena è quello tipico (ormai quasi di maniera) dell’autore e direttore del teatro nazionale di Gent: monologhi e dialoghi, per lo più da seduti, nell’interno della scena (con la camera ben puntata e il primo piano proiettato sullo schermo) e poi il classico assolo in proscenio, al pubblico. Sono le esperienze personali a dominare le linee narrative, così come personalissima d’altronde è l’esperienza del trapasso per Johanna che accetta di essere ripresa proprio nelle sue ultime ore. Ancora di più che in altri lavori, nonostante quello di Rau sia evidentemente un teatro di parola, ciò che manca è il dibattito di idee, la parola come strumento di conoscenza, come se la scena non possa accogliere altro che non sia il vissuto personale. E poco importa quanto siano veri o inventati i racconti che ascoltiamo, è la prospettiva ad essere esasperatamente in prima persona. Tanto che dal punto di vista drammaturgico non c’è neanche un reale bisogno che queste storie si parlino, al di là di quella congiunzione data dal luogo geografico e teatrale. Un’attrice proveniente dalla Sierra Leone racconta la propria esperienza da migrante, è lei a “interpretare” il ruolo dell’infermiera in scena ed è l’unica a parlare in inglese (nel manifesto di qualche anno fa Rau prescriveva l’uso di almeno due lingue in ogni produzione).
Ma in fin dei conti tutto sembra fare da cornice di attesa al momento saliente, quando l’attenzione è focalizzata sul grande schermo: Johanna di fronte ai nostri occhi chiude i suoi e non respira più. Accade lo stesso sul palco a Gustaaf Smans (settantenne, pensionato e ora attore), disteso sul letto, con gli amici attorno. Si sente la commozione del pubblico, qualche naso che tira su, alcuni spettatori diranno di aver vissuto questi momenti come una violenza. Uscendo mi colpiscono subito due pensieri: il primo riguarda il mio approccio al teatro, non mi siedo in platea per vedere qualcuno che muore per davvero, anche se in un video registrato; il secondo è più ampio, penso a questa donna, l’immagine del suo ultimo respiro verrà proiettata per decine di repliche internazionali, di fronte a migliaia di persone, per un atto politico. In questo eccesso di realtà rimane l’immagine del gruppo attorno al singolo morente che ha scelto di andarsene per non soffrire più. Ma appunto, messa in scena in questo modo, senza il filtro dell’arte, quell’immagine rischia di essere una tautologia che poco aggiunge al dibattito oltre al carico emotivo che ognuno di noi può trovarci.
Settembre 2022, Teatro Argentina di Roma. Romaeuropa Festival
Prossime date in calendario tournée
8,9 ottobre 2022 Teatro Metastasio di Prato
12-14 ottobre 2022 Teatro Nazionale di Genova
GRIEF AND BEAUTY
Teatro Argentina, Roma, settembre 2022
di Milo Rau
con Arne De Tremerie, Anne Deylgat, Princess Isatu Hassan Bangura, Gustaaf Smans, Johanna B. (in video)
drammaturgia Carmen Hornbostel
coach e assistente drammaturgo Peter Seynaeve
scena e costumi Barbara Vandendriessche
musica Elia Rediger
musica dal vivo Clémence Clarysse
camera Moritz Von Dungern
luci Dennis Diels
assistente alla regia Katelijne Laevens
produzione NTGent, in coproduzione con Tandem Sceène Nationale Arras – Douai, Künstlerhaus Mousonturm Frankfurt, Romaeuropa Festival, Teatro Nazionale di Genova