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Fabio Condemi e l’enigma Pasolini

Calderón è il nuovo spettacolo di Fabio Condemi, sul testo di Pier Paolo Pasolini, andrà in scena prima a Bologna e poi a Lugano. Intervista.

Fabio Condemi è uno dei registi più interessanti tra quelli emersi negli ultimi anni, appartiene alla generazione under 40 su cui ha puntato anche Antonio Latella con le attività di scouting della Biennale Teatro diretta dal 2018 al 2020. Ferrarese di nascita, classe 1988, diplomato alla Silvio D’Amico nel 2015, il suo stile si contraddistingue per il rigore con cui definisce lo spazio scenico, il lavoro con gli interpreti e la scelta di testi poco frequentati ma di alto valore letterario;  Fabio Condemi è in procinto di debuttare a Bologna con Calderón di Pier Paolo Pasolini: produzione importante e cast di primissimo piano formato da Valentina Banci, Matilde Bernardi, Marco Cavalcoli, Michele Di Mauro, Carolina Ellero, Nico Guerzoni, Omar Madé, Caterina Meschini, Elena Rivoltini, Giulia Salvarani, Emanuele Valenti; lo spettacolo fa parte di “Come devi immaginarmi”, progetto ideato dal direttore di ERT Valter Malosti insieme al critico d’arte Giovanni Agosti, che prevede l’allestimento di tutte le opere teatrali di Pasolini. Tra febbraio e marzo del 2023 Condemi andrà in scena anche al Teatro India di Roma con Nottuari, ispirato alle opere di Thomas Ligotti. Lo raggiungo telefonicamente qualche giorno prima del debutto, mentre è in pausa, ha una voce calma e ferma.

Las Meninas di Velázquez

Bestia da stile come saggio d’accademia, Questo è il tempo in cui attendo la grazia e ora Calderón, nell’anno del centenario dedicato a Pier Paolo Pasolini non potranno accusarti di essere un frequentatore superficiale. Cosa ti attira del più popolare intellettuale del secondo Novecento italiano?

Sento il confronto con la sua idea – di letteratura, di teatro e di rappresentazione – formativo per me. La lettura di Pasolini ha influenzato tantissimo anche quei lavori basati non direttamente sui suoi testi, come il mio lavoro su De Sade, La filosofia nel boudoir. Dal momento in cui ho incontrato il teatro di Pasolini in accademia, tentando la messinscena di Bestia da stile in forma di saggio, penso che il mio sguardo sulla regia sia mutato. Mi sono reso conto che i testi di Pasolini ti spingono sempre a un confronto molto profondo con l’idea di teatro e di rappresentazione: in essi ci sono così tante possibilità, in grado di aprire ogni volta diversi ventagli di scelte, e tutto questo è molto stimolante. Poi, naturalmente, la scoperta di Pasolini come scrittore risale ai tempi del liceo, credo di aver letto Pasolini in quel modo così appassionato e radicale con cui si leggono i poeti che si amano a sedici anni, per me Pasolini è quella scoperta… Le ceneri di Gramsci lette in giro per le strade di Pesaro.

Calderón, unica opera teatrale di Pasolini pubblicata in vita, nel ’73, è forse il suo testo teatrale più complesso, ma anche il più maturo. C’è il contesto onirico, quello politico, quello del commento teatrale. Nel 2016 Federico Tiezzi ha messo molto in evidenza il lato onirico e ironico. Come ti sei approcciato al testo e alla sua messinscena?

C’è un passo molto interessante di Pasolini su Calderón, nel quale l’autore parla del suo testo più riuscito paragonandolo formalmente alle Ceneri di Gramsci. Questo paragone per me è stato fondamentale perché ho ritrovato proprio quella densità poetica. Non ho visto quello di Lombardi/Tiezzi in scena, solo alcuni materiali online… Però di Calderón mi interessa il fatto che si parli di realtà, il meccanismo dei sogni (in cui si ritrova Rosaura con i suoi risvegli) serve a parlare di realtà e proprio il termine realtà è molto presente nel testo. Ed è una cosa sulla quale ci siamo interrogati tantissimo con gli attori: capire il perché, dall’inizio, in ogni scena, fino alla fine sia presente la parola “realtà”, naturalmente abbinata al tema del sogno. Mi sembra che ci sia una domanda sotterranea: che cos’è la realtà? Penso che questa domanda sotterranea, unita all’ossatura secentesca di La vita è sogno di Calderón de la Barca, faccia del testo pasoliniano un classico e un testo importante, che io sento invecchiare pochissimo con il tempo. Perché poi è una drammaturgia che parla anche del ‘67 e del ‘68 e dunque potrebbe risultare datata, ferma a quel periodo, ma questa interrogazione della realtà attraverso il tema del sogno, unita a un nucleo centrale rappresentato dal quadro di Velázquez, Las Meninas, fa sì che abbia quelle caratteristiche intese da Calvino per essere un classico, un’opera che continuamente si rigenera e si arricchisce al nostro sguardo. Lo dico semplicemente da lettore. Per ciò che riguarda la messinscena penso che il testo sia anche un enigma sulla rappresentazione, cioè ci chieda cosa voglia dire rappresentare, cosa voglia dire essere dentro e fuori la rappresentazione. Non è un caso che Paolini abbia dato al testo il nome (Calderón) dell’autore del capolavoro secentesco a cui si rifà. Perché l’autore (ovvero lo scrittore e il poeta) è presente nella drammaturgia, come figura inserita nel mondo del potere che cerca di descrivere e a volte di combattere. E poi c’è questo tema dello sguardo dentro e fuori il quadro, rappresentato dalla bambina che guarda verso di noi, ma che in realtà guarda i regnanti fuori dal quadro (riflessi nello specchio dietro di lei).

Foto Luca Del Pia

In questo paesaggio di enigmi che è il testo di Pasolini come hai lavorato con gli attori e le attrici? Hai dovuto modificare qualcosa rispetto al solito? Tra l’altro questo è il tuo primo lavoro senza Gabriele Portoghese…

È vero. Io e Gabriele abbiamo scoperto insieme il teatro di Pasolini facendo Bestia da stile. Lì, ci siamo resi conto che quei versi avevo bisogno di essere “detti”, che non avevano un valore solo letterario, ma anche teatrale. L’ho capito proprio mentre Gabriele leggeva Bestia da stile, ci siamo trovati ad emozionarci insieme.
Per me è molto importante fare un percorso con gli attori, che sia intellettuale e di pratica allo stesso tempo. Con Pasolini si sente subito quando manca qualcosa, quando l’attore sta utilizzando solo il proprio mestiere; deve emergere anche un pensiero dell’attore insieme al testo. Il momento iniziale, la cosiddetta lettura a tavolino, è per me molto importante, paziente, pieno di comprensione e pensiero, un processo che si anima anche di intuizioni attorno al testo. In Calderón Pasolini prende importanti posizioni, anche come essere umano. È mia abitudine arrivare alle prove con un progetto molto preciso, ho tentato di creare una sorta di macchina intorno al testo…

Foto Luca Del Pia

So che utilizzi anche dei disegni, delle storyboard…

Sì, c’è un lavoro sul progetto, anche solitario, che io faccio prima, e mi aiuto con il disegno, è un lavoro non semplice ma che mi permette di arrivare con un’idea precisa, da verificare con gli attori. Perché poi c’è una sorta di incontro chimico tra l‘idea formata nella mia testa e i corpi, le parole e i pensieri degli attori. Faccio fatica a lavorare con le improvvisazioni ad esempio, è una pratica che mi mette a disagio.

Secondo te dal punto di vista relazionale questa relazione tra regista e attori/attrici è cambiata negli ultimi anni? Abbiamo imparato qualcosa ad esempio dalla denuncia delle performer di Jan Fabre? Stiamo mettendo in crisi un certo modello forse troppo piramidale?

Io credo molto nel senso di responsabilità: la responsabilità delle scelte è mia, non ho mai pensato alla possibilità della creazione collettiva, non mi ha mai interessato firmare insieme agli attori una drammaturgia (almeno fino ad ora). Questa freddezza, data dalla responsabilità, mi aiuta anche ad allontanarmi da quel concetto di cui parlavi, e forse io non parlerei di modello piramidale, ma di quell’aura da guru… ecco quella è una modalità che detesto. Si lavora tutti insieme e deve esserci un grande rispetto. Per questo dico che lavorare sulle improvvisazioni mi mette a disagio, non voglio entrare nel privato delle persone. Questo secondo me consente agli attori e ai tecnici di sentirsi protetti e rispettati: c’è un bel clima, anche ora nelle prove di Calderón, nonostante siamo un gruppo numeroso, formato da 11 interpreti, tanti tecnici… il rigore salva dall’idea, molto violenta, del regista che deve insegnare o imporre una propria visione come fosse un vate. Ho letto degli scritti di Andrej Tarkovskij in cui spiegava che secondo lui un’idea va anche protetta, non bisogna rivelarla troppo ai propri collaboratori; se si passa troppo tempo a parlare si rischia di mettere in scena delle idee, io invece voglio costruire dei castelli.

In Italia si parla spesso di fine del teatro di regia. Tu ti rivedi in quella linea di discendenza, degli ultimi decenni, che va da Castri a Ronconi, fino a Latella?

La fine di qualcosa (un amore, una tradizione) è sempre un momento pieno di una bellezza struggente e unica. Ben venga la fine. Il teatro di regia finisce da anni ormai, «non con uno schianto ma con un lamento», e a me piace questo senso di fine, questa strada vecchia che percorrono in pochi, molto più dei viali luccicanti delle varie mode teatrali.
Però le mie passioni non vengono dal teatro, su questo devo essere sincero: il teatro è stato un incontro molto tardivo, non so se lo amo. Amo la musica, l’arte figurativa, la lettura, queste mi hanno formato. Quando mi sento perso ritorno sempre alla letteratura ad esempio, non penso al teatro. Ora sto leggendo Mircea Cărtărescu: Solenoide è un libro folgorante per me, che propone una serie di possibilità che vanno oltre la tradizione del teatro. Naturalmente per me Latella è stato fondamentale, l’intuizione di quel bando alla Biennale rivolto ai giovani registi è stata davvero coraggiosa, nel segno di una scommessa. Verso Ronconi invece mi sento profondamente in debito, per la sua intelligenza, la sua cultura, il modo con cui leggeva i testi, vedendolo al lavoro si vede la sua grandezza, al di là dei risultati dei singoli spettacoli. Con il Calderón poi abbiamo anche un legame con Santacristina, abbiamo provato in quegli spazi.

Foto di Stefano Triggiani

Quali sono gli spettacoli che ti hanno positivamente scioccato come spettatore e dunque hanno segnato in qualche modo la tua formazione?

Qualche giorno fa un attore in compagnia ha proposto un gioco simile chiedendo quali fossero gli spettacoli più importanti. C’è un momento molto centrale per me ed è la prima volta in cui ho visto in scena Carlo Cecchi. Era a Genova con Sogno di una notte di mezza estate, la sala era quasi vuota, faceva freddissimo fuori; Cecchi entrò per parlare con il pubblico, dato che eravamo pochissimi, poi a un certo momento uscì lasciando gli attori da soli in scena, per rientrare poi con i guanti e la sciarpa. Ecco, questa modalità, quasi da gatto dolente del palcoscenico, per me è stata una folgorazione. Un altro spettacolo importantissimo è stato Four Season Restaurant di Romeo Castellucci, quel momento in cui le ragazze si tagliano la lingua fu molto potente. E poi, visto alla Biennale di Venezia, Das Weisse vom Ei/Une île flottante, di Christoph Marthaler, una sorta di vaudeville ripensato dal regista svizzero, uno spettacolo in cui ho riso tantissimo, in modo anarchico, per il modo con cui riusciva a far vacillare la realtà sotto gli occhi dello spettatore. Ma era uno spettacolo anche di grande rigore, di altissima qualità e cultura musicale. È quella qualità, per mezzo della quale si cerca di camminare su un filo, che io cerco. Walter Benjamin descriveva i personaggi di Robert Walser come se uscissero dalla notte più nera, dalla notte veneziana; ma sono anche personaggi che camminano sul limite tra la notte e il giorno con un bagliore negli occhi, come se fossero sull’orlo di qualcosa, senza cadere mai. A me interessa questa sensazione terribile, che c’è anche nel teatro di Marthaler, in cui si intravede il baratro.

Andrea Pocosgnich

Date in calendario e tournée

Bologna, Arena del Sole, dal 3 al 6 novembre 2022

Lugano, LAC Lugano Arte e Cultura, 22-23 novembre 2022

Calderón

di Pier Paolo Pasolini
regia, ideazione scene e costumi Fabio Condemi
con (in o.a.) Valentina Banci, Matilde Bernardi, Marco Cavalcoli, Michele Di Mauro, Carolina Ellero, Nico Guerzoni, Omar Madé, Caterina Meschini, Elena Rivoltini, Giulia Salvarani, Emanuele Valenti
scene, drammaturgia dell’immagine Fabio Cherstich
costumi Gianluca Sbicca
luci Marco Giusti
disegno del suono Alberto Tranchida
assistente alla regia Angelica Azzellini
produzione Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, LAC Lugano Arte e Cultura
in collaborazione con Associazione Santacristina Centro Teatrale
nell’ambito del progetto “Come devi immaginarmi” dedicato a Pier Paolo Pasolini

un ringraziamento a Acondroplasia Insieme per crescere Onlus

foto delle prove Luca Del Pia
immagine anteprima Photographic Archive Museo Nacional del Prado

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Andrea Pocosgnich
Andrea Pocosgnichhttp://www.poxmediacult.com
Andrea Pocosgnich è laureato in Storia del Teatro presso l’Università Tor Vergata di Roma con una tesi su Tadeusz Kantor. Ha frequentato il master dell’Accademia Silvio D’Amico dedicato alla critica giornalistica. Nel 2009 fonda Teatro e Critica, punto di riferimento nazionale per l’informazione e la critica teatrale, di cui attualmente è il direttore e uno degli animatori. Come critico teatrale e redattore culturale ha collaborato anche con Quaderni del Teatro di Roma, Doppiozero, Metromorfosi, To be, Hystrio, Il Garantista. Da alcuni anni insieme agli altri componenti della redazione di Teatro e Critica organizza una serie di attività formative rivolte al pubblico del teatro: workshop di visione, incontri, lezioni all’interno di festival, scuole, accademie, università e stagioni teatrali.   È docente di storia del teatro, drammaturgia, educazione alla visione e critica presso accademie e scuole.

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