Recensione. A Torinodanza, la compagnia di Emanuel Gat con Lovetrain2020, interamente danzato su musiche del leggendario gruppo inglese new wave Tears for Fears, dimostra come le componenti sensoriali e sonore di una coreografia possono allargare, nello spettatore, i limiti dello psichico e del somatico. Prossime date italiane: 27 ottobre a Brescia, 30 ottobre al Teatro Verdi di Padova e 26 marzo a Reggio Emilia.
Dopo il felicissimo passaggio estivo della compagnia di Emanuel Gat a Bolzanodanza, con uno straordinario lavoro pieno di scelte rischiose e un profluvio di ottima danza sapientemente coreografata, finalmente da quasi morirne (ma di gioia), la visione dell’altrettanto febbrile Lovetrain2020 proposto dall’imperdibile programma di Torinodanza, approntato da Anna Cremonini, merita qualche riflessione. Si tratta di un lavoro costruito tutto sulla continuità di movimento; un movimento costruito con metodo rigoroso, ma non meno misterioso perché è nell’evidenza che si cela la complessità; movimento anche ruvido ma gioioso, spesso a terra e continuamente riformulato in una attenta cura drammaturgica delle transizioni.
Ma è nel rapporto continuamente generativo con la musica, senza sovranità riconoscibili, ossia senza dipendenze né rivendicazioni, è in questa esplosione celebrativa nella forma di un musical contemporaneo col groove degli anni 80, che traspare anche la forza di un metodo.
LA MUSICA
La prima riflessione è nell’ordine del musicale: la musica per Gat è un principio organizzativo fondamentale del movimento, dunque della psiche degli interpreti, nelle diverse articolazioni dei suoi setting. La logica rimane invisibile ma la musica, nel sapere coreografico di Gat, è anche un principio organizzativo fondamentale della presenza e dei corpi: entrambi sono basati sulle geometrie del tempo, e su processi e meccanismi analoghi, quali la ripetizione, l’imitazione, la variazione, ma anche su piani più strettamente affettivi, quali l’intimità e il lavoro del lutto, del negativo e della nostalgia (i mitici anni ’80…).
Anche il silenzio, le ombre in quinta, le attese e l’assenza di corpi in scena, sono componenti essenziali sia del funzionamento della musica e sia del funzionamento psichico delle presenze degli straordinari interpreti. Il risultato è un continuo sviluppo scenico di funzioni legate alla simbolizzazione e alla relazionalità.
LA RELAZIONE
La seconda riflessione ricade, infatti, nell’ordine del relazionale, che investe la simbolizzazione e le esperienze sensoriali primarie: non possiamo non riconoscere l’uso dello spazio da parte di Gat come una vera e propria categoria esistenziale, secondo il concetto di spazio timico, così come tematizzato da Biswanger, inteso come uno spazio vissuto non omogeneo ma carico di qualità espressivo-situazionali e dotato di una sua specifica tonalità affettiva, le cui modificazioni sono alla base, per chi danza, di così tante reazioni psicoemotive alla propria partecipazione.
È una importante assunzione, altrimenti si potrebbe credere che tutto sia dominato, sommerso e infine subordinato alla musica. Non è così. Qui vince il disegno (spaziale e cinetico), che non ha bisogno di elementi se non appunto lo spazio vuoto e i corpi in movimento che decidono di abitarlo secondo condizioni relazionali di accordo e intesa, di attesa e controllo, di ripartenze e rallentamenti al limite della stasi.
LA HIT
Il noto brano Shout, ad esempio, è un assolo di Michael Loeher tra i più belli di tutto il lavoro: e chi se lo aspettava? Nella mia mente già costruivo per questa hit un carnevale immaginario di corpi senza ordine e misura, capaci di tirare giù il teatro, in un gioioso inno generazionale capace di convertire la nostalgia in terapia per i guasti del presente. Invece, un danzatore prende spazio e resta solo facendo i conti da sé con l’invisibile. Il grido qui non è ingiuntivo, protesta collettiva, scimmiottamento becero della realtà che si pretende osservata nelle strade durante le manifestazioni di protesta, come nella retorica banale di (La)Horde, per intenderci; qui il reale è generato proprio ora, sotto i nostri occhi, per i nostri occhi, come una lotta possibile, sempre alternativa ai discorsi dominanti, ai saperi già acquisiti, perché sempre dentro la relazione con noi.
Anche la nostalgia di questa incredibile musica mostra un aspetto sovversivo che riconsidera potenzialità inespresse di quell’umanità che possiamo ancóra essere. Come anche nei magnifici costumi disegnati e realizzati da Thomas Bradley − vero immaginario al trionfo dell’incompiuto e dell’incondizionabilità del pensiero, del progetto, della coreografia stessa − che mettono in questione, con i corpi che li abitano, ogni principio di sovranità e di potere nella composizione, profetizzando una comunità di danzatori e danzatrici sempre a venire. E vengono proprio così, davanti ai nostri occhi.
Stefano Tomassini
Prossime date in calendario tournée
27 ottobre 2022, Brescia, Teatro Grande
26 marzo 2023, Reggio Emilia, Teatro Municipale Valli
Torinodanza, Fonderie Limone, settembre 2022
LOVETRAIN 2020
EMANUEL GAT
Israele/Francia
durata 75 minuti (senza intervallo)
coreografia e luci Emanuel Gat
creato con e interpretato da Eglantine Bart, Thomas Bradley, Robert Bridger, Gilad Jerusalmy, Péter Juhász, Michael Loehr,
Emma Mouton, Eddie Oroyan, Rindra Rasoaveloson, Ichiro Sugae, Karolina Szymura, Milena Twiehaus o Ashley Wrigh,
Sara Wilhelmsson, Jin Young Won
musiche Tears for Fears
costumi Thomas Bradley
Emanuel Gat Dance
coproduzione Festival Montpellier Danse
2020, Chaillot – Théâtre national
de la Danse, Arsenal Cité musicale – Metz
Theater Freiburg