Dalla Tunisia raccontiamo due festival in connessione con l’Europa, Tashweesh e Dream City
Si sentono ovunque; serpeggiano tra i muri bianchi e le strette ruelles, bisbigliano sugli usci delle case, ti avvolgono nei brulicanti suk, o cadono severe come macigni dagli alti minareti. Voci che sembrano suoni − idioma misterioso, l’arabo – che lasciano solo intuire allo straniero gioia, euforia, a volte rabbia. Voci, che in molta parte di mondo sono sepolte da realtà immobili, prevaricate dai regimi, soffocate sotto i neri burka. Voci che non hanno voce, ma che a volte si cercano e si uniscono, quando a pagare l’amaro prezzo del silenzio è sempre una donna. Forse è questa l’intuizione del Tashweesh – dall’arabo tumulto che infrange il silenzio −, il Festival nato nello spirito dell’alleanza transnazionale dell’attivismo femminista. Ri-presentato nella nuova edizione extended che coinvolge tre città: Tunisi – dal 23 al 29 settembre; Bruxelles – dal 28 settembre all’8 ottobre; e Vienna – dal 7 al 15 ottobre, dopo quella del 2018 tra Berlino e Il Cairo, conta, tra i vari partner produttori, anche la partecipazione di Creative Europe, diventato ormai una vera manna, ricordiamolo, per le tante iniziative culturali internazionali.
“Feminist voices come togheter and speak out”, è questo il motto che le due artiste curatrici – Tania El Koury, direttrice del centro OSUN per i diritti umani e le Arti al Bard College di New York, insieme a Bochra Triki, stesso fervore nell’attivismo politico – indirizzano alle colleghe di Asia Sud Occidentale, Nord Africa e Europa, dando vita, attraverso un fitto programma tra teatro, danza, docu e perfoming arts, a una riflessione sul rapporto tra femminismo e Stato, e tra potere − maschile, ma anche religioso, culturale – e le vite e, soprattutto, i corpi delle donne. Body è infatti il soggetto, o piuttosto un mantra, un loop ossessivo, nello spettacolo di Rima Najd, I grew un Alien inside of me. L’artista libano-newyorkese-berlinese crea, nell’ora di spettacolo, l’ardita relazione tra la vulnerabilità del corpo nella gravidanza e la sua, invece, resistenza nel momento della protesta. Nell’intimo di una tenda circolare montata sul palcoscenico del teatro nazionale di Tunisi – la 4eme art −, trenta spettatori intorno a un tavolo-passerella sono avvolti dall’alternanza di sussurri, fiumi di parole e grida. Una comfort-zone, forse un morbido grembo materno quello tra i bianchi teli che scendono dalla graticcia, dove riecheggiano voci: donne senza volto, ma con un nome; si raccontano: la solitudine del parto o l’ebrezza di confondersi in una folla in rivolta; esperienze, che hanno più il sapore di una segreta confessione, ripescate a caso dagli spettatori da un archivio emotivo racchiuso in una pila di cd, and press play. In questa cerimonia laica, iniziatica, celebrata da una dea primigenia in shorts e microfono, “Il corpo,” dichiara l’artista, “sa sempre cosa sta facendo. È libero di scegliere e agire istintivamente”. Parole – voci – sembrano braccia tese alle tante donne in Iran o a Kabul – o nei movimenti occidentali del me too o contro la pressione dei partiti antiabortisti −, che in queste ore mortificano o rendono esecrabile i loro corpi, che chiedono soltanto, mentre i capelli cadono in terra, di tornare liberi.
Immagini dell’Egitto 2011− la primavera araba è ancora argomento scottante – proiettate sui teli dalla visual designer Ana Nieves Moya, mentre sceglie oggetti che altera sotto una luminosa lente, creano nuove forme e nuovo senso a strane isotopie del femminile – neri fili di lana che una mano divarica −; metafore tabù di cui si può solo accennare nel buio dello spazio scenico. È allora (im)possibile, si domanda Nikita Dhawan, una solidarietà tra femminismo nel mondo? Nella sua conferenza di apertura del festival, la militante indiana punta un faro nel caos dell’attivismo nel mondo: un nervo scoperto, fragile, quando le proteste delle diverse diseguaglianze sembrano opprimersi a vicenda, e l’Arte allora può soccorrere, nell’inclusione, quando i popoli emigrano e le culture si scontrano. Le mani si alzano nella sala gremita all’Art Rue – organizzatori e produttori del Tashweesh festival − tra le domande e gli artisti nella splendida sede del Dar Bach Amba, tempestato di smalti e colonne di marmo, ex sede della Fondazione Orestiadi, fuggita a gambe levate all’indomani della rivoluzione, e mai più ritornata. Creata dalla coppia di danzatori Selma e Sofiane Ouissi, a metà strada tra Woodstock e la cultura nerd, e i profumi di spezie delle Mille e una notte, tra i suoi cosmopoliti capannelli si parla inglese, francese, arabo, si fuma narguilé, sotto sorprendenti cascate di bouganvilles, mentre si è in collegamento con Beirut o Londra. Uno di quei luoghi insomma dove partoriscono le idee, si lasciano modellare come argilla, e magari si realizzano come solo i sogni a volte sanno fare. Non è un caso allora che Dream City sia arrivato alla sua ottava edizione.
Il Festival d’art dans la cité, con cadenza biennale, è in scena dal 30 settembre al 9 ottobre, e conta sulla partecipazione di ottanta artisti − ritorna Emel Mathlouti, la cantante protagonista di un inno della Rivoluzione dei Gelsomini, e c’è l’italiana Rossella Biscotti − che allestiranno i loro spettacoli dal vivo tra le vie, nelle case, i tetti della medina di Tunisi. L’ambizione del progetto, al di là dei tanti eventi e dibattiti, è l’interazione col patrimonio architettonico e l’altrettanto capitale umano dei suoi abitanti. Nel delicato tessuto della medina di Tunisi, sede di realtà disomogenee, tra cultura popolare, vita borghese, forti tradizioni legate all’Islam e angoli di miseria e abbandono, si crea un laboratorio permanente; gli artisti non sono solo ospitati, ma chiamati a risiedere nella medina, allo scopo ultimo di “modellare un avvenire insieme”, come dichiarato dai fondatori. Pietre morte, anime vive, difficile è la convivenza negli angoli remoti della società, a noi italiani per niente estranei, e l’arte, lo spettacolo dal vivo, com’è noto a tutti, può affrontare la natura più sensibile di un territorio. Dream City sembra allora un perfetto esempio di Welfare, se lo scopo è illuminare angoli di mondo dimenticati, e restituire, o almeno alzare il volume delle voci di coloro che vi abitano, e portarle oltre la cortina dell’indifferenza; tenendo sempre in mente però l’amaro principio che: “non è mai la voce che comanda la storia:”, come dice Italo Calvino, “sono le orecchie”.
Fabrizio Calvini