Recensione. A distanza di quasi 30 anni dalla prima messa in scena, il Teatro dell’Elfo apre la stagione con Alla greca, riscrittura dell’Edipo di Steven Berkoff diretto da Elio De Capitani. Visto al Campania Teatro Festival. Da oggi in scena a Milano fino al 13 novembre
Un classico è tale quando parla del tempo oltre il tempo, quando cioè esprime una condizione universale dell’umano a prescindere dalle circostanze particolari derivate dall’ambiente, dalle occasioni epocali in cui l’umanità si manifesta. E allora non è raro incontrare opere eterne che sanno esprimere quella condizione attraversando stadi evolutivi ed esperienze differenti, opere che dall’epoca classica hanno viaggiato lungo il tempo per raggiungere il nostro e, ogni volta, rinnovarne il segno distintivo. È quello che accade per esempio all’Edipo di Sofocle, la cui riscrittura operata da Steven Berkoff nel 1980, con il titolo Alla greca, è riproposta oggi dalla regia di Elio De Capitani che apre la stagione del Teatro dell’Elfo di Milano (visto però al debutto in luglio per il Campania Teatro Festival), ma che già il regista milanese aveva proposto in una prima produzione del 1993.
Questa ricorrenza lungo i millenni sul piano testuale e lungo i decenni sul piano della regia sta a indicare, pertanto, che un classico di questa portata dialoga con diverse istanze della società, ne accoglie il segnale di trasformazione oppure addirittura tale trasformazione la induce, la accompagna: il testo di Berkoff è di per sé un ritratto della società britannica che si stava affacciando sul decennio decisivo degli anni Ottanta, quello che avrebbe portato a conclusione le dinamiche storiche del secondo Novecento, ma il riverbero che questo testo ottiene sugli anni Novanta, soprattutto in quell’Italia della Repubblica mediatica, è particolarmente evidente, finché il suo effetto raggiunge addirittura questi nostri giorni in cui l’impazzimento delle categorie storiche ha raggiunto forse il suo apice.
Sulla scena disegnata (già nella prima versione) da Thalia Istikopoulou ci sono tre piani sovrapposti, sorretti da una struttura tubolare che ricorda le impalcature degli edifici in ristrutturazione; scale in legno sono nel mezzo tra i livelli, permettendo così l’accesso dei personaggi da un piano narrativo all’altro; all’ultimo è l’orchestra di musica dal vivo.
Una barra sospesa, basculante da un lato all’altro della struttura, è fondamentale nel definire orizzontalmente la penetrazione percussiva e verticale dei monologhi; questa ricerca di verticalità, infatti, dispone gli avvenimenti in una sequenza narrativa che sale e scende, facendo confluire poi verso il basso gli eventi cardinali della vicenda: Eddy (prova muscolare e sostanziosa di Marco Bonadei) è su un podio posizionato sulle assi del palco, mentre al livello superiore sono i genitori – Cristina Crippa e lo stesso De Capitani, che sapremo poi essere non naturali – intenti a leggere le notizie del giornale, divertenti vecchi di periferia in abiti da clown (costumi di Andrea Taddei) che sembrano personaggi di una fiaba natalizia.
L’identità è ancora nascosta a Eddy, è un giovane punk violento e sicuro di sé che non conosce il proprio destino e quello della propria terra; in un pub londinese di basso rango scoprirà la sorte che lo aspetta ma, contrariamente all’Edipo sofocleo, ne avrà non più che una scalfittura, assumendo su di sé la colpa storica della incestuosa tragedia con crescente indifferenza. Ucciderà il proprio padre Laio (ancora De Capitani, in un doppio ruolo), sposerà la propria madre Giocasta (una guizzante Sara Borsarelli), sfiderà e vincerà l’enigma della Sfinge (esplosiva Cristina Crippa, una Gorgone avvolta da pellicce e dreadlocks) in una gara di insulti della peggiore specie.
Quello del testo è un linguaggio furioso ed esplicito, le cui parole si ha la sensazione escano da un pistone meccanico, ma allo stesso tempo vi appaiono delle tendenze liriche, una partitura che vira da immagini poetiche alla pornografia estremizzata; l’oscenità vi esplode attraverso un’ironia aspra e senza argine i cui colori forti sono esplicitati dal commento circense della musica di Mario Arcari, che trasforma alcuni monologhi in canzoni blues da balera.
La satira che Berkoff dedica all’Inghilterra thatcheriana sembra oggi, nell’Occidente sclerotizzato, un affresco diluito del rapporto tra welfare e famiglia, una spinta magmatica dal basso che ne evidenzia la distanza insanabile: quello stesso Occidente che ha scelto deliberatamente di non porre freno al capitalismo perché diventasse imperante, riverbera in un Edipo risentito e violento, invaso da una spinta allo sviluppo eterno di sé stesso, reso cieco non per condanna autoinflitta ma dall’incapacità di coscienza nell’essere fulcro di una nemesi storica. E dunque l’Edipo punk della prima parte, che nella seconda si fa borghese e vive in una zona quieta nell’illusione di benessere che nasconde il lercio sotto il tappeto dei quartieri malfamati, non è che l’effige diversa di una stessa moneta sonante, con cui l’intera società ha pagato e sta pagando un prezzo che non potrà permettersi a lungo.
Simone Nebbia
Visto al Campania Teatro Festival, Napoli – luglio 2022
Teatro dell’Elfo 21 ottobre – 13 novembre 2022
ALLA GRECA
di Steven Berkoff
traduzione di Carlotta Clerici e Giuseppe Manfridi
regia di Elio De Capitani
con Cristina Crippa, Elio De Capitani, Sara Borsarelli, Marco Bonadei
costumi di Andrea Taddei
scene di Thalia Istikopoulou riprogettate e realizzate da Roberta Monopoli
musiche di Mario Arcari eseguite dal vivo da Mario Arcari, Tommaso Frigerio, Giosuè Pugnale
luci di Nando Frigerio
suono di Marco Sorasio
assistente alla regia Alessandro Frigerio
assistente ai costumi Elena Rossi
produzione Teatro dell’Elfo e Campania Teatro Festival