È appena terminata la settima edizione de Le notti delle Sementerie, rassegna estiva di Sementerie Artistiche, all’interno di Bologna Estate, organizzata nelle campagne bolognesi in un’azienda agricola in parte riconvertita nei pressi di Crevalcore, dove si svolgono attività laboratoriali, residenze e spettacoli invernali.
Di primo acchito verrebbe da pensare che l’universo agricolo e il mondo teatrale non abbiano poi molto in comune, che i loro canoni, le loro pratiche e i loro mestieri, la gente che li vive e attraversa non solo professionalmente non abbiano granché da spartirsi. Forse è vero, ma solo in parte. Perché lo è altrettanto che gli equilibri possono risiedere nelle antitesi e che le differenze si fanno o si prova a farle dove nessun altro tenta o ritiene sia pensabile. Probabilmente ciò che più li accomuna è l’immanenza di certi attimi di bellezza e la fatica di un’applicazione costante, ma soprattutto la densità dei vuoti. «Posso prendere un qualsiasi spazio vuoto e chiamarlo “palcoscenico vuoto”. Un uomo attraversa questo spazio vuoto mentre qualcun altro lo guarda e questo è tutto ciò di cui ho bisogno per dare inizio a un’azione teatrale» sostiene d’altronde Peter Brook in un testo fin troppo conosciuto, citato e riciclato un’infinità di volte, per dire che il teatro è ovunque si crei un rapporto di visione, prodotta, agita e restituita.
Da Bologna è sufficiente raggiungere e superare San Giovanni in Persiceto, arrivare nel territorio di Crevalcore e poi prendere una strada che conduce a un vialetto nelle campagne emiliane. L’arrivo al calare del sole è segnato dall’aria ferma dell’estate inoltrata, destinata a stemperarsi e diradarsi poi tra gli spazi aperti di alberi e campi coltivati. Superato un agriturismo, quanto ci si schiude o forse ci si rivela all’ingresso alle Sementerie Artistiche è un luogo, certo, a una quarantina di minuti dalla città, ma anche una dimensione che pare invece autosufficiente, in qualche modo vicinissima seppure lontana anni luce. Tra le zone battute e l’erba tagliata, le viti rampicanti si intrecciano sul pergolato di una piccola area bar e fanno capolino tra le file di lampadine che illuminano le sdraio e le sedie, le tavolate dove è possibile appoggiarsi per mangiare un boccone. Una dimensione si diceva, perché tutto rivela la vocazione del posto, la sua matrice contadina, dai silos ai capannoni, ma allo stesso tempo ogni cosa appare ricalibrata con una cura semplice, inserita in un altro contesto di pensiero e fruizione, con cui tuttavia convive in armonia e che non ne determina lo snaturamento.
Il progetto Sementerie Artistiche nasce nel 2015 da Manuela De Meo e Pietro Traldi, entrambi diplomati alla Paolo Grassi, nel 2011 si trovano insieme nel Karamazov di César Brie con cui continueranno a collaborare tra Italia e Argentina, paese quest’ultimo con cui conservano tuttora una sinergia professionale, in particolare con il Banfield Teatro Ensamble di Buenos Aires. Dopo il terremoto del 2012, grazie ai fondi stanziati per la ricostruzione, pensano di destinare i contributi regionali alla riqualificazione di alcune strutture presenti all’interno dell’Azienda Agricola Valle Torretta per trasformarle in una sorta di avamposto creativo nelle campagne bolognesi. L’intenzione e il senso di luoghi come questo è o dovrebbe essere quello di decentrare lo sguardo, di lavorare sulle comunità lontane dai grandi circuiti e dalle tante possibilità che i grossi centri offrono inevitabilmente. «Per noi il teatro è un luogo sociale, di incontro e scambio: un luogo di condivisione di un’esperienza. L’ampiezza, la pluralità, l’apertura degli spazi in condivisione con l’azienda agricola permettono di organizzare eventi allargati di cui il teatro è il filo rosso ma che offrono un’esperienza completa: la possibilità di mangiare insieme, “stare” nel luogo, abitarlo, anche solo per una sera». Un piccolo teatro essenziale la cui facciata è una vetrata dall’aria berlinese sta dalla parte opposta di un altro capannone, oggi divenuto una sala utile tanto per provare quanto per accogliere una performance propriamente detta, al centro un’area ristoro attigua a una casa utilizzata per le residenze artistiche. Affiancata a Nebbia, piccola rassegna invernale congelata da due anni di pandemia, la nascita dell’estiva Le notti delle Sementerie, perno principale attorno cui ruota il coinvolgimento alla fruizione del pubblico. La rassegna, oggi inserita nel circuito di Bologna Estate, giunta alla settima edizione, vede una decina di titoli (che alternano giovani artisti e nomi più conosciuti del teatro contemporaneo) distribuiti su un arco temporale di circa un mese, quest’anno corredati da alcuni incontri di accompagnamento alla visione curati dalla bolognese Altre Velocità.
Sogno di una notte di mezza estate è lo spettacolo che la compagnia ha presentato quest’anno, dove i protagonisti sono stati affiancati dalla presenza dei partecipanti al progetto Shakespeare in lab. Gli spettatori che si avvicendano prima e dopo lo spettacolo, tra un luogo e l’altro in cui “tutto accade” vedono persone del posto alternarsi magari a familiari dei performer non professionisti, avventori giunti in avanscoperta a quanti vantano una più assidua abitudine teatrale, sintomo di un lavoro sul territorio e sui suoi abitanti – “cittadini” come vengono definiti nelle note di regia –, la cui capillarità è tuttavia impossibile da valutare in una sera. Di questo Sogno una delle prime cose cui si fa caso è la scelta di una proposizione “integrale” e quindi il rischio di una durata non abituale ormai di più di due ore. Il lavoro sul testo vive quindi di una trasposizione che agisce sul linguaggio, sull’adattamento semantico, di “postura” e di contesto che esso trascina con sé, più che sulla struttura o sulla vicenda vera e propria. La regia di Federico Grazzini alterna testo e tracce musicali (fa eccezione la ripetizione del verso «soy todo lo que soy ahora, soy este instante que se transforma» cantato dal vivo da tutti gli interpreti dopo l’epilogo) e li cala all’interno degli ambienti appoggiandosi su una coscienza interpretativa abbastanza centrata sull’impostazione generale, che risente di alcune esacerbazioni e picchi di eccessiva affettazione di maniera solo per i ruoli di Lisandro ed Ermia. Pensato come spettacolo “site specific”, l’azione generale risulta a livello spaziale tripartita, divisa tra l’aia, la sala chiusa e il teatro di paglia. Costruito interamente di balle rettangolari sistemate in una struttura di arena semicircolare, sarà il luogo in cui la storia è destinata a conciliare le sue trame e a concludersi: «un teatro effimero che ogni anno “compare” con le quinte, il fondale, le sedute, ed ogni autunno torna ad essere paglia, scomparendo dal campo che per un mese è stato un teatro».
Attraversando ciascuna delle tappe e col senno di poi, appare evidente come traslato in un altro luogo lo spettacolo potrebbe non avere effettivamente la stessa riuscita e non trovare la medesima efficacia, che vive di quel momento, di quel luogo e con ogni probabilità di quegli sguardi specifici, calati nel contesto. Se all’inizio i fari di un trattore Claas sostituiranno le luci montate sulle americane e una colonna di pallet sarà portata via da una muletto a mano come fosse una pedana semovibile, ciò che maggiormente resta impressa all’occhio è la cura della costruzione visiva e dell’immagine nella seconda parte, quella che in trama si svolge nel bosco, dove l’oscurità delle piume e della pelle dei costumi (di Anna Cavaliere) di Puck e Oberon farà da contraltare ai riflessi plastici delle increspature del cellophane utilizzato per costruire una tenda/sipario di fondo e parte delle vesti di Titania. Quadri di rosso, bianco e nero che strizzano l’occhio a un’estetica queer si vedono alternati a figure più ordinarie con l’intento di determinare un’antitesi e, in un processo estetico metaforico ma non troppo lontano dalla didascalia, tradurre il crinale di opposizione e con-fusione tra realtà e sogno presente nell’originale del Bardo nella contrapposizione tra “realtà agricola” e “mondo del teatro”.
Persino Eugenio Onegin si ritirò in campagna, per ottemperare alla noia, per vivere la sua indolente relazione col mondo, con l’amore, con l’urbanità rifiutata eppure mancante. Ci pensiamo, ancora, guidando, lungo la strada, al ritorno e cercando di rintracciare i versi con cui Puskin segna per il personaggio il passaggio da uno scenario all’altro. Ma non ne abbiamo né modo né tempo, la mente tornerà altrove. «E allora non è notte se ti guardo in volto, e perciò non mi par di andar nel buio, e nel bosco non manco di compagnia. Perché per me tu sei l’intero mondo. E come posso dire di esser sola se tutto il mondo è qui che mi contempla?».
Marianna Masselli
SOGNO DI UNA NOTTE DI MEZZA ESTATE
adattamento Federico Grazzini e Matteo Salimbeni
regia Federico Grazzini
scene Lucia Fiorani
costumi Anna Cavaliere
light designer Eva Bruno
costruzione scene Jack Bardwell, Angelo Bertoldi, Daniele Valentino
con Julio Dante Greco, Manuela De Meo, Gianni Ognibene, Clelia Cicero, Daniele Cavone Felicioni, Paolo Zaccaria, Irma Ridolfini, Ester Spassini, Elisa Denti, Pietro Traldi, Cande Marzinotto, Paride Guaraldi, Fabio Galletti, Heraba Drame
fate Patrizia Azzolini, Valentina Baraldi, Alessandro Brandoli, Eleonora Busi, Luca Conforti, Morena Cremonini, Rossana Garavini, Gaia Giornelli, Elena Gozzi, Malek Hajaje, Maria Carla Mantovani, Valentina Merlo, Roberto Mosca, Shiva Namvar, Maria Federica Negro, Federica Passaro, Alex Preto, Flavia Rossi, Eugenio Sala, Luisa Tarozzi, Giovanni Traldi, Marieva Vivarelli
Produzione Sementerie Artistiche
con il sostegno di Coop Alleanza 3.0