Biennale Danza 2022. Recensione e racconto dalla seconda edizione diretta dal coreografo britannico Wayne McGregor
Venezia per la danza non è più il crocevia di poetiche, smistamento delle idee contemporanee, ma sede di una supremazia ideologica, alternativa ed elitaria, che per ora non trova ostacoli. Lo si vede nell’esile programma di Biennale Danza, con costose quanto superflue installazioni, ibridi reenactment e incontri inutili, anche bizzarri.
Prosegue con la nuova edizione di Biennale Danza l’operazione culturale dello Studio Wayne McGregor al quale, di fatto, il Festival è appaltato. Ed è il trionfo del disimpegno autoriferito in quelle che un tempo si chiamavano (ed erano soltanto) attività collaterali. Così, infatti, come da presentazione del programma di quest’anno: «Live/Installazioni, Biennale College, Collaborazioni, Film, Conversazioni/Workshop». E la danza? Incidentale. (Tutt* lo pensano, speriamo lo scrivano… la critica di danza, presente in massa a Venezia, fa il suo dovere quando risponde a tanta accoglienza con rigore e imparzialità: fare critica oggi è soprattutto una pratica politica; ha il cómpito di mostrare come sapere e potere lavorano per costituire un ordine; deve essere dunque capace di riconoscere comunità che resistono, e mostrare un sistema della danza, in Italia, capace di parola).
CULTURA DEL LAYOUT
La Biennale dello Studio McGregor rischia quindi di essere soprattutto un’operazione di layout che intercetta perfettamente quella logica culturale che oggi premia le emozioni e le identificazioni, non la messa alla prova e le competenze. Nel tempo della post-verità, ciò che è gonfiato e fasullo appare però convincente perché assemblato come un prodotto di precisi interessi ideologici, ben sponsorizzati da brand che ormai possono tutto, anche se fatti ed evidenze non lo sostengono. Wayne McGregor è oggi uno dei coreografi più pagati al mondo (si legga la bella riflessione di Gerald Dowler sull’ultimo «Ballet2000», p. 29!): come direttore/curatore di Biennale sembra abbia il tempo solo per il display, operando più come un visual merchandiser incapace di vera mission sul territorio (locale e nazionale, perché in qualsiasi altro festival europeo ci si aspetterebbe una percentuale di programmazione nazionale di gran lunga superiore, e dovrebbe essere oggi una priorità: quanto è utile allora che il sistema sovvenzioni chi progetta ostinatamente di restarne fuori?).
IL MANTRA DELLA KERMESSE
A partire dalle bellissime 470 pagine di super-catalogo, un prezioso (e costoso) oggetto misto carta e plastica, dove però trovano comodamente posto le parole e i volti di tutti: Boundary-less è il motto chiave, vero mantra della kermesse di quest’anno. Il designato Leone d’oro, Saburo Teshigawara (che avrebbe potuto essere cointestato a Rihoko Sato, partner e interprete di un’intera vita), ha presentato un intenso quasi-assolo marcatamente espressionista dedicato a Petruška. Difficilmente considerabile lavoro compiuto, è sostenuto soprattutto dalla presenza di Sato. Condannata al burattinismo del suo mondo mentale, la marionetta di Teshigawara alla fine acquista fattezze umane lacerandosi sul volto una maschera di lattice. Le soluzioni di un raffinato disegno luci con la discontinua selezione musicale (Stravinskij e Nino Rota…), sono però reiterate senza condizione né causa, per un numero di volte francamente infinito. Mirabile per quindici minuti; una seccatura a serata intera. Quasi nessuno, inoltre, ha veramente capìto il senso del Leone d’argento a Rocío Molina, che ha presentato un lento, confuso ed elementare lavoro in prima assoluta, Carnación, con tanto di coro in scena (non sai mai come muoverlo…) che alla fine fa un trenino: «Abbiamo visto il teatro se non altro…», commenta dimessa al telefono una spettatrice, al termine, rasentando il muro verso l’uscita. So esattamente cosa prova.
L’ANIMA SALVA
L’anima del Festival è stata però salvata da Trajal Harrell, che con Maggie the Cat (2019) letteralmente fa scoppiare il principio del catwalk e le presentazioni in stile voguing. Come? A partire dall’omonimo personaggio in Cat on a Hot Tin Roof di Tennessee Williams (1954), ma qui messo sottosopra. Se nel testo di Williams i bianchi proprietari di piantagioni tengono la passerella del plot, con Harrell e Perle Palombe (Big Mamma e Big Daddy) i personaggi marginali, la servitù composta da neri, diventano i veri protagonisti. Di cosa? Della ripresa dello spazio, della restituzione di presenza, del potere della presa di parola: serve altro? Così, dopo aver presentato lo spettacolo e gli artisti, Harrell osserva i loro ingressi, uno alla volta, in estenuate camminate in passerella ma con i cuscini legati agli arti, poi nuovamente in posa avvolti in asciugamani, e infine tenendo ognuno un vestito nero davanti a sé.
L’ITALIANO TRADOTTO
Diego Tortelli, unico artista italiano presente al Festival (insieme a Matteo Carvone nel College e Francesca Pedroni nella sezione film), è coreografo capace di forte intesa con gli interpreti e di intervenire sul vocabolario di movimento. Ma, com’è-come-non-è, ci si aspetta sempre molto da lui. Sarà che gli è stata affidata, su bando, l’unica produzione italiana di quest’anno. E difatti qui finalmente prova un progetto personalissimo e sentitissimo: la malattia alla gola del padre. Fo:No è però drammaturgicamente costruito a senso unico, con un set di forte impatto (massa ‘tumorale’ di 120 microfoni su asta ammassati al centro) e l’ossessivo beatboxing di Timo Schnepf, con ingegnosi costumi sfumati alle estremità. E tutto, purtroppo, sembra senza misura, fuori controllo: anche le buone idee restano inesplose se ingovernate. È proprio il movimento dei tre bravissimi interpreti (Jin Young Won, Shay Partush e Luca Cacitti) che risulta poca cosa, a un grado zero di invenzione, ai limiti del robotico come in avvio, tutto sincronizzato sulle imbeccate del sound ed eclissato di continuo dall’incontrastato, inefficace, cupo, nero monte sonoro di AGF. La Ricerca allora è sùbito Accademia: perché non può progettarsi occasionale, a seconda della sede produttiva, ma deve progredire nel tempo sempre senza condizioni, proprio perché investe la mente esattamente come la vita. Davvero bizzarro poi l’incontro, al termine del debutto, col pubblico italiano dato da Tortelli in (peraltro ottimo) inglese mortificando così la sconcertata traduttrice a fianco che lo ha dovuto tradurre, appunto, in italiano: nulla di male, chissà, ma è comunque un segno di incorporata subalternità culturale. E racconta le difficoltà di questa generazione senza interlocutori.
L’EVENTO RIFATTO
Ma l’esempio di un operare post-ideologico per layout senza contenuto, risulta evidente nella domestification della pratica storica degli Event che Merce Cunningham e John Cage hanno dato vita a partire dal lontano 1964. Una delle più proverbiali realizzazioni è stata quella veneziana del 1972, dal titolo Piazza San Marco Event (visivamente ben documentata nel catalogo stellare): una occupazione di suolo pubblico da parte di Cunningham e dei suoi danzatori, con tanto di sedie e scope, per una performance nel cuore monumentale della città. Quella pratica si è celebrata con un nuovo Event negli spazi esterni dell’Arsenale. Ed è stata la più feroce delle ibridazioni culturali. Perché, se il contenuto composto di estratti dal repertorio di Cunningham è stato predisposto dai suoi ottimi ex-danzatori, Jeannie Steele e Daniel Squire, autorizzati dal Cunningham Trust, per gli straordinari ed eroici interpreti di Biennale College (da applaudire con convinzione non potendoli citare tutt*), la confezione invece è tutta dello Studio McGregor e Bottega Veneta. Si è trattato di una sorta di lenta passerella molto vintage, con anche in avvio l’utilizzo ad effetto di piattaforme galleggianti (a Venezia, davvero?), con improbabili tute/costumi total body di Matthieu Blazy per Bottega Verde, assai glamourish e multicolor, ma poco gestibili sotto quel sole. Le sonorità decorative di Jlin (già collaboratrice nel 2017 di McGregor) e un’ambientazione nello spazio graduale, sfumata, dispersiva e visivamente enfatica (e non è bastato inforcare una bicicletta come Verfremdungseffekt per raffreddare tanta spettacolarità), con la sobrietà austera di Merce Cunningham e del suo mondo estetico e spirituale non sembravano proprio avere nulla a che fare. Mentre il décalage di valori emerge sconcertante, mortificante.
Stefano Tomassini
Biennale Danza, luglio 2022, Venezia