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Cosa può un corpo assente? Dead Centre e Marcus Lindeen a Presente Indicativo

Recensione. Chiudiamo la rassegna sul festival internazionale tenutosi a maggio al Piccolo Teatro di Milano, Presente indicativo: per Giorgio Strehler (paesaggi teatrali), riflettendo sullo statuto del corpo attoriale e sulla responsabilità affidata al pubblico, chiamato ad essere co-autore della narrazione e dei luoghi in cui essa avviene.

Beckett’s Room – Foto Masiar Pasquali

Cosa può un corpo – a teatro – ? (in riferimento anche al titolo della raccolta di lezioni tenute da Gilles Deleuze su Spinoza) Cosa, la sua assenza? Sono domande che la mente richiama e macina, a spettacolo ancora in svolgimento, tra i sedili del Piccolo Teatro Grassi. In scena, Beckett’s Room della compagnia irlandese Dead Centre – fondata nel 2012 da Bush Moukarzel e Ben Kidd – il cui testo è stato co-curato con Mark O’Halloran, nella drammaturgia di Nicholas Johnson. Il pubblico è seduto nella propria postazione, ognuna dotata di cuffie che circumnavigano il capo, lo avvolgono e lo “isolano” per amplificare i sensi di uno spettatore immobilizzato sulla poltrona ma proiettato oltre, con lo sguardo già su di un palco colmo di oggetti ma svuotato di corpi.

Ad essere rappresentato con minuzia di particolari è l’interno della casa che Samuel Beckett condivideva con la compagna Suzanne Dechevaux-Dumesnil nel periodo di militanza francese, durante la fine della Seconda Guerra Mondiale. Nessun accenno alle sue opere, lo spettacolo tuttavia ne porta le tracce indagando il susseguirsi di eventi nella vita privata di un uomo il cui impegno politico ebbe sempre un riflesso nel pensiero e nella produzione artistica. La rappresentazione inizia, Atto I, La Fine, Parigi del ’42, un salotto: procedendo a volo d’uccello, l’occhio si libera dall’imposizione della figura attoriale, assente in scena, e vagabonda tra le quiete stanze per rinvenirne le impronte indicali. Ora una macchina da scrivere comincia a battere, ne sentiamo i tasti premuti, ma non c’è mano visibile che li muova. Ora una moka del caffè si alza, viene riempita di macinato e posta sui fornelli accesi, ma non c’è attore che la sposti. Ora una porta si apre e si chiude, avvertiamo dei passi che avanzano ma non c’è nessun piede a calpestarli. La regia di Bush Moukarzel e Ben Kidd fa così procedere lo spettacolo attraverso un architettato e abilissimo meccanismo di spostamento degli arredi di vita quotidiana, servendosi di una rete ramificata di fili creati da Eugenia Genunchi, Ciarán Bonner, Jason Lambert e diretti dai/dalle marionettisti/e Eugenia Genunchi, Miriam Needham, Neasa Ní Chuanaigh, Cillian O Donnachadha.

Beckett’s Room – Foto Pasiar Pasquali

Ad ogni filo tirato corrisponde così il movimento di un oggetto domestico, coordinato al rumore di una presenza assente e alle voci dei personaggi senza corpo, le cui parole in lingua sono proiettate su di un velo trasparente che divide il palco dalla platea. Si tratta di una soglia liminale che se da una parte separa “fisicamente” lo spettatore dalla rappresentazione, dall’altra essa subisce un oltrepassamento della visione in quanto lo sguardo tenta sempre di andare oltre, di colmare una mancanza tramite l’atto l’immaginativo. Il pubblico viene così destato da una situazione di passività in cui spesso il teatro rischia di relegare, e viene chiamato a ragionare sullo statuto dell’attore all’interno della rappresentazione. Cosa può un corpo assente? Quali le ripercussioni sulla narrazione?

La risposta sta nelle cose, che nella scenografia di Andrew Clancy prendono vita, si slegano dalla dipendenza mercificata e oggettuale con il soggetto, e assumono il ruolo di agenti narranti e non più narrati. È quella che nelle discipline antropologiche viene chiamata agency, oggi al centro di un dibattito che si estende all’intero ecosistema di esseri viventi e non, definita come capacità di agire socialmente e instaurare diverse relazioni, incorporare gesti, ricordi e trasformarli. Gli arredi acquisiscono, dunque, un’agency e le interrelazioni che si stabiliscono debordano in platea, coinvolgendo ogni spettatore nella sua individualità, chiamato a completare visivamente il racconto che, seppur nel suo intento biografico, riesce a entrare nella sfera personale e a parlare di una situazione vissuta collettivamente.

L’aventure invisible – Foto Bea Borgers

Se in Beckett’s Room è il soggetto-personaggio, di cui si cercano continuamente le tracce, a scomparire, il regista svedese Marcus Lindeen lavora invece sul “nascondimento”, ne L’aventure invisible. Qui, seduti su un’impalcatura circolare a più gradoni, gli attori si mischiano agli spettatori, co-abitando lo spazio narrativo oltre a quello scenografico (a cura di Mathieu Lorry-Dupuy). Quello che viene mostrato è il concetto più proprio di comunicazione, dal greco koinonìa, dunque un “mettere in comune” storie ed esperienze vissute, i ricordi e la loro inevitabile perdita. La frammentazione del racconto diviene quindi condizione necessaria per creare una dimensione corale di condivisione, di cui il pubblico si fa corpo ancor più che gli interpreti: i tre personaggi, difatti, sembrano assumere molteplici identità nella performance, in quanto negli auricolari Claron McFadden, Tom Menanteau, Franky Gogo ascoltano e imitano un copione letto da altre voci, tratto dalle interviste condotte a persone realmente esistite, Jill Bolte Taylor, Jérôme Hamon e Sarah Pucill.

L’aventure invisible –Foto Masiar Pasquali

Attraverso questo particolare meccanismo, la narrazione si sovrastruttura, ma il suo carattere finzionale decade nel luogo intimo e privato in cui essa avviene. Le storie diventano più autentiche perché le sentiamo provenire da una figura che siede accanto o che si trova a qualche sedile più in basso. Domande e risposte scandiscono le confessioni dei tre protagonisti, che instaurano un dialogo che affronta i temi dell’identità, della maschera e della trasformazione, della memoria che sfugge e dello spettro della morte. Cosa può, dunque, in questo racconto, un corpo che si nasconde? Il centro è e rimarrà vuoto e nessuno si assumerà il compito di riempirlo con la propria presenza scenica; essa viene sostituita dalle parole dei flussi conversativi, dalle emozioni, che sono le paure che mascherano le consapevolezze e le domande che celano le insicurezze.

Beckett’s Room – Foto Kyle Tunney

Nell’opera di Dead Centre il corpo degli attori comunica una storia negli indizi della sua assenza, stimolando il pubblico a ricrearne una versione personale, nel lavoro di Lindeen esso si nasconde e confonde, viene assorbito dal corpo del pubblico, creando il luogo della condivisione di molteplici racconti. Questa rinuncia alla tradizionale presenza fisica del personaggio in scena dimostra la volontà di decostruire un modello per far emergere ciò che del teatro rimane latente: nel procedere per sottrazione, riducendo gli spettacoli ai minimi estetici, è la dimensione politico-sociale ad essere “aumentata” per un teatro che, come scritto nelle note di testo del festival Presente indicativo, ha «l’urgenza incessante (…) di dichiarare il proprio radicamento nell’oggi attraverso uno sguardo sul mondo, o su di un io scenico nel quale lo spettatore si deve e si vuole riconoscere, come cittadino ed essere umano». Un riconoscimento che può avvenire anche in figure dai corpi assenti o marginali affinché il pubblico possa ritrovare la propria responsabilità nel proseguire e condurre una narrazione che possa finalmente dirsi umanamente – e internazionalmente, nell’ottica del festival – condivisa.

Andrea Gardenghi

Teatro Piccolo, Milano – maggio 2022

BECKETT’S ROOM
testo Dead Centre e Mark O’Halloran
regia Bush Moukarzel, Ben Kidd
drammaturgia Nicholas Johnson
traduzione e assistenza alla regia Peter Krauch & Céline Thobois
voci Viviane de Muynck, Valentijn Dhaenens, Christoph Gawenda, Brian Gleeson, Moritz Gottwald, Barbara Probst, Laurence Roothooft
scenografia Andrew Clancy
creazione marionette Eugenia Genunchi, Ciarán Bonner, Jason Lambert
marionettisti Eugenia Genunchi, Miriam Needham, Neasa Ní Chuanaigh, Cillian O Donnachadha
luci Stephen Dodd
video José Miguel Jiménez
suoni e musiche Kevin Gleeson
costumi Saileóg O’Halloran
produzione Dead Centre
coproduzione Gate Theatre, Dublino
L’AVENTURE INVISIBLE
testo e regia Marcus Lindeen
collaborazione artistica, drammaturgia e traduzione in francese Marianne Ségol-Samoy
con Claron McFadden, Tom Menanteau, Franky Gogo
basato sulle interviste con Jill Bolte Taylor, Jérôme Hamon e Sarah Pucill
musica Hans Appelqvist
scenografo Mathieu Lorry-Dupuy
luci Diane Guérin
film Sarah Pucill
produzione Comédie de Caen-CDN de Normandie nel quadro del Pôle Européen de Création
coproduzione T2G-Théâtre de Gennevilliers-CDN, Festival d’Automne à Paris

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Andrea Gardenghi
Andrea Gardenghi
Andrea Gardenghi, nata in Veneto nel 1999, è laureata all’Università Ca’ Foscari di Venezia in Conservazione e Gestione dei Beni e delle Attività Culturali. Prosegue i suoi studi a Milano specializzandosi al biennio di Visual Cultures e Pratiche Curatoriali dell’Accademia di Brera. Dopo aver seguito nel 2020 il corso di giornalismo culturale tenuto dalla Giulio Perrone Editore, inizia il suo percorso nella critica teatrale. Collabora con la rivista online Teatro e Critica da gennaio 2021.

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