Da Nolo Fringe Festival a FringeMI, il racconto di un festival nato a Nolo che ora si ramifica ed espande per includere nuovi quartieri di Milano, in un’ottica di apertura, condivisione e multiculturalismo. Dal 13 al 19 giugno 2022.
Sono le sette di sera e c’è ancora una luce chiara in questa giornata di metà giugno. L’estate è già arrivata da un po’ a Milano e non fa che ricordarmi come l’inverno passato mi sembri così vicino. Prendo la bici e imbocco la parallela di Viale Montenero, Viale Emilio Caldara, per evitare il caratteristico frastagliato pavè milanese della mia via che rende impossibile qualsiasi passionale slancio ciclistico. Sorpasso la Rotonda della Besana e proseguo dritta su una strada che continuamente cambia nome, per giungere allo snodo di Porta Venezia. Il vento è di un’aria calda, mi trapassa i capelli, mi scivola sulla pelle, mi alza la frangia di una gonna che puntualmente non so portare. All’odore di gelsomino che facilmente contrasta quello del traffico si sostituisce quello dei fast food di Corso Buenos Aires. Mi sorprende sempre notare come gli odori e i sapori di una zona raccontino molto della sua identità. Seguendo un andamento centrifugo vengo sospinta in una zona periferica – ma non troppo – di Milano. Loreto ne diviene al tempo stesso soglia e centro gravitazionale dalla cui piazza si diramano le vie che costituiscono NoLo (North of Loreto), un quartiere gentrificato nato dal basso, da una vocazione popolare di autodefinirsi, darsi un nome, darsi un luogo da abitare che sfugga all’anonimato di ciò che centro città non è.
Ora le strade sanno di spezie, hanno le sfumature coloristiche di una multietnicità esplosa, fragrante, che filtra i pori dell’immaginazione e della pelle. È a partire da questo quartiere della periferia milanese, oggetto di un processo di riqualificazione, che da qualche anno si sviluppa il Nolo Fringe Festival, un appuntamento teatrale con i caratteri di un localismo che vuole ripensare i confini della città, creare opportunità di condivisione nel proprio tessuto multiculturale, affermare con entusiasmo una nuova toponomastica e divenire spazio di incontro di un pluralismo identitario e generazionale. Quest’anno il Nolo Fringe si è trasformato nel FringeMI, un cambio di nome che vuole essere una dichiarazione d’intenti, per dimostrare la volontà di allargarsi ed espandere le frontiere di un progetto culturale che ha lo scopo di includere anche altri quartieri della metropoli di Milano.
Più che di creazione si tratta di parlare di una riscoperta, di paesaggi, di luoghi che cambiano la propria funzione originaria per trasformarsi in spazi di intima e calda socialità, spazi che richiamano i giovani abitanti del posto, ma anche del centro città che si aggirano tra la ventina e la trentina d’anni. Gente che è passato e futuro di una generazione che si ritrova a condividere la dimensione dilatata del presente. Qui lo scantinato di un negozio di bici e moto (Rivo1951) viene riattivato da Paola Tintinelli in un’operazione di mimo che scava le fessure di un animo infelice, sospinto da turbolenze meteorologico-emotive a ripetere gesti quotidiani minimi. Paola è Mario, un ex-postino come tanti, con un nome come tanti, ma la sua vita è scandita da una tagliente solitudine, disegnata sul pavimento con un gessetto bianco. L’unica compagnia concessa è una voce che si diffonde da una radiolina, nascosta dall’accumulo di oggetti frivoli che tentano di colmare quello che è un vuoto esistenziale. È l’odore di pneumatico e fumo, poi, a pervadere i sensi, la malinconia ne cuce le particelle nel sentimento di un dolore condiviso. I volti degli spettatori si riconoscono in questo dolore, in una città spesso disorientante che in questo posto sa essere più il raccoglimento di un abbraccio che il brivido di una scossa. Seduta dietro di me una bimba piange in silenzio, il padre la cinge con una stretta calda e sicura, abbraccia per avvolgerla come anche i luoghi sanno fare.
Non sembra un caso che “abbraccio” sia anche la traduzione dello spazio Hug in zona NoLo, bistrot dove si tiene il monologo di Martina De Santis. Attraverso una voce sottile e delicata, l’attrice ci restituisce lo spaccato delle vie di Milano percorse in bici, con le musiche di Nina Simone nelle cuffiette. La spensieratezza è seguita dal momento della sua inevitabile rottura dopo la quale la vita della donna non potrà mai più essere quella di prima. Le fratture ossee si potenziano e ramificano in quelle cardiologiche, nelle sofferenze di una storia finita, di uno scheletro gessato che è lo spettro che ognuno si porta dietro, appeso al centro del piccolo palco. Risuonano come un richiamo le parole di Natalia Ginzburg, risuona il suo incomunicabile dolore che la porta ad uccidere il suo amore nel romanzo È stato così. Lo spettacolo si muove tra autobiografismo e finzione, fluttua su un confine labile che restituisce da un lato una sensibile fragilità, dall’altro la testimonianza autentica della resilienza.
I luoghi che ospitano la fitta programmazione di spettacoli, che sono spazi coworking, bar, librerie, parchi, anfiteatri, di sera si trasformano, si mascherano di nuove scenografie e si abitano di nuovi volti. La gente li popola con una naturalezza fatta di desiderio e spontaneità, richiama gli amici che non vede da tempo a causa di soffocanti impegni lavorativi, si prende una birra, forse anche due, compra un cartoccio da un carrello di fritti che dà sulla strada, fuma una sigaretta e si siede un po’ dove capita. La convivialità è la linea motrice che unisce tra loro spettacoli autonomi (tra di essi 11 prendono parte ad un concorso per cui il vincitore, quest’anno Fag/Stag. Amici di genere, decretato da voto pubblico, acquista l’opportunità di entrare nel cartellone dell’Elfo Puccini di Milano), dispersi nel tessuto urbano periferico, spingendo gli abitanti a percorrere strade tra loro distanti: dalla zona di Cistà a Calvairate, da Martesana a Nolo ad Adriano. Ogni performance o laboratorio, in grado di includere anche i più piccoli, costruisce un nuovo legame con il posto in cui si inserisce, ne crea un maquillage che attrae, diverte, alleggerisce, sospende vite frenetiche per restituirne una dimensione di otium che è puro respiro in una città che non dorme mai.
Il respiro segue il ritmo di una risata che si manifesta come cifra indiscussa del festival, in serate che si susseguono e che prendono come protagonisti attori emergenti ed affermati di stand-up comedy (un esilarante Davide Calgaro, un’imprevedibile Giorgia Fumo, poi Eduardo Confuorto, Giuseppe Scoditti e Lorenzo Marangoni, impegnato in una performance dell’ultimo momento in pezzi di slam-poetry di cui è campione mondiale). Molti di loro sono di Milano, altri ci abitano e basta. Come il pubblico con cui dialogano, eterogeneo per provenienza – si sentono un po’ di influenze dialettali spurie, ciancicato pugliese, abruzzese, siciliano, emiliano – la maggior parte milanesi di adozione, ma pur sempre italiani di origine (manca quell’etnicismo riscontrato negli odori che caratterizzano fortemente il quartiere). Il pubblico è frizzante e attento alle esilaranti provocazioni. In Mercomedy, stand-up comedy tenutasi nell’Anfiteatro di via Russo, gli attori (Calgaro, Fumo, Confuorto, De Angelis) decidono così di deridere gli stereotipi milanesi, colmano i gap generazionali, ironizzano su tempi controversi, su tematiche sensibili. Si dimostrano abili giocatori di parole, abili interpreti di una Milano che cambia, anche nei suoi scenari più marginali ed ignorati. Rinnovano un genere che stava riprendendo a lievitare prima di un lockdown che ha costretto tutti a riabitare le proprie celle individuali. La stand-up comedy milanese si è sviluppata prima con qualche spot di cabaret, nel secondo dopoguerra con il Derby (da Derby Club di Milano) che sforna non solo cabarettisti ma anche musicisti, cantautori e autori che producono un forte impatto sulla scena milanese e italiana. Poi la televisione con Zelig, alla fine degli anni Novanta, priva i locali della comicità semplice e quotidiana, fatta di contatto concreto e diretto sostituendo ad essa una risata pubblicizzata e mediata da uno schermo. Il FringeMI ripristina così lo spettacolo da cabaret della tradizione milanese e lo affianca alla poesia performativa, alla musica, al mimo, al teatro e al cantautorato per scavare e riscrivere delle geografie suburbane dimenticate, le stesse ritrovate da Chiara Elisa Boi, in arte Chibo, che decide di cantare con spigliato umorismo le sgrammaticate quanto scurrili scritte sui muri delle città. Sono tracce di un’umanità che si riappropria degli spazi, li rivive e gli ridà un nome, purtroppo non sempre etimologicamente corretto, ma proprio per questo più vero e autentico.
Andrea Gardenghi
FRINGEMI FESTIVAL
Milano – giugno 2022
Con tanto amore, Mario. Di e con Paola Tintinelli
È andata così. Di e con Martina De Santis
1 e 95. Di e con Giuseppe Scoditti
Mercomedy. Con Davide Calgaro, Giorgia Fumo, Eduardo Confuorto, special guest (De Angelis)
Canto i muri. Di e con Chiara Elisa Boi
I muri parlano. Mostra di Luisa Bondoni