Santarcangelo Festival 2022, raccontiamo visioni e riflettiamo sull’ultimo weekend di festival: tra performance autobiografiche, corpi non conformi e sorprendenti danze. Recensioni sugli spettacoli di Marina Otero (Love Me), Lucy Wilke e Pawel Dudus con musica di Kim Twiddle (Scores That Shaped Our Friendship), Paweł Sakowicz (Jumpcore).
Santarcangelo che fa arrabbiare i politici di destra, Santarcangelo con la sua fontana in cui un giorno apparve una sirena, Santarcangelo degli scandali. Santarcangelo radicale, Santarcangelo che detta la linea della nuova performatività europea, Santarcangelo dei giovanissimi, Santarcangelo inclusivo, Santarcangelo esclusivo. Santarcangelo che stupisce, Santarcangelo che è diventato prevedibile, Santarcangelo che accoglie. Santarcangelo delle tribù e Santarcangelo di chi sta fuori dalle tribù. Santarcangelo sempre sold-out. Santarcangelo con la performance, Santarcangelo senza il teatro, Santarcangelo con Imbosco.
Santarcangelo divide, sempre, soprattutto negli ultimi anni. È stata quella di Silvia Bottiroli la prima direzione artistica con una vocazione europea importante e lo sguardo ai nuovi formati scenici; nel 2016 Massimo Marino cercando la provocazione parlava di Teatro Discoteca. Gli anni successivi hanno visto questo percorso guardare sempre di più a visioni artistiche radicali, nel segno di una militanza che ora, con Tomasz Kireńczuk, approda definitivamente alla concezione di un festival queer: in un’accezione larga che lega a doppio filo le tematiche della comunità lgbtq+ ad altri temi sensibili (decolonizzazione, inclusione, biografismo, ecologismo, migrazioni) con uno sguardo alla Polonia in cui il direttore ha avuto a che fare con la censura governativa (come raccontato in questo articolo su Rollingstone). Scelte senza compromessi, alle quali il dibattito spesso guarda in maniera forse troppo polarizzata: tra gli addetti ai lavori, ad esempio, c’è chi le sostiene fideisticamente e chi guarda al festival con diniego perché si sente escluso dalle ultime direzioni artistiche che avrebbero eliminato quasi del tutto il teatro a favore della performance. Anche in questa edizione, però, la programmazione è un fitto ordito che non può risolversi in semplificazioni. Rossella Menna nel suo articolo parla di eccesso di realtà, raccontando una serie di opere appiattite sulla funzione (sociale e politica), ma ben venga l’attivismo artistico quando diventa sonda in grado entrare nelle profondità del nostro presente. La questione allora è nelle forme o nella capacità dei contenuti di aprirsi a una moltitudine oltre la nicchia? Stefano Tomassini qui rintraccia una certa necessità di concretezza rispetto ai tentativi performativi più evanescenti e allora viene in mente la Biennale di Venezia dedicata alle arti visive. Quest’anno la mostra curata da Cecilia Alemanni segna la centralità della creazione materiale, della figurazione pittorica, della scultura, del segno artistico in grado di creare mondi. Soprattutto nella grande collettiva all’Arsenale dove bastano pochi passi per capire che l’arte può ancora costituire una fascinazione estetica in grado di colpire pure lo spettatore meno preparato; accade anche nella drammaturgia immersiva di Gianmaria Tosatti che ci riporta, nel padiglione Italia, dentro la fotografia di un Paese che non c’è più, tra macchine da cucire e grandi fabbriche.
Estrapoliamo allora alcune visioni dall’ultimo weekend santarcangiolese per affondare nelle riflessioni proposte dal festival, tra autofiction, storie di amicizie e danze in piazza.
«Io sono il mio stesso progetto di ricerca»: lo spettacolo dell’argentina Marina Otero, scritto insieme a Martín Flores Cárdenas, è ancorato alla stasi di una scena vuota su cui viene proiettato il flusso di coscienza della protagonista/autrice; la coreografa e performer però rimane immobile sulla sua sedia in penombra. Otero apre la propria intimità al pubblico: gli amori irrisolti, il trasferimento in Spagna e poi giù a capofitto verso un dolore di infanzia dietro al quale si alza l’ombra maledetta di un padre violento. Ma l’artista sembra far di tutto per non tenere in conto lo spettatore: il testo ha l’impronta quotidiana della scrittura sui social network, luoghi per eccellenza in cui la nostra epoca si racconta. Ecco, nel caso di questo Love me la sensazione è quella di aver assistito a una messa in mostra dell’ego in cui l’autoreferenzialità non riesce ad aprirsi a un discorso sul mondo. E anche i momenti migliori si spengono in una scrittura tutt’altro che suggestiva o poetica (problema anche della traduzione?). Torna in mente lo splendido Ultraficción nr. 1 del duo catalano El Conde de Torrefiel visto lo scorso anno sempre a Santarcangelo, uno spettacolo che si svolgeva tutto senza interpreti solo con i sovratitoli, in quel caso con una scrittura che incrociava più storie e teneva saldo il filo dell’attenzione.
Nei minuti finali Otero si alza e danza una partitura potente che anche in questo caso assume il valore di una rivalsa personale. Certo tutto va inscritto nel progetto autobiografico dell’artista (qui vedevamo Fuck me al Campania Teatro Festival dello scorso anno), ma l’autobiografismo e l’aderenza al claim del festival Can you feel your own voice non bastano. In un’intervista l’artista affermava: «Ovviamente c’è un trattamento drammaturgico, non sono puramente fedele all’evento. Ma è pericoloso: racconto continuamente cose che hanno a che fare con la mia privacy, soffro abbastanza. Non è gratuito, ha a che fare con il rischio, che mi piace molto ma mi crea problemi». Lo spettatore rischia dunque di interpretare il ruolo del terapeuta e in questa catarsi invertita non ottiene qualcosa di generativo se non la possibilità di rivedersi, ma tutto è oscurato dalla parola Io.
Anche Scores That Shaped Our Friendship – unica tra le opere viste nei due giorni a non essere un “solo” – parte da questioni autobiografiche, per inserire però il pubblico in una relazione aperta e imprescindibile con l’opera nel suo divenire. I tre artisti, due in scena e una alle musiche dal vivo, raccontano, con poche parole e attraverso i loro corpi, una relazione di amicizia in cui i confini diventano morbidi e si aprono a sensualità estreme e poetiche. Le difficoltà date dalla disabilità diventano anche un modo per creare un rapporto in grado di contenere quella stessa diversità. Lucy Wilke è una performer con la SMA (atrofia muscolare spinale), Paweł Duduś è attore che si contraddistingue invece per una fisicità statuaria. Tale contrapposizione però non restituisce una visione che superficialmente potrebbe giocare proprio su questa distanza, al contrario serve a creare un sistema in cui ognuno si prende cura dell’altro. I corpi determinano la nostra posizione nel mondo, dunque anche il potere con cui possiamo controllare gli altri. In una scena Paweł ci mostra quanto il suo atletismo possa dargli il potere di una bestia selvaggia, come un ghepardo salta da un divanetto posto in mezzo al pubblico e si avvicina pericolosamente a Lucy: l’impossibilità di movimento, la fragilità del corpo non aiutano la vittima. Tuttavia il corpo è anche qualcosa che deve rappresentarci socialmente: esistono davvero i confini tra i generi? Paweł afferma che il proprio fisico alcune volte gli sembra l’immagine degli stereotipi maschili, altre volte rivendica invece qualcosa di più schiettamente femminile. Si può danzare in due su una sedia a rotelle, ci si può rotolare, si può essere l’una per l’altro: nei movimenti grandi e atletici e in quelli piccolissimi, fino a quelli interiori, per noi invisibili.
Come sempre Santarcangelo si estende in zone non teatrali della città, la performance di Otero è andata in scena nel cortile della Scuola Pascucci di fronte a una platea gremita e Scores That Shaped Our Friendship nella palestra di un’altra scuola, l’ITC Molari. In un altro luogo pubblico e centrale, Piazza Ganganelli, c’è una grande piattaforma circolare in legno, è una bella idea della direzione artistica di Kireńczuk che guarda alla storia della Polonia e Gli Accordi della Tavola Rotonda del 1989 tra il governo Solidarnosc e altri gruppi di opposizione. Qui alle 19:00 il sole è ancora caldissimo e un pezzo dello spazio non beneficia dell’ombra. Paweł Sakowicz, autore e interprete di Jumpcore, entrerà nel cerchio al suono della Messa dell’incoronazione e comincerà a muoversi, a danzare: ha una vestaglia con una fantasia marmorea, pantaloncini e scarpe da ginnastica. Anche l’atteggiamento è quotidiano, quasi dimesso; la performance è un omaggio a Warhol Fred Herko, artista che nel 1964 si è tuffato dal quinto piano di uno stabile newyorkese, era a casa di un amico, aveva appena fatto il bagno – ecco la vestaglia – nella casa suonavano le note di Mozart. Le cronache raccontano di un suicidio allestito quasi come una performance d’addio. La storia dell’artista indigente di quasi sessant’anni fa rimarrà però in questi pochi indizi e nello spunto coreografico principale: il salto.
Sakowicz nei 40 minuti di performance, fino allo sfinimento, lavorerà su sequenze coreografiche legate a questa azione. Stiano alla larga coloro che cercano il gesto atletico, pulito, tecnicamente performante, il coreografo e danzatore polacco lavora sul filo dell’ironia, con il volto mantiene una fierezza impassibile che però non corrisponde, volutamente, alla qualità del gesto o alla prestanza fisica. Non possiamo non provare empatia nei suoi confronti, è coinvolgente, kitsch e in grado di decostruire i gesti dei vari stili coreografici: si suda insieme e si tiene il ritmo quando la musica elettronica si prende la scena con i suoi bpm. Poi una pausa e Sakowicz ci prende ancora in contropiede, si ferma e canta Gods and Monsters di Lana Del Rey: I’m living like Jim Morrison/ Headed towards a fucked up holiday/ Motel sprees, sprees and I’m singing/Fuck yeah, give it to me/This is Heaven, what I truly want”/It’s innocence lost/Innocence lost. Il performer si prende gioco della nostra percezione, è anche in questo caso l’effetto kitsch ad essere ricercato, affidando il proprio pathos al testo di Lana Del Rey, oppure l’obiettivo è quello di una reale commozione?
Per essere apprezzata fino in fondo Jumpcore necessita di quel pezzo di realtà a cui fa riferimento, dunque chi intercetta lo spettacolo distrattamente, senza preparazione, potrebbe perdersi elementi in grado di rendere l’esperienza più concreta e suggestiva. Questo vale anche per altre opere in programma, pensiamo ad esempio alla danza del brasiliano Calixto Neto (su coreografia di Luiz de Abreu) in cui l’obiettivo è quello di «riprodurre in scena gli stereotipi legati alla rappresentazione del corpo nero, profondamente radicati in Brasile e intrappolati in un’accezione a metà strada tra l’esotismo e l’erotismo», insomma un impianto teorico complesso a leggere la scheda di presentazione a fronte di una performance molto ripetitiva nei suoi venticinque minuti e dunque apparentemente semplice ed esibizionistica. Qui si aprirebbe un discorso interessante sulla mediazione con il pubblico e forse Santarcangelo potrebbe agevolare maggiormente la porosità della comunità temporanea in relazione a sguardi più esterni. Vero che c’è un info point efficiente e gentile in piazza, vero che ci sono dei talk pomeridiani con gli artisti o altri approfondimenti, ma forse trovare anche una mediazione, più immediata e prossima agli spettacoli, aiuterebbe, soprattutto se pensiamo che gli apparati teorici sono così importanti e legati alla fruizione delle opere. Anche in questo caso si può prendere spunto dalla Biennale e dal lavoro svolto dalle decine di lavoratrici e lavoratori impiegati nel progetto del “catalogo attivo”, tablet alla mano e t-shirt con scritto “Ask me” sono a disposizione dei visitatori per spiegare e commentare le opere.
Andrea Pocosgnich
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