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HomeArticoliRifiutare Cechov? Dall'Ucraina all'Italia il teatro impossibile di Non tre sorelle

Rifiutare Cechov? Dall’Ucraina all’Italia il teatro impossibile di Non tre sorelle

Recensione. Non Tre Sorelle / НЕ ТРИ СЕСТРИ, di Enrico Baraldi, è uno spettacolo che racconta un dissidio: l’impossibilità di andare in scena con il capolavoro di Cechov diventa dibattito teatrale. Sul palco attrici italiane e ucraine provenienti dal progetto Stage For Ukraine. Visto alla prova generale prima del debutto in anteprima a Kilowatt Festival. Prossime date a Prato, 1-4 dicembre 2022, Teatro Fabbrichino.

Foto Alberto Camanni

Anfisa entra in scena con una mazza da baseball nera, guanti e una visiera protettiva, lo spettacolo è cominciato da un po’: tre, quattro, forse cinque colpi per distruggere tazze e tazzine presenti sul grande tavolo che occupa la parte destra della scena; porcellana bianca, come i vestiti con cui le attrici appaiono all’inizio dell’opera dal buio nello spazio. I costumi primo Novecento rimarranno pochissimo su quei corpi, questo testo non può andare in scena. Una delle più famose opere teatrali di Cechov, così rassicurante nel suo essere classica, come afferma in proscenio Alice Conti, non può divenire spettacolo così facilmente. Nel qui e ora del nostro tempo, per alcune donne e uomini tutto si è fermato nella notte del 23 febbraio e da quella notte essere russo in Ucraina è un problema, mettere in scena un autore russo è un problema: «se postassi una foto dello spettacolo su Instagram dicendo che sto mettendo in scena Cechov diventerei famosa ma avrei grandi problemi di reputazione», afferma a un certo punto un’altra interprete. Subito si capisce, però, che qui di spettacolare non c’è nulla perché è la possibilità stessa del teatro ad essere messa in crisi: lo affermano le tre attrici ucraine incontrate da Enrico Baraldi durante un workshop nel progetto Stage for Ukraine (ideato da Matteo Spiazzi), il pensiero va a Kyiv, non a Mosca come il testo vorrebbe. Come può una giovane donna ucraina fuggita dalla guerra pronunciare quella frase, tra le più celebri della storia del teatro mondiale: «a Mosca, a Mosca, a Mosca»? Eppure, in quella frase c’è la speranza, la speranza del ritorno, Mosca per una frazione di secondo diventa Kyiv, «tu mi stai parlando anche se io non voglio» afferma una delle attrici rivolgendosi al ritratto di Anton Cechov dopo avergli deturpato gli occhi con una vernice spray.

Foto Alberto Camanni

Non tre sorelle era il progetto con cui Enrico Baraldi (anima insieme a Nicola Borghesi di Kepler 452) vinse il bando per giovani registi del Teatro Metastasio: è lo stesso spettacolo (con la drammaturgia di Francesco Alberici oltre che di Baraldi) a raccontare il blocco del processo creativo e produttivo causato dalla pandemia e la rinascita con le tre attrici ucraine nel segno dell’impossibile messinscena; del testo cechoviano rimarranno solo pochi brani proiettati, ma numerose immagini e riferimenti. Nessun pirandellismo chiude però l’impossibilità del dramma di divenire scena, il problema non è nell’identità filosofica del personaggio, qui la questione è politica, culturale, ha a che fare con le ferite che un intero popolo tuttora vede aprirsi. Ha a che fare con i missili russi che ancora oggi sventrano i condomini, con il teatro di Mariupol e i centinaia di morti sotto quelle macerie, con il fatto che le tre attrici ucraine, se fossero ora a Kyiv, potrebbero salire sui palchi solo di quei teatri con i sotterranei pronti per eventuali bombardamenti. Ma ha a che fare anche con le reazioni scomposte e le censure, accettare il livore di un’attrice contro ciò che Cechov rappresenta è comprensibile, forse meno per uno Stato che rispetto alla cultura dovrebbe essere neutrale. Anche qui per noi il giudizio sembra attività filosofica senza conseguenze, noi non consideriamo il nostro presente come un incubo notturno cominciato la sera del 23 febbraio. Quella sera Anfisa doveva andare in scena con uno spettacolo di varietà satirico, fu la sua ultima volta sul palco in Ucraina (al Left Bank Theatre, ora chiuso al pubblico proprio perché mancante di un rifugio sotterraneo): la giovane attrice sale sul tavolo e racconta quella serata, l’angoscia crescente nelle pause dello spettacolo, mentre arrivavano le notizie sugli smartphone, nessuno poteva credere alla realtà dei comunicati governativi e rispetto all’imminente chiusura dei teatri ci si scherniva con battute e sorrisi che però già nascondevano la paura.

Foto Alberto Camanni

Natalia Mykhalchuk, Julia Mykhalchuk, Anfisa Lazebna dividono il palco con Alice Conti e Susanna Acchiardi, sul tavolo i copioni, stampati in quattro lingue, italiano, inglese, russo e ucraino. Siamo abituati a pensare all’arte come qualcosa di sacro, a difendere un capolavoro dal fuoco e dalla distruzione: mentre Anfisa porta in scena una macchina distruggi documenti e comincia a ridurre i testi in pezzi, Susanna cerca di salvarne alcune copie di soppiatto, immagine esemplare per quanto bizzarra e comica. Le parole di Cechov però torneranno poesia quando un ventilatore spingerà i frammenti di carta in aria, a ricordare quel secondo atto del celebre testo, quel momento in cui Maša chiederà a Tuzenbach il senso della vita e questi risponderà «Il senso? Ecco, guardate la neve che cade. Che senso ha?».

Foto Alberto Camanni

L’indicibile diventa attesa e mito, dipende dunque da dietro quale muro lo si guardi, Conti e Acchiardi non aspettavano altro, sognavano quel testo, loro sì che hanno qualcosa del dissidio pirandelliano, anime in cerca di ruolo; ma anche le due attrici italiane si ritrovano a dover fare un passo indietro, ad ascoltare fuori dal cono di luce, come spiega Alice Conti in uno suo monologo. Enrico Baraldi, in questa sua prima importante produzione da regista, fa un lavoro minuzioso di spoliazione estetica ed emotiva, lo spettacolo rischierebbe di cadere nel precipizio della retorica e delle emozioni facili più e più volte, e invece non lo fa, si ferma tenendo la giusta distanza con una forma aperta che accoglie le contraddizioni del tema, del nostro presente, senza entrare nella polemica stantia, senza nutrire la propaganda, senza riempire il palco di morte. In questo spettacolo la guerra è la causa scatenante, la guerra è in qualche modo il motore drammaturgico; questo spettacolo dunque parla degli effetti della guerra, ma lo fa lasciando armi e violenza fuori dalla scena. E, forse, a pensarci, è un bene, il palco diventa così luogo in cui misurare le proprie scelte attraverso il teatro e la ragione, luogo in cui ascoltare e ascoltarsi: «chi l’avrebbe mai detto che Cechov sarebbe diventato il mio più grande problema», afferma non senza ironia una delle attrici. La morte è già presente nei notiziari, nei giornali, nelle narrazioni quotidiane e qui comunque rimane dietro ai discorsi, come un fantasma che ci guarda da lontano, come quando una delle ragazze racconta del tempo passato nella vasca perché la posizione le permetteva di stare sdraiata, lontana dalle finestre e perciò dai missili. Non bisogna dunque aspettarsi prese di posizioni geopolitiche, analisi documentaristiche o storiche, sono storie apparentemente piccole – riguardano tre giovani donne che hanno trovato accoglienza nel teatro italiano – non danno risposte sulla grande guerra, ma tentano di dare dignità a conflitti interiori per noi culturalmente lontani.

Foto Alberto Camanni

Nella sintesi estetica che mira a una scena scarna ed essenziale il contraltare è una narrazione che trova espressione fisica in una certa staticità dei corpi e della loro relazione con lo spazio; ma il lavoro dopo l’anteprima a Kilowatt Festival avrà il tempo per oliare le proprie dinamiche; discorso simile vale per la struttura portante inquadrata nel solito making off, forse troppo leggibile e meno efficace del resto. Ma sono dettagli estetici, di un’opera che tra l’altro rifiuta di farsi rappresentazione. Fortunatamente qui c’è molto altro a cui prestare attenzione, qualcosa che ci riguarda da vicino, che ha a che fare con la complessità del nostro baricentro etico e politico, con la nostra capacità di guardare oltre le ideologie e le opinioni polarizzanti.

Ho avuto modo di vedere questo spettacolo alla prova generale tenutasi al Fabbricone di Prato, il giorno prima del debutto a Kilowatt Festival, il regista, Enrico Baraldi, prima di fare sala, mi dice: «andremo in scena a dicembre qui a Prato, sperando che tutto sia finito», sperando insomma che questa opera sia profondamente inattuale… sperando.

Andrea Pocosgnich

Visto alla generale del 12 luglio 2022, Teatro Fabbricone

Anteprima al Teatro alla Misericordia di Sansepolcro, Kilowatt Festival il 13 luglio 222

NON TRE SORELLE / НЕ ТРИ СЕСТРИ
Liberamente non ispirato a un’opera di A. Cechov
con Natalia Mykhalchuk, Julia Mykhalchuk, Anfisa Lazebna, Susanna Acchiardi, Alice Conti
regia Enrico Baraldi
drammaturgia Francesco Alberici, Enrico Baraldi
assistenti alla regia Uliana Samoliuk, Ermelinda Nasuto
produzione Teatro Metastasio di Prato
con il contributo di Fondazione Cassa di Risparmio di Prato
un particolare ringraziamento al progetto Stage4Ukraine e a Matteo Spiazzi
progetto Davanti al pubblico 2020
Teatro Metastasio di Prato
con Fondazione Toscana Spettacolo Onlus / Centro di Residenza della Toscana (Armunia – CapoTrave/Kilowatt)
durata: 70’

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Andrea Pocosgnich
Andrea Pocosgnichhttp://www.poxmediacult.com
Andrea Pocosgnich è laureato in Storia del Teatro presso l’Università Tor Vergata di Roma con una tesi su Tadeusz Kantor. Ha frequentato il master dell’Accademia Silvio D’Amico dedicato alla critica giornalistica. Nel 2009 fonda Teatro e Critica, punto di riferimento nazionale per l’informazione e la critica teatrale, di cui attualmente è il direttore e uno degli animatori. Come critico teatrale e redattore culturale ha collaborato anche con Quaderni del Teatro di Roma, Doppiozero, Metromorfosi, To be, Hystrio, Il Garantista. Da alcuni anni insieme agli altri componenti della redazione di Teatro e Critica organizza una serie di attività formative rivolte al pubblico del teatro: workshop di visione, incontri, lezioni all’interno di festival, scuole, accademie, università e stagioni teatrali.   È docente di storia del teatro, drammaturgia, educazione alla visione e critica presso accademie e scuole.

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