HomeMedia partnership Neja Tomsic. Un tè per ricordare la nostra storia coloniale

Neja Tomsic. Un tè per ricordare la nostra storia coloniale

Intervista a Neja Tomšič, artista slovena che porterà a Pergine Festival Tea for five: opium clippers, performance che unisce poesia e disegno in una cerimonia cinese del té per raccontare le storie dei tagliatori d’oppio. Materiali creati in Media Partnership.

Foto © Jaka Babnik

ENGLISH VERSION BELOW

Il tuo background copre diversi linguaggi artistici. Come sei arrivata alla performance come momento di sintesi? 

La mia formazione è nella pittura e nella scrittura. Fin da piccola disegnavo e scrivevo sempre contemporaneamente. Ho studiato pittura all’Accademia delle arti di Lubiana, il programma era molto tradizionale: abbiamo disegnato modelli di nudo per tre anni, trascurando il campo teorico-critico, per questo dopo l’Accademia ho studiato filosofia. Amo dipingere, ma non sono in grado di esprimermi solamente attraverso le immagini (per ora?). Per me la pratica artistica è un esercizio di curiosità e di condivisione con gli altri, un modo per dare e ricevere qualcosa e forse anche testare i miei pensieri. Quindi mi sembra sempre limitante appendere un dipinto al muro. Quando stavo facendo ricerca per Opium Clippers, che è stato il mio primo lavoro performativo, ho pensato alla parte performativa come a un rituale che avrebbe attivato le opere visive – i disegni sul servizio di ceramica usato durante la performance.

In cosa consiste questo rituale?

Sedersi attorno a un tavolo insieme, bere il tè e ascoltare le storie che hanno reso possibile l’atto stesso di bere il tè. La performance non si svolge solo “dalla mia parte”, avviene anche nei partecipanti. All’inizio stavo pensando di creare il racconto solo attraverso una raccolta di disegni, poi ho pensato che poche persone si sarebbero prese il tempo per leggere tutto, avrei dovuto trovare un modo per accompagnare il lettore dall’inizio alla fine. Così ho articolato le storie come un’esperienza: decidere di ascoltare seduti e vicini è un’esperienza, è come decidere di percorrere il Sentiero della Memoria e della Rimembranza a Lubiana per ricordare i tempi in cui c’era un filo spinato in giro per la città. È così che ho iniziato con la performance, pensando: come possiamo essere compresenti in uno spazio artistico con i nostri corpi? In altri progetti successivi vedo la performance in modo simile, come attivazione del testo, del pubblico, delle opere d’arte. Un modo per concentrare l’attenzione, forse per praticate la collettività. C’è però anche una profonda dimensione testuale e narrariva: a volte le mie performance sono simili a delle lezioni.

Dici di interessarti a “storie trascurate e spesso nascoste”. Qual è il valore di una storia trascurata, cioè: che cosa aggiunge la rimozione stessa al soggetto? 

Con storie trascurate e nascoste intendo quelle storie che in qualche modo non si adattano alle grandi narrazioni. Nella narrazione delle guerre dell’oppio non sentiamo mai parlare del furto di materia prima che ha originato l’industria britannica del tè, o dei missionari cristiani che hanno aiutato i trafficanti di oppio ad espandere le loro tratte commerciale. Soprattutto, non sentiamo parlare della tossicodipendenza originata dalle tratte, o delle vite dei piccoli commercianti. Il valore di queste micro-storie è che spostano il focus dalla Storia come qualcosa che accade, al modo in cui gli uomini l’hanno vissuta, o persino all’idea di una storia parallela. Credo che la rimozione aggiunga complessità. Le nostre storie incorrono spesso in momenti di cancellazione e riscrittura, ma credo sia sempre doveroso ricordare: il ricordo genera empatia verso altra posizioni, consentendoci di agire come comunità.

Tea for five si occupa dei presupposti storici del capitalismo e del colonialismo. Qual è il ruolo del tuo lavoro in relazione a questi problemi? 

Opium Clippers risale alla culla del consumismo e parla di come le stesse strutture politiche ed economiche, le nostre abitudini e stili di vita in cui abitiamo, siano una continuazione della nostra storia coloniale. Qui è necessario ricordare come io abbia fatto parte dell’ultima generazione dei “pionieri di Tito” (un’organizzazione giovanile di regime, ndr), che ha sperimentato la transizione al capitalismo neoliberista. Il movimento dei non allineati era un movimento antimperialista, quindi la storia imperiale non era la nostra storia. Il mio interesse per la storia del commercio dell’oppio e del tè è stato innescato dalla mia esperienza quotidiana: in primo luogo, le ondate di dipendenza da eroina che hanno avuto luogo nella mia piccola città natale durante la scuola elementare e l’epidemia di dipendenza da oppioidi che gli Stati Uniti stanno vivendo negli ultimi 20 anni. La dipendenza implica emarginazione, ed è impossibile parlare di colonizzazione senza tener conto dell’invenzione della tossicodipendenza e dello stile di vita consumistico. La mia prospettiva quindi è: parlo di storie cinesi, britanniche, americane e indiane, perché ho dovuto studiare queste storie per rispondere a domande sulla realtà in cui mi trovo. Ma come performer sento la responsabilità di imparare dai partecipanti, di rispettare il loro spazio rispetto alla mia posizione, che potrebbe anche essere sbagliata.

La performance è per pochi partecipanti, come coniughi questa scelta radicale con la sua sostenibilità?

Il numero limitato di partecipanti sottolinea la preziosità della cerimonia del tè e consente a tutti di bere dalle opere d’arte: l’intimità che si crea garantisce un ricco scambio tra i partecipanti. La sostenibilità per come la intendo io è dunque su un piano diverso. D’altro canto lo spettacolo è estremamente leggero: viaggia in un’unica valigia con me! Normalmente faccio diverse ripetizioni in modo che più persone possano vederlo. Richiede solo di essere presentato a un pubblico ristretto e penso che ne valga decisamente la pena: è il formato che richiede questo lavoro.

Da Lubiana, a poco più di un’ora dal confine italiano, qual è la tua percezione del campo artistico nel nostro paese rispetto alla situazione slovena?

Direi che c’è sorprendentemente poco scambio tra Slovenia e Italia, ma non necessariamente per mancanza di interesse. Nella mia esperienza ho sofferto molto la barriera linguistica, penso che entrambe le scene culturali basino le loro identità sulla lingua. Questa è stata anche la sfida per Opium Clippers, che quest’anno porterò in Italia tre volte, perché abbiamo creatouna versione italiana dello spettacolo: per la prima volta, dopo quasi 100 recite, servirò solo il tè e l’attrice Silvia Viviani narrerà al posto mio.

ENGLISH VERSION

Your background covers different artistic languages. How did you come to the performance as a moment of synthesis?

My background is in painting and writing. I have always been drawing and writing at the same time since I was young. I studied painting at the Academy of Arts in Ljubljana, but the program was very traditional: we drew nude models for three years, neglecting the theoretical-critical field, so after the Academy I studied philosophy. I love to paint, but I am not able to express myself only through images (for now?). For me, art was always a way of practicing curiosity., of sharing and connecting with others, a way to give and receive something and perhaps even test my thoughts. So it always seems limiting to me to hang a painting on the wall. When I was researching for Opium Clippers, which was my first performative work, I thought of the performative part as a ritual that would activate the visual works – the drawings on the ceramic service used during the performance.

What does this ritual consist of?

Sitting around a table together, drinking tea and listening to the stories that made the very act of tea drinking possible. The performance does not only take place “on my side”, it also happens in the participants. At first I was thinking of creating the story only through a collection of drawings, then I thought that very few people would take the time to read everything, I would have to find a way to accompany the reader through it. Therefore, I articulated the stories as an experience: listening seated and close together is an experience, it is like deciding to walk the Path of Momory and Remembrance in Ljubljana to remember the times when there was a barbed wire around the city. This is how I started with the performance, thinking: how can we be co-present in an artistic space with our bodies? In other subsequent projects I see the performance in a similar way, as activation of the text, the audience, the works of art. A way to focus attention, perhaps to practice collectivity. However, there is also a profound textual and narrative dimension: sometimes my performances are similar to lectures.

You say you are interested in “neglected and often hidden stories”. What is the value of a neglected story, I mean: does oblivion itself add anything to the subject?

By neglected and hidden stories I mean those stories that somehow don’t fit into great narratives. In the narrative of the opium wars, we never hear of the theft of raw materials that gave rise to the British tea industry, or of the Christian missionaries who helped opium traffickers expand their trade lines. Above all, we don’t hear about drug addiction originating from trafficking, or the lives of small traders. The value of these micro-stories is that they shift the focus from History as something that happens, to the way humans have lived it, or even to the idea of ​​a parallel story. I believe the removal adds complexity. Our stories often run into cancellation and rewriting, but I believe it is always a duty to remember: memory generates empathy towards other positions, allowing us to act as a community.

Tea for five deals with the historical assumptions of capitalism and colonialism. What is the role of your work in relation to these problems?

Opium Clippers goes back to the cradle of consumerism and talks about how the very political and economic structures, our habits and lifestyles we live in, are a continuation of our colonial history. Here it is necessary to recall how I was part of the last generation of “Tito’s pioneers”, which experienced the transition to neoliberal capitalism. The non-aligned movement was an anti-imperialist movement, so imperial history was not our history. My interest in the history of the opium and tea trade was triggered by my daily experience: first, the waves of heroin addiction that took place in my small hometown during elementary school and the epidemic of opioid addiction that the United States has been experiencing for the past 20 years. Addiction implies marginalization, and it is impossible to speak of colonization without taking into account the invention of drug addiction and the consumerist lifestyle. So my perspective is: I’m talking about Chinese, British, American and Indian stories, because I have had to study these stories to answer questions about the reality I find myself in. But as a performer I feel the responsibility to learn from the participants, to respect their space with respect to my position, which could also be wrong.

This performance takes place only for a few participants, how do you combine this radical choice with its sustainability?

The limited number of participants underlines the preciousness of the tea ceremony and allows everyone to drink from the works of art: this intimacy guarantees a rich exchange between the participants. Sustainability as I understand it is therefore on a different level. On the other hand, the show is extremely light: it travels in a single suitcase with me! Anyway I normally run several repetitions so that more people can see it. Tea for five just requires to be presented to a small audience and I think it’s definitely worth it – it’s the format that requires this work.

From Ljubljana, just over an hour from the Italian border, what is your perception of the artistic field in our country compared to the Slovenian situation?

I would say that there is surprisingly little exchange between Slovenia and Italy, but not necessarily due to lack of interest. In my experience I have suffered a lot from the language barrier, I think both cultural scenes base their identities on language. This was also the challenge for Opium Clippers, which we have turned into an Italian version because I will bring it to Italy three times this year: for the first time, after almost 100 performances, I will only serve tea and the actress Silvia Viviani will narrate at the my place.

Redazione

TEA FOR FIVE: OPIUM CLIPPERS; 14-16 luglio 2022, Pergine Festival. Clicca qui per info e prenotazioni

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