Recensione. Dopo Antichi Maestri, Federico Tiezzi compie un passo indietro fino al primo ideale capitolo della trilogia dell’arte di Thomas Bernhard: Il Soccombente, ridotto da Ruggero Cappuccio e con un magnetico Sandro Lombardi. In scena a Napoli per il Campania Teatro Festival 2022.
Non è vero che il genio non conosca margini e li oltrepassi, sarebbe diversamente privo di equilibrio; è del genio in contrario la qualità di ridimensionare i margini più in là, comporre dei nuovi confini al posto di quelli universalmente noti. E l’umanità si distingue tra chi sa accogliere, riconoscere l’atto di supremazia del genio e chi altrimenti lo soffre e, immancabilmente, subisce il primato non conquistato ma già dato prima di una ipotetica competizione. È in questa anomalia che si specchia, fin dalla sua prima edizione nel 1983, Il Soccombente di Thomas Bernhard, romanzo divenuto presto un classico contemporaneo della scena teatrale, come in questa nuova versione firmata alla regia da Federico Tiezzi, al debutto assoluto per il Campania Teatro Festival 2022 al Cortile della Reggia di Capodimonte e, idealmente, primo capitolo della trilogia bernhardiana dedicata alle arti, assieme al già realizzato Antichi Maestri.
È la storia di un’altra storia. C’è un Narratore che rievoca il tempo della propria giovinezza al fianco dell’amico e pianista più geniale del Novecento, Glenn Gould, filtrato dalla ulteriore percezione dell’altro grande pianista e amico, Wertheimer, talentuoso ma non abbastanza per essere al pari di Gould. La scena (di Gregorio Zurla) produce, o meglio riproduce, questa triangolazione sia per quanto riguarda la struttura geometrica – un rettangolo luminoso, come in Antichi Maestri, delimita la scena che acquista tridimensionalità attraverso una piramide di luce, ispirata alla tomba di Maria Cristina d’Austria a Vienna, realizzata dal Canova; alle spalle una gabbia riproduce al neon la forma del fondale – sia per ciò che concerne i componenti della vicenda. Infatti, nella memoria del Narratore – un magnetico, profondo Sandro Lombardi – appaiono ora Wertheimer – Martino D’Amico, che ne coglie gli aspetti più tragici con precisione e cura – ora sua sorella – Francesca Gabucci, che abita la scena con leggerezza – perché sia sempre evidenziato come tra gli esseri umani si sia gli uni soccombenti di altri, secondo la propria sorte e le occorrenze della vita.
Teatro della vicenda è Salisburgo, la città di Mozart, dunque la città della musica. Al centro, del racconto e della scena, un imponente e nero pianoforte a coda Steinway; nessuno vi siede, la sua presenza è ingombrante ma sacra, come se in esso risuonasse l’evocazione – assente – del convitato di pietra Gould, colui che ricorre in ogni punto del dialogo tra il Narratore e la memoria ma svanisce fin dalla prima apparizione, in un filmato nel piccolo schermo che sovrasta il piano (non propriamente utile allo svolgimento e tenuto su, peraltro, da improbabili cinghie tiranti color arancio). Il Narratore è in abiti casalinghi e calze, appressando poltrone e panche trapuntate di rosso attende una vestizione di là da venire, mastica la propria vecchiaia assieme ai ricordi del tempo giovanile; Wertheimer, che appare nella sua descrizione, è invece in abito cerimoniale e scarpe lucide; la venerazione di entrambi per quel pianoforte a centro scena si misura nella distanza di ognuno dai tasti e si sublima nella presenza della donna, elegantissima in abito nero, che consulta spartiti, si distende accovacciata nella coda, canta dolcissime arie liriche e rivela il proprio ruolo, in apparenza accessorio e volatile, soltanto durante il corso del racconto.
La riduzione operata da Ruggero Cappuccio interpreta il testo come proprio una partitura musicale, offrendo alla regia di Federico Tiezzi le note capaci di far risuonare lo spazio e, assieme, il corpo degli attori; del testo originale Cappuccio elimina quasi del tutto i riferimenti all’invettiva antiaustriaca, insistendo con giudizio sulla tematica dell’ossessione, dell’attrazione per ciò che è inarrivabile, non compiendo tuttavia il passo finale di maggiore severità quando la ridondanza attorno alla figura di Gould e la gelosia verso la sorella, da parte di Wertheimer, si prendono l’intero spazio di narrazione. L’incandescenza – e quindi l’intangibilità – del pianoforte è centrale per Federico Tiezzi che dispone lo strumento al centro di quella gabbia ideale, dove i personaggi possono arrivare ma senza poter fare altro che produrre una sola nota, perché inneschi unicamente il canto. Lo spazio, disegnato come detto di geometrie sovrapposte e inacidito da sprazzi di luci insinuanti (di Gianni Pollini), esprime una forma discordante, non omogenea, che proprio il nitore della recitazione permette in contrario di assorbire, come una variazione su una partitura di perfetta armonia.
I due vecchi amici, nel ripercorrere i passi della propria vita, non possono non riferirsi di continuo allo sguardo, alle parole di Gould su di loro, come se la loro vita non fosse altro che una proiezione: “Noi non esistiamo – dirà il Narratore – Noi veniamo esistiti”; e dunque ogni gesto, anche il più estremo come il suicidio di Wertheimer, è determinato dall’esistenza, in vita o in morte, dell’occhio enorme e profondo di Gould, quel suo talento inarrivabile interamente dedicato alla propria arte, quella elevazione definita non dallo studio, ma da una vocazione alla felicità attraverso la musica. Tuttavia, ed è qui che la riduzione di Cappuccio sviluppa la domanda più interessante, quanto sa esprimere della verità l’idolatria, fuori dalla percezione dell’idolatra? L’eccezionalità di Gould è indubbia ma, sembra dire tra le sfumature Bernhard, ha avuto in sorte di concludere la vita all’apice della gloria, così da renderla eterna, non ha avuto il tempo di fallire o, meglio, di ammaliarsi del proprio fallimento, come accaduto ai due amici, non è dunque stato sovrastato da nessuno che lo abbia reso, come Wertheimer, soccombente. Egli, dice il Narratore, “ha invidiato a Gould persino la morte”; per questo si è ucciso. E spetta proprio al Narratore, infine, tracciare i legami tra la storia e la memoria, senza i quali la storia stessa, il talento di Gould, il magnetismo della sua personalità, sarebbero implosi senza avere significato. Lui, il sopravvissuto che non ebbe neanche il ruolo antagonista di soccombente, è l’unico a potersi avvicinare, ormai vestito per il concerto, al pianoforte a coda, l’unico a poterlo suonare, l’unico a poter decidere, tuttavia, che la risposta della coscienza alla narrazione che vi abita dentro, non è altro che il silenzio.
Simone Nebbia
Campania Teatro Festival, Napoli – Giugno 2022
IL SOCCOMBENTE
di Thomas Bernhard
riduzione di Ruggero Cappuccio
regia di Federico Tiezzi
con Martino D’Amico, Francesca Gabucci, Sandro Lombardi
scene e costumi di Gregorio Zurla
luci di Gianni Pollini
regista assistente Giovanni Scandella
produzione Compagnia Lombardi-Tiezzi / Associazione Teatrale Pistoiese / Campania Teatro Festival
Foto: ph Giusva Cennamo – ag Cubo