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Jaha Koo. Di arte, chirurgia, suicidi e altri fenomeni coloniali

A partire dalle performance Lolling & Rolling e Cockoo dell’artista Jaha Koo presentate a Inteatro Festival, una riflessione sulla situazione artistica in Corea e la forte influenza dell’Occidente su questo stato

Foto Giulia di Vitantonio

Poco prima dello spettacolo, sullo schermo del Cinema Italia di Polverigi, vengono proiettate delle vecchie pubblicità; ce n’è una che mantiene tratti di riconoscibilità in mezzo a ideogrammi sconosciuti: un uomo orientale in mezzo a una coltivazione di ananas, vestito quasi fosse un esploratore, ne assaggia una fetta e poi dà l’ok agli altri. I rimandi tra immaginari diversi dicono della globalizzazione, sicuramente, ma parlano anche, sottilmente, di una nostra capacità umana di rispecchiarci anche mantenendo profonde distanze.

Queste sono due delle tracce alla base delle opere di Jaha Koo, artista coreano che da dieci anni vive e lavora in centro Europa, e che ha presentato a Inteatro Festival due performance: Lolling and Rolling e Cockoo, primo e secondo capitolo assieme a The history of the Western Korean tragedy dell’Hamartia trilogy.

Dicevamo di una certa colonizzazione culturale, di come possano essere invasivi alcuni immaginari non appartenenti a un determinato panorama, colonizzato al punto da dirlo proprio. L’appropriazione – fenomeno che c’è sempre stato – di tempi e modi diversi che vengono “da fuori” viene data vincente e pertanto non può che apparire migliore, eppure, quando questi aspetti si accostano a questioni socio-politico-culturali per nulla risolte, la cultura di partenza da una parte innesca su di sé azioni di deprezzamento e, dall’altra, fa emergere un certo patriottismo acritico di ritorno. Paradosso? No.

Foto Giulia di Vitantonio

Lolling and Rolling presenta come nucleo tematico l’ossessione da parte dei coreani della lingua anglofona a tal punto da innescare fenomeni di adesione, personificazione e trasformazione che possono anche giungere a comportamenti e scelte sconsiderati, come l’acquisizione di un atteggiamento “tipicamente americano” anche nei bambini, che parlano un inglese perfetto in video (ostentando sicurezza e sfacciataggine, in quella american-way-of-life che diventa status), o come un intervento chirurgico praticato sotto la lingua perché si pensava – erroneamente – che permettesse una più corretta pronuncia della r.

Con un fare quasi brechtiano, Koo, che in scena si serve soltanto di un tavolo, alcuni mixer e di due schermi quadrati alle sue spalle (su cui vengono proiettati video sempre di sua creazione, assieme alle puntuali traduzioni), parla con tono composto, alternando momenti realistici ad altri più onirici, tra inglese e coreano, in una drammaturgia per quadri che, pur partendo dal dato autobiografico si sposta verso l’Altro, verso una visione più universale. «Ero molto interessato, quando mi trovavo in Corea, su come far emergere una voce politica nel processo artistico», afferma Koo in un’intervista a cavallo tra le performance. Per far ciò sceglie di innestare su un linguaggio per lo più umoristico (inteso in senso pirandelliano), alcuni momenti invece più espliciti, all’interno dei quali la portata violenta delle immagini spiazzanti arriva proprio perché “preparata al contrario”, quasi fosse l’intero pezzo una sorta di avvertimento sempre più serio. L’utilizzo di questa digressione diventa allora una necessità per «creare una connessione intima con il pubblico, cercare un modo per creare solidarietà, facendo rispecchiare gli altri in una storia che non sia la loro». Allora, la scelta dell’immagine violenta – sulla quale a lungo si è interrogato se, quanto e come inserire – diventa una richiesta al pubblico di consapevolezza. «Non un “effetto teatrale” gratuito, che sarebbe old fashion, naif», bensì, «a patto che si abbia una necessità comunicativa reale», un modo per riconsiderare il singolo individuo all’interno della società, dove il rispecchiamento non passi soltanto attraverso la condivisione dell’indignazione ma anche per la bellezza – ed è per questo che serve l’arte, sembra dirci. Una bellezza che può anche, a un certo livello, non essere compresa a livello del significato letterale, razionale, ma già afferrata nei suoni, per quanto distanti o estranei possano essere.

Foto Giulia Di Vitantonio

Forse proprio per questo i due spettacoli successivi, pur affrontando temi altrettanto forti, lo fanno senza la durezza di questo primo. Per cui per esempio Cockoo, (di cui ne parlava Andrea Pocosgnich da Fies) può permettersi di toccare la grande crisi economica di fine ’90, che tuttora reca sulle vite dei coreani i pesanti strascichi, a tal punto da spingere moltissimi al suicidio eppure, al dato di cronaca generalizzato e al fatto biografico legato alla vita interrotta di un amico dell’artista, fanno da ironico controcanto tre “performer non umani”, i cockoo. Le tre cuociriso, ciascuna con proprie caratteristiche in crescendo tecnologico, sembrano corrispondere a tre diverse personalità, da quella basica che però fa il proprio lavoro a quella “tutto fumo e niente arrosto”; i battibecchi in loquendor smorzano la tensione, ma in una certa misura non permettono mai che ci si dimentichi del tema. Scelta questa che poi rimarrà anche in The history of western korean theatre (visto da Sabrina Fasanella durante la scorsa edizione di Short).

In contrapposizione alla concezione “occidentalizzata” delle arti performative coreane, che fanno propri nomi come Shakespeare o Molière, Arthur Miller o Tennessee Williams, o che concepiscono genericamente la contemporaneità con le avanguardie novecentesche tra Beckett, Brecht o Ionesco, Jaha Koo teorizza e pratica un teatro non per forza o non del tutto umano. Un teatro che tenga conto del presente, che provi a ribaltare (come stanno facendo alcune frange di più giovani artisti anche adesso in Corea, legandosi ai movimenti del #metoo o alle proteste contro tragedie come l’affondo del traghetto Sewol nel 2014) un certo atteggiamento patriarcale, etero-normativo e improntato all’obbedienza acritica che appartiene ancora in pieno alla cultura coreana.

Viviana Raciti

Inteatro Festival 2022, Polverigi giugno 2022

LOLLING AND ROLLING
ideazione, testo, regia, musica, video e performance Jaha Koo
drammaturgia Dries Douibi
scenografia Eunkyung Jeong
consulenza artistica Pol Heyvaert
produzione OFFICENEINOFFICE
produttore esecutivo 2021 CAMPO
coproduzione Kunstenfestivaldesarts
supporto DAS Theatre

CUCKOO
ideazione, testo, regia, musica e video Jaha Koo
performer Jaha Koo, Hana, Duri & Seri
programmazione dei Cuckoo Idella Craddock
scenografia e supporto digitale Eunkyung Jeong
consulenza drammaturgica Dries Douibi
produzione Kunstenwerkplaats Pianofabriek Executive
produttore CAMPO
coproduzione Bâtard Festival
con il supporto di STUK, BUDA, DAS Theatre, SFAC & Noorderzon / Grand Theatre Groningen With the financial support of Vlaamse Gemeenschapscommissie

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Viviana Raciti
Viviana Raciti
Viviana Raciti è studiosa e critica di arti performative. Dopo la laurea magistrale in Sapienza, consegue il Ph.D presso l'Università di Roma Tor Vergata sull'archivio di Franco Scaldati, ora da lei ordinato presso la Fondazione G. Cinismo di Venezia. Fa parte del comitato scientifico nuovoteatromadeinitaly.com ed è tra i curatori del Laterale Film Festival. Ha pubblicato saggi per Alma DL, Mimesi, Solfanelli, Titivillus, è cocuratrice per Masilio assieme a V. Valentini delle opere per il teatro di Scaldati. Dal 2012 è membro della rivista Teatro e Critica, scrivendo di danza e teatro, curando inoltre laboratori di visione in collaborazione con Festival e università. Dal 2021 è docente di Discipline Audiovisive presso la scuola secondaria di II grado.

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