Davide Enia riparte dal Festival dei Due Mondi di Spoleto per rimettere in scena il suo ventennale Italia-Brasile 3-2 – Il Ritorno, racconto scritto vent’anni dopo la celebre partita omonima al Mundial ’82, vissuta con gli occhi di un bambino. Un’occasione unica per capire l’importanza dello sport nella nostra società contemporanea. Intervista
Non c’è miglior posto che un tavolino di un bar di quartiere, il nostro quartiere popolare, per parlare di calcio con Davide Enia. E parlare di vita. Quarant’anni sono passati da “la partita” svolta allo stadio Sarrià di Barcellona, tra l’Italia e quello che forse è stato il più forte Brasile di sempre. E ne sono passati venti dallo spettacolo che nel titolo porta il risultato storico e che osserva la partita come un’epopea familiare in una casa palermitana. Ma gli anniversari non piacciono a nessuno dei due, avevamo solo voglia di dirci la vita attraverso l’esaltazione collettiva, l’umano che si vede attraverso l’aggregazione del popolo, l’epica del gesto atletico, sportivo, artistico, il riverbero nella società.
Quale importanza ha questo Italia-Brasile 3-2 nel tuo teatro e nella vita?
È in pratica il primo spettacolo in cui ho avuto la comprensione di ciò che stavo facendo, in cui c’è una compattezza drammaturgica e un’idea scenica definita. L’idea era quella di fare uno spettacolo popolare, decifrabile da tutti, dal pescivendolo al professore, dal tifoso a chi non era mai stato allo stadio, e che mettesse in gioco un’idea del mito meno battuta in quegli anni: lo sport in teatro era praticamente assente, alcuni nel cinema l’avevano usato come manifesto generazionale, a me interessava parlarne perché è il mondo dal quale vengo, mi interessava dire come il calcio venga vissuto in maniera intima, carnale. Quella partita è “la partita” per eccellenza, l’ho vista che avevo 8 anni e per me il mondo gli uomini lo vedono una sola volta, da bambini, il resto è nostalgia di quel che abbiamo visto allora e il tentativo di capire perché ci avesse così colpito. Per me Italia-Brasile dell’82 è la scoperta del calcio, la scoperta della potenza che ha il gesto sportivo nella creazione di qualcosa di innegabile come la verità emotiva, il sentimento di pura gioia; in più è una partita che ha avuto un andamento drammaturgico completamente insensato, che a riscriverla ti darebbero del pazzo, e io avevo questi ricordi di grande gioia e di sofferenza allo stesso tempo. In oltre 800 repliche, dal 2002 a oggi, molto spesso la gente è venuta da me a dirmi: “Tu hai raccontato una storia in cui io c’ero, a casa mia succedevano le stesse cose”. Ecco, sono riuscito forse a raccontare un momento di coscienza collettiva, in cui far ridere, gridare le persone: volevo fare uno spettacolo felice.
Qual è il legame della tua storia di oggi con quella di allora?
Oggi alcuni interpreti di quello spettacolo, da Paolo Rossi a Bearzot, dal portiere Waldir Peres a Socrates a mio zio Beppe, sono morti, e questo dialogo tra vivi e morti era già nel seme di Italia-Brasile, in cui sentivo di entrare a contatto con qualcosa o qualcuno che già non c’era più, da Garrincha a Trusevich (portiere della Dinamo Kiev simbolo della resistenza ucraina al regime nazista NDR). Questo dialogo rappresenta gli 8 anni che non avevo più.
Perché, al di là del potere degli anniversari, riportarlo in scena?
Viviamo in un tempo di grande conflitto sociale: le notizie del nostro presente sono espressione di una politica repressiva e autoritaria, della mancanza di decisione su questioni di pubblico dominio, di negazione dei diritti; avevo dunque bisogno di un lavoro con il quale recuperare la coesione sociale e quella partita, quel senso di appartenenza, di orgoglio – che è uno dei grandi collanti dello sport, per cui si creano le tifoserie, viscerali ma sane – contribuisce, in un tessuto sociale spaccato che ha perso la carnalità di stringersi, abbracciarsi, urlare, a ricreare l’esperienza rivoluzionaria della felicità.
Italia-Brasile 3-2 è uno spettacolo con delle parti comiche molto accentuate. Qual è il ruolo della comicità rispetto al conflitto sociale?
Noi abbiamo sempre sottostimato l’importanza della gioia come momento di catarsi collettiva, come se la catarsi fosse possibile solo di fronte alla tragedia; invece l’enorme potere di coesione, rispetto alle fratture del presente, che riesce a dare uno spettacolo prevalentemente comico, è l’enorme scarica di adrenalina liberatoria che abbiamo per troppo tempo taciuto, dimenticato. Questo accade perché quella partita rappresenta un po’ tutte le partite e questo, in un contesto sociale frantumato, permette la potenza identitaria di riconoscersi in una collettività.
E il calcio lo permette anche oltre ogni differenza culturale, etnica. Penso al valore sovranazionale che hanno le storie tratte da eventi calcistici che, tuttavia, hanno proprio all’origine una paradossale contrapposizione tra squadre nazionali, o di club, o di quartiere: l’effetto che può avere la storia del capitano dell’Uruguay al Mondiale del ‘50 in Brasile, Obdulio Varela, su un ragazzo del nostro tempo in Europa è potenzialmente esplosivo. Ecco, qui si sviluppa quello che è il carattere epico dello sport, proprio in questo tempo in cui i personaggi sono ormai morti: tra noi e Socrates, oggi, c’è la distanza che c’è tra noi e Ettore, o Achille…
Non a caso infatti fin dall’inizio ho avuto l’intuizione di mettere ai personaggi degli epiteti ricorrenti: Paolo Rossi è quello “sempre magro”, “Il bellissimo Antonio Cabrini”, come in Omero Achille è “piè veloce” e così via. E questa cosa è probabilmente già nell’epica com’è nel nostro patrimonio genetico, per come l’abbiamo ascoltata e vissuta nei racconti, in cui quello sempre magro a cui non daresti una lira è l’eroe luminoso, il Davide verso cui si ripongono tutte le speranze per demolire Golia. Paolo Rossi, nella testa di tutti, sui giornali, per i media, era quello più scarso, convocato come ultimo, ma Bearzot lo schiera sempre, perché aveva la visione dei profeti: lui lo sapeva che l’unico a poterla risolvere era questo giocatore invisibile, che aveva il dono di comparire come un’apparizione stilnovista, ecco, come la Beatrice che appare a Dante e gli rimane in testa tutta la vita, ma per Waldir Peres Beatrice appare e ti segna 3 gol…
Cosa insegna ancora il calcio al nostro contemporaneo?
Questo processo, oltre ad essere gioco, permette anche di riposizionarci di fronte a come la società ci racconta che dovrebbe essere concepita la nostra esistenza, a questa demenziale scala valoriale che scompone la persona e la riduce all’economia che possiede, perché nello sport tu puoi avere un fisico straripante e non essere il giocatore decisivo. Questo è solo uno della serie di atti quasi magici che intessono quel filo tra ciò che accade sul terreno di gioco e quello che accade nella nostra vita: io sono convinto, come ogni tifoso sano di mente, che l’Italia ha vinto quella partita perché noi seguivamo la scaramanzia, il rito che andava in scena a casa nostra; e questa cosa è condivisa in ogni famiglia, in ogni tifoso, è quella follia collettiva dalla quale poi deriva la sapienza, perché il mondo non puoi spiegarlo con un atto razionale, oltre la ragione c’è una realtà spirituale che mette insieme i vivi e i morti e che esprime una dignità della persona oltre lo spazio e il tempo, in cui un giocatore zoppo come Garrincha, proprio in virtù della sua deformazione, diventa l’ala destra più forte di sempre e in cui vinci una partita mentre l’esercito nazista ti sta occupando (è il caso della Start FC di Kiev nel 1942 NDR), perché è lì che comincia la rivoluzione.
È molto interessante come andando avanti, crescendo, gli eventi storicizzati, che dunque sono raccontati seguendo una sequenza stabile di fatti, mutano secondo la nostra trasformazione, quindi non è vero che la storia sia immobilizzata e intoccabile, ma si modifica secondo il progressivo grado di maturazione che noi raggiungiamo attraverso il tempo. Ecco, la partita, che ha un risultato e una precisa ricorrenza di fatti nei 90 minuti, com’è cambiata nella tua percezione? Che relazione c’è, oggi, con quel bambino di 8 anni?
Come già accade in Maggio ‘43, che ho avuto la fortuna di rifare e in cui di anni ne avevo 12, c’è una sensazione sempre di grande tenerezza verso l’apertura, la scoperta che il bambino può dare a me adulto. È una ricerca continua di equilibrio, proprio forse perché io cambio nel tempo, così mi affido al me di allora, di 12 oppure di 8 anni, perché avevo uno sguardo più lirico, quindi più completo, di battezzare il mondo. In scena io cerco un abbandono al personaggio, dentro il quale cerco di trovare le vibrazioni di questa liturgia che inserisce il teatro nella sfera del sacro, questo miracolo di non esaurirsi mai replica dopo replica e continuare a rilasciare calore come le braci. Quando vediamo in cielo gli uccelli che danzano in questo modo straordinario e ci chiediamo cosa stiano facendo, io sono convinto che stanno giocando, come giocano tutte le categorie viventi. La perdita di questa dimensione nel mondo adulto ci inizia a confinare nell’età del calcolo, e quindi non siamo più in sintonia col desiderio, siamo sempre più schiavi dell’ego e meno in relazione con il nostro sé. E bisogna uccidere l’ego, per recuperare il sé.
Questo è uno spettacolo anche, soprattutto, di un tifoso. Il calcio è cambiato, ormai è luogo comune riferirsi alla depravazione capitalista del calcio moderno, ma com’è cambiata in te la percezione di questo sport insieme familiare e collettivo, quindi popolare?
Ho molto sofferto la mancata qualificazione al Mondiale, l’attuale e il precedente, perché quello che mi è mancato è il rito: vedermi con gli amici, portare da mangiare; non è che ci manca l’avventura calcistica della squadra nel contesto del mondiale, ci manca trovarci insieme, la ritualità dell’esperienza collettiva che si svolge ogni 4 anni, fatta di speranza, di gioia, di sofferenza. Io sono tifoso del Palermo, quindi di recente sono tornato a guardare le serie minori. E come tanti non mi riconosco in questo accumulo di capitali, questa trasformazione del calcio all’insegna del profitto, ma ai miei occhi sono ancora capace di riconoscere il lato estetico e apprezzare una verticalizzazione o la potenza di uno stop a seguire, così quando vedo ragazzini che giocano al campetto io mi fermo sempre, con la speranza nel cuore di trovare in quella giocata, quel tocco di palla, il nuovo Iniesta, il nuovo Messi. Perché il calcio lo capisci vedendolo dal vivo, l’atletismo, il talento di fare un gesto difficilissimo in estrema semplicità.
Per concludere, giochiamo insieme: se tu potessi scegliere, c’è un calciatore più moderno che ha la statura, il carattere tragico, per essere il personaggio di un racconto epico?
I calciatori forti sono tanti ma il narrativo è in quello che c’è fuori dal campo; e uno dei pochissimi sportivi che secondo me ha il senso dell’epica è Zlatan Ibrahimovic. È pazzesco, lui parla di sé come Dio, parla in terza persona, ha quell’atteggiamento arrogante determinato dalla sua esperienza di emarginazione sociale, ha fatto arti marziali e le applica al calcio per imporre sé stesso. In lui c’è una personalità straordinaria che va oltre l’atleta, è quello che risponde alla domanda su cosa abbia regalato alla moglie: “Niente, lei ha già Zlatan…” è tutto già scritto, non devi neanche fare lo sforzo.
Simone Nebbia
Leggi tutti gli articoli su Davide Enia (recensioni, interviste)
Tournée:
1-3 luglio 2022 – Festival dei Due Mondi, Spoleto
4 luglio 2022 – Festival Inequilibrio, Castiglioncello
29 ottobre 2022 La Città del Teatro, Cascina (PI)
All’inizio della nuova stagione sarà al Metastasio di Prato, al Piccolo Teatro di Milano, poi Pistoia, Napoli, Genova…