RECENSIONI BREVI MA INTENSE. Tra le tre figlie di Re Lear, Cordelia, è quella sincera. Cordelia ama al di là del tornaconto personale. Gli occhi di Cordelia appaiono meno riverenti di altri, ma sono giusti. Cordelia dice la verità, sempre.
Scorrete fino alla fine per trovare tutte le opere recensite finora.
Qui gli altri numeri mensili di Cordelia
PARADISO #RAVENNA
È un Paradiso senza Dio quello dei nanou. Un Paradiso liberato da qualsiasi retorica redentiva, perché il paradiso è già qui. In un tempo fermo che non si sviluppa, ma che si ripete come per restare al di là del tempo. Arriva a conclusione il progetto pluriennale del gruppo nanou sulla terza cantica di Dante, di nuovo per Ravenna Festival, con l’allestimento del visionario, felice setting di Alfredo Pirri e l’efficace paesaggio sonoro, drammaturgicamente molto intenso, di Bruno Dorella. E tanto scardinare la materia dantesca sembra definitivamente qui compiersi. La scena è un labirinto aperto, fatto di percorsi specchianti e di semisfere, come se il cosmo fosse a terra. La partitura delle luci ha un suo timing parallelo, ma non coincidente con le apparizioni, e ripete una ossessiva numerologia dantesca invisibile allo spettatore. Tutto il pubblico si mette qui in movimento, perché l’installazione non è più statica, le bolle trovano confidenza nei colori, l’ambiente da meditativo si trasforma in generativo. Il flusso senza dittatura del climax ci insegna come poter stare dentro un’opera e in essa trovare risposte, che è perfetta consegna dantesca. Nelle apparizioni danzate, coreografate da Marco Valerio Amico e Rhuena Bracci, non ci sono duetti né contatti, ma soltanto assoli e prossimità; qui non si compiono identità ma i corpi, le presenze, coloro che restano, sono solo linee che intercettano nello spazio la reversibilità del tempo. In uno spazio senza centro, continuamente decentrato e decentrabile dallo spettatore che può muoversi liberamente, come quel povero cristo di Dante, rossovestito e pinnato, che ogni tanto fa capolino, allibito, fuori del suo mare. (Stefano Tomassini)
Visto a Artificerie Almagià Crediti: Progetto Marco Valerio Amico, Alfredo Pirri, Bruno Dorella Coreografie Marco Valerio Amico, Rhuena Bracci Spazio ScenicoAlfredo Pirri Musiche Bruno Dorella Con Carolina Amoretti, Marina Bertoni, Rhuena Bracci, Andrea Dionisi, Agnese Gabrielli, Marco Maretti, Emanuel Santos, Michele Scappa
R.A.M. #MILANO
Tre pareti, costruite attraverso un montaggio di moduli in acciaio, circoscrivono come una membrana computerizzata una sterile scena distopica. Al centro un lettino di quelli che abitano gli odierni studi medici, un lettino su cui però dormiremo solo tra circa cento anni, dopo che avremo venduto la memoria ad un popolo che di ricordi non ne ha. Il testo del già affermato Edoardo Erba viene qui firmato dalla regia di Michele Mangini, che per la prima volta si cimenta con un testo di prosa, di cui ne cura con scrupolosità i dettagli, coordinando all’elaborata scenografia dell’artista Michele Iodice le luci camaleontiche di Pasquale Mari e i video retrospettivi di Alessandro Papa. In scena Marina Rocco, nelle calzanti vesti di Cruz, si mostra e racconta: alla sua totale e consapevole cancellazione dei ricordi segue la lugubre fobia dello smarrimento, l’urlo tagliente della rabbia, il vuoto. Ogni particella del corpo tende a frantumarsi senza la propria forza legante, di cui la memoria è coefficiente unitario. Cruz allora vagabonda spaventata in un luogo che non riconosce per un passato che tenta invano di recuperare; qui incontra una sé stessa che non può realmente ri-trovare, poi altri, soli come lei, in una chat virtuale spaesante. Circondata da personaggi che abitano quel confine tra il reale e l’illusione, la serva-robot, il medico fittizio, cerca di aggrapparsi ad una figura (con un’interpretazione irrisolta e astratta di Irene Vetere) che continuamente sfugge, mettendo in discussione la funzione del passato e dei ricordi, delle storie e delle bugie. (Andrea Gardenghi)
Visto al Teatro Franco Parenti. Crediti: di Edoardo Erba, regia Michele Mangini, con Marina Rocco, Gabriella Franchini, Alberto Onofrietti, Giovanni Battista Storti e Irene Vetere, e in video Angelo Curti, Adriano Falivene e Marco Montecatino, scene e costumi Michele Iodice, luci Pasquale Mari, video Alessandro Papa. Foto Luca del Pia
ALTAMIRA 2042 #NAPOLI Campania Teatro Festival
La ribellione come reazione consapevole ai grandi movimenti storici, economici e patriarcali, è un’esigenza fisiologica di autodeterminazione. Nelle comunità matriarcali dell’Amazzonia i corpi, solidi nella nudità che è sinonimo di presenza, minacciati e martoriati proprio nella loro nuda presenza, sono arma di rivolta. La performer Gabriela Carneiro da Cunha potenzia il suo con apparati tecnologici (casse, proiettori, cavi luminosi) per farsi portavoce e medium sovrumana delle voci che vivono delle acque del fiume Xingu, minacciato anche lui nel suo lungo corpo dalla costruzione della diga di Belo Monte. Lo spazio, ristretto per consentire al pubblico di disporsi intorno e all’interno dell’esperienza, si riempie di suoni della foresta e di canti; il buio è rotto dalle luci delle casse che producono iridescenze acquatiche sui muri. Corpi muliebri, acque e alberi vengono proiettati, e a loro si frappongono le immagini dello sfascio ambientale. I tempi, quelli degli spiriti e quelli degli uomini, sono tenuti insieme dai racconti che hanno un’intonazione femminile. L’immersione è nel rito di condivisione: l’intento è quello di “amazzonizzare” il mondo. Impossibile. All’entrata del teatro si è provato a distribuire il Manifesto per l’Amazzonia: una pila ridicola di fogli di carta, con placet e sigilli della Regione Campania, poi abbandonata su di una panca. Che spreco, che schiaffo, che ipocrisia. Con quanto poco pudore l’indifferenza del privilegiato (noi tutti) lascia scorrere davanti ai propri occhi, assuefatti e impigriti dal benessere, le vite degli altri. (Valentina V. Mancini)
Visto a Sala Assoli; Crediti Ideazione e creazione Gabriela Carneiro da Chunha; Regia Gabriela Carneiro da Cunha e Xingu River; Scrittura Raimunda Gomes Da Silva, João Pereira Da Silva, Povos Indìgenas Araweté e Juruna, Bel Juruna, Eliane Brum, Antonia Mello, MC Rodrigo – Poeta Marginal, MC Fernando, Thais Santi, Thais Mantovanelli, Marcelo Salazar e Lariza
AFTERITE+LORE #MILANO
Riambientato in un deserto che dovrebbe ricordare quello cileno di Atacama, la versione stravinskiana del Sacre di Wayne McGregor, Afterite visto alla Scala di Milano, sembra invece una vetrina natalizia di Bloomingdale, tra ben progettati ambienti postapocalittici e pronuncie ecologiche di grandi pretese, ma che sono sùbito soltanto merce. Molti passi, molti bellissimi, molte figure di gruppo con un perverso gusto modernista (stavo per scrivere retro), condite di proiezioni e light design sempre in overproduction. Che è anche il modo meno ecologico oggi di stare in scena. Alessandra Ferri è tanto maestosa nel flusso cinetico delle prese e nelle sequenze dinamiche, quanto insopportabile come vittima sacrificale della quale nessuno in scena sembra davvero saper che fare: a una certa, la mettono lì, al convergere di un angolo, fra invisibili catene, come un mimo in attesa di provino. Raccontare è proprio ciò che McGregor non sa fare. Meglio la versione de Les noces, dal titolo Lore, in cui la coreografia sfuma in una indistinta, in termini drammaturgici, successione di ‘abbandono e ricordo’ come per alludere alla vita del sacro. Ma ciò che veramente non torna è una sorta di corrispondenza e continuità tra le due coreografie che le partiture fra loro proprio non hanno. In questa serata scaligera, con pochissime idee coreografiche, la complessità della musica di Stravinskij vince sempre: alla fine, resta solo la progettata retorica della confezione, del formato pretenzioso, della coreografia come un servizio accessorio di cassa continua. (Stefano Tomassini)
Visto al Teatro alla Scala. Crediti: AfteRite Allestimento del Royal Danish Theatre Commissionato da American Ballet Theatre e The Royal Danish Ballet Prima rappresentazione assoluta Metropolitan Opera House, New York, 22 maggio 2018. Wayne McGregor, coreografia Alessandra Ferri, artista ospite. LORE Prima rappresentazione assoluta Wayne McGregor, coreografia Igor’ Stravinskij, musica Vicki Mortimer, cast e crediti completi
PALMIRE, LES BORREAUX #NAPOLI Campania Teatro Festival
Dopo X-Adra, racconti di prigioniere siriane militanti negli anni ’80, e Y- Saydnaya, storie di resistenza in prigionia, Ramzi Choukair conclude le sue narrazioni da Damasco concentrandosi sulle figure dei boia del regime di Assad. Questi sono uomini che vivono nella carne degli individui che hanno subito l’abuso della reclusione e della tortura; anzi, con alcuni di essi la carne la condividono. In scena, la militante Fadwa Mahmoud, in esilio in Germania, madre e moglie di dispersi, racconta del fratello Adnan diventato, dopo la militanza nel partito comunista, un alto responsabile dei servizi segreti siriani. Con lei sono presenti Riyad Avlar, prigioniero turco accusato di spionaggio e sotto regime penitenziario per vent’anni, e Samar Kokash, attrice imprigionata dopo aver preso parte alla resistenza durante la guerra. Le loro memorie vengono accompagnate da Jamal Chkair e Saleh Katbeh che guidano il pubblico all’ascolto. Le atmosfere e le intonazioni sono quelle del racconto più che del resoconto, in una dimensione che, in virtù di una ricerca poetica, si allontana dal freddo impatto della cronaca. Questa ricerca, che si risolve nell’intera messa in scena (troppo romantica, troppo europea, troppo per europei), non manipola ovviamente la realtà ma la allontana da chi ascolta; nonostante il peso dell’orrore di quello che viene raccontato. L’effetto è quello di colpire l’emotività e non la coscienza del pubblico, nel bidimensionale manicheismo che nella ripartizione tra buoni e cattivi non contempla mai le responsabilità occidentali. (Valentina V. Mancini)
Visto a Teatro Politeama; Crediti Scritto e diretta da Ramzi Choukair; Con Fadwa Mahmoud, Riyad Avlar, Jamal Chkair, Samar Kokash, Saleh Katbeh; Produzione/Distribuzione Kawaliss/CIE
RELATIVE CALM #ROMA
Relative calm. Forse che i grandi possano prendersi il tempo per ripensare al passato, soffermarsi sulle sinuosità di un movimento ripetuto ciclicamente, sul lento incedere ralenty di un ghepardo in corsa, su linee di luce, cerchi, tracce video di segni che scompaiono e appaiono giganti, sfrontati abbastanza da dirsi bastevoli. All’Auditorium Parco della Musica un grande debutto, un grande ritorno, uno sforzo produttivo che mette insieme due giganti del Novecento performativo, la coreografa Lucinda Childs e il regista light e video designer Robert Wilson: tre atti e due brevi inserti narrativi, in mezzo anche Susan Sontag, i suoni ironici di Stravinsky, la musica minimalista di Gibson e Adams. Eppure, di questa calma relativa, magniloquente rimane poco. Rimane il riconoscimento di artisti che hanno fatto sicuramente la storia di metà del secolo scorso, ma di quei suoni ipnotici che i danzatori (del MP3 Dance Project diretti da Michele Pogliani) provano a seguire rimane lo sforzo tecnico che non riesce a essere dissimulato nel tentativo di apparire sempre leggiadro. Rimane la forza magnetica dello sguardo di Childs, che sale sul palco e pronuncia pochi pensieri, (non basta che ad averli scritti fosse una filosofa come la Sontag), importante è la libertà di potersi prendere uno spazio e un tempo e viverlo fino in fondo anche non dicendo granché. Rimane con più forza il tempo di mezzo, quel Pulcinella stravinskyano che con ironia sembra guardare allo sfarzo sette-ottocentesco del balletto e dei balli di corte, con una raffinata e regale Agnese Trippa, (non a caso è un pezzo nuovo). Il minimalismo a priori poteva andare bene in un tempo in cui ce lo si poteva permettere. Adesso senza un’idea forte che lo sostenga, sembra soltanto formalismo. (Viviana Raciti)
Visto all’Auditorium Parco della Musica. Crediti: Ideazione, luci, video, spazio scenico e regia Robert Wilson; Coreografia Lucinda Childs, Musiche Jon Gibson, Igor Stravinsky, John Adams.
NIRIFUMO #NAPOLI
C’è una Napoli che sale in collina al bosco di Capodimonte per il Festival, c’è una Napoli che ne sa poco o niente, se ne sta nei quartieri e frequenta quel poco d’arte che è concesso, dove il sole proverbiale di città scivola tra un palazzo e l’altro. Martina Zaccaro ha invitato tutti al Cineclub di Materdei, un vecchio cinema fermato a un’epoca precedente, tra cineprese e proiettori, tra locandine e foto d’attori d’altro tempo. Nirifumo – La poesia dei maltrattati, che va in scena assieme a Claudia Cimmino, è un racconto popolare che prende forma in un ambiente casalingo dove la protagonista se ne sta quasi come in un dipinto, in mezzo ad altari votivi improvvisati, teli per la polvere a sovrastare mobili, lattine schiacciate di Coca Cola e una parete in fondo, ricoperta dai volantini offerta del supermercato su cui scrive poesia, che finiranno carta straccia; una torre di vestiti su un portabiti verticale fa da contraltare e sovrasta il centro scena, il dipinto di donna parlante che racconta l’arte di stare al mondo a modo suo, in contrasto con una società, a cui si rivolge, che non ha spazio per quelli come lei. Il testo di Zaccaro – pur diventando via via sovrabbondante, meno concreto e animato da qualche ripetizione di troppo – ha una qualità musicale e una scaltra immediatezza, vocato all’ironia attraverso cui raggiunge una precisa profondità; la modulazione del monologo indaga toni che vibrano verso l’alto e il basso, sia per la qualità vocale d’attrice sia per il linguaggio, ora raffinato e lirico ora più schiettamente popolaresco. Non è chiaro se la società abbia dato ascolto a Nirifumo, ma certamente Martina Zaccaro ha trovato una chiarissima voce per farsi ascoltare. (Simone Nebbia)
Visto al Cineclub. Testo, disegno luci e regia Martina Zaccaro; con Martina Zaccaro e Claudia Cimmino; impianto scenico Antonio Navarro; illuminotecnica Vittorio Adinolfi; organizzazione Agnese Pan.
SPECIALE: INEQUILIBRIO FESTIVAL 2022 #CASTIGLIONCELLO / #ROSIGNANO
Sono 25 anni che si cerca di stare Inequilibrio al Castello Pasquini di Castiglioncello, ma le cose da qualche anno sono cambiate: la produzione, il sistema residenziale, si è spostato nel comune di Rosignano dove nuovi e più organizzati spazi si sono uniti a quelli ormai storici, nel mezzo della pineta verso il mare. Come tanti ingranaggi diversi che producono un unico movimento – così l’immagine del festival realizzata da Roberto Abbiati – ad Armunia la danza e il teatro continuano ad avere un luogo privilegiato in cui esibirsi, in cui diventare ingranaggio del movimento di chi osserva.
OMBELICHI TENUI
È davvero così immediato definire l’identità? Ciò che è diverso non può essere simile? Un blocco di roccia compatto non è forse intimamente identico alla polvere della stessa materia? Eccoli i due corpi di Filippo Porro e Simone Zambelli, nello spazio disegnato in sottrazione dalle luci di Gianni Staropoli, cercare la loro simmetria nella difformità. In Ombelichi tenui, composto con la consulenza di Gaia Clotilde Chernetich, la ricerca ora di linearità rettangolare ora di trasversalità esplicita il legame proprio là dove si rompe l’uniformità; la sorpresa, il timore di ciò che di sé è riconoscibile in relazione, definiscono il passaggio a un altro non speculare ma disperatamente differente e che, proprio per questo, è impossibile non cercare. L’allontanamento e l’avvicinamento dei corpi avviene seguendo tracciati misteriosi quanto quelli degli uccelli che si cercano nel volo, la dinamica che attrae e respinge, che sovrasta o soggiace all’uno o l’altro corpo, attraversa sentimenti in contrasto, si sviluppa dall’amore più profondo e si sgretola nella violenza più febbrile. Si tratta di una coreografia intensa, pulita nelle intenzioni fin da principio, soltanto meno stretta e sicura nella seconda parte, per eccessiva dilatazione e reiterazione degli elementi posti in campo. Infine di nuovo le pietre, la cui solitudine aveva abitato lo spazio, si compongono in una geometria quasi armonica che i due corpi osservano rapiti: alla fine di tutto, quando il distacco inevitabile li ha disuniti, tornano a essere coesi. (Simone Nebbia)
Visto al Teatro Nardini – Rosignano Marittimo. Crediti: Di e con Filippo Porro e Simone Zambelli; Consulenza drammaturgia Gaia Clotilde Chernetich; Consulenza scientifica Cristina Vargas, Marina Sozzi; Suono Isacco Venturini; Disegno luci Gianni Staropoli; Scene e costumi Silvia Dezulian; Produzione AZIONI fuori POSTO; Co-produzione Armunia/Festival Inequilibrio, Balletto Civile, C&C Company
ZERO SPACCATO
Se l’anima, al momento della morte, avesse la possibilità di alzarsi sopra il corpo e guardarlo per l’ultima volta, cosa direbbe di quel pericoloso viaggio fatto insieme, chiamato vita? Il corpo, che il tempo deteriora, ne è stato come il mezzo attraverso il tempo, l’anima l’ha abitato sopportandone tutte le nefandezze, le mondanità che la propria elevazione non avrebbe contemplato. Ma ora siamo al momento dell’addio: cosa resta di questo essere diviso? Resta uno zero, Zero spaccato, il titolo di questo monologo di Leonardo Capuano. C’è un corpo disteso, in orizzontale lungo lo spazio scenico, sospeso sul letto di una camera mortuaria, con due mazzi di rose agli angoli bassi. Come esalando verso l’alto l’attore si fa anima, scava come un fossato con il letto fondale e di fronte alla platea scandisce una danza in sei passi, fino poi ad abbandonare il corpo. Ognuno dei passi di danza apre su un diverso quadro (agonia-colpa-delirio-ricordi-incontri-addio), evocando sia i momenti più esplosivi, disarticolati, della relazione tra l’anima e il corpo, sia quelli più tenui, legati alla purezza, alla bellezza; Capuano è un attore straordinario, la cui qualità vocale permette di modulare una recitazione graffiata e profonda, sia sui toni alti che su quelli bassi, interpretando questa scrittura fatta di frammenti, di strappi con la particolare maestria di chi domina la scena dal tragico al comico, senza che se ne avverta la differenza. (Simone Nebbia)
Visto alla Sala del Camino Castello Pasquini – Castiglioncello Di e con Leonardo Capuano Produzione Compagnia Orsini
TOTEMICA
Totemica, il breve pezzo che Manfredi Perego ha portato in prima nazionale, avvolge lo spazio in una atmosfera sospesa. Una danzatrice, Chiara Montalbani, compie una rotazione attorno al proprio asse, cerca una circolarità che via via si discosta dal centro, attraverso le leve degli arti che iniziano a comporre una delicata coreografia di passi e gesti ora larghi ora minuti; la musica che li suggerisce, di Paolo Codognola, è della tradizione popolare e percussiva, il cui canto ripete una melodia come un mantra. Due semicerchi di tappeto, che le luci rendono glaciali, non concludono mai la piena circolarità e tengono distanti i punti di contatto; la musica prima sospende, poi torna a crescere producendo nella danzatrice continue scosse, smottamenti animaleschi, finché una dissonanza prima la guida in un quasi smarrimento, poi sfuma ma non scompare, disturba l’armonia in cui cercare un rinnovato equilibrio. Una coreografia breve, ma la cui intensità emerge per merito della coesione tra la musica e la danza e tra queste e lo spazio, con soltanto qualche debito di prevedibilità; Manfredi Perego, che trova in Chiara Montalbani un’interprete carismatica che sa abitare sentimenti in contrasto e dialogare con lo spazio senza farsene sovrastare, riesce a evocare l’idea di una sacralità immanente ma per questo invisibile, che l’umano può appressare ma mai del tutto dominare. (Simone Nebbia)
Visto Teatro Nardini – Rosignano Marittimo. Di Manfredi Perego; Con Chiara Montalbani; Coreografia di Manfredi Perego; Scene di Manfredi Perego; Musiche originali di Paolo Codognola; Produzione MP.ideograms-TiR danza con il supporto di Centro Nazionale di produzione della Danza Scenario Pubblico, teatro Europa, Scuola danza Compagnia Era Acquario
COL TEMPO
Ha ancora senso parlare di teatro della partecipazione? Le arti sceniche che responsabilità drammaturgica possono delegare allo spettatore? Fino a qualche anno fa la questione era molto esplorata dagli artisti del contemporaneo, può capitare ancora di assistere ad opere che riflettano sul tema della partecipazione. A Inequilibrio 2022 è passato anche Col tempo, di Ambra Senatore, che con intelligenza e leggerezza cerca di far cortocircuitare proprio la disponibilità del pubblico. Il gioco dei quattro protagonisti è presto detto: danzeranno sulle musiche scelte dal pubblico prima dell’entrata in sala (con i titoli nei classici foglietti lasciati in un cesto). Da questo momento l’attenzione degli spettatori sarà localizzata tutta verso la possibilità di indovinare i titoli dei pezzi musicali, in attesa di veder danzare sulla musica prescelta. I performer lavorano su un’improvvisazione che poi si autosmaschererà, un momento centrale in questo senso è l’utilizzo di 4’33” di John Cage, da qui in poi qualcosa comincia a cambiare: uno sfasamento nel tempo, la data sui cartoncini in proscenio scatta in avanti, ma c’è anche un balzo indietro; le danzatrici e il danzatore si raggruppano sulla destra del palco, il gioco è svelato, ma i pensieri si attorcigliano tra scherzo e malinconia. Si esce leggeri e con piena ammirazione per i quattro danzatori (nelle differenze degli stili) e forse con un desiderio di approfondimento maggiore relativo ai temi finali, a quella malinconia, agli anni passati nella giovinezza e a un futuro che è un buco nero; peccato invece per una certa metateatralità forzata (i finti errori dalla regia, le interruzioni…) che ormai poco ha ancora da dire. (Andrea Pocosgnich)
Visto Teatro Nardini – Rosignano Marittimo. Uno spettacolo di e con Ambra Senatore con Matteo Ceccarelli, Claudia Catarzi, Caterina Basso, Ambra Senatore sguardo esterno Elisa Ferrari, Tommaso Monza musiche originali Jonathan Seilman disegno luci e scene Fausto Bonvini foto e grafica Daniele Fona, Andrea Macchiaproduzione CCN de Nantesco-produzione Torinodanza festival / Teatro Stabile – Teatro Nazionale (Torino), Thèatre de la Ville de Paris
PEZZO A PEZZO
Insieme ad Elena Cattaneo Carmen Giordano, con Pezzo a Pezzo, cuce un testo che vuole esplorare immaginario e tensioni tra due sorelle che si ritrovano dopo la morte della madre. Tra le due si attiva da subito uno scontro che quasi mai però riesce a convincere e ad essere suggestivo per lo spettatore: troppo disordine nella drammaturgia e soprattutto nella recitazione delle due interpreti, Silvia Bertini e Francesca Zenobi. Da questo punto di vista lo spettacolo sembra essere arrivato al debutto in un festival così importante come Inequilibrio (dopo le residenze proprio ad Armunia) senza essere pronto. Dialoghi e modalità schiettamente rappresentative, come quelle presenti nella messinscena di Giordano, imporrebbero ritmi, gestione delle emozioni e del personaggio che dovrebbero essere sempre credibili per il pubblico. Il testo, nonostante alcuni interessanti momenti poetici (i balzi indietro nel tempo in cui la sorella maggiore diventa la madre), si avvita da subito in un racconto familiare molto comune: due sorelle si ritrovano dopo anni dal funerale della madre, bisogna fare ordine nella casa da vendere, mentre tutto (parole, oggetti, spazio) sollecita i ricordi e le due giovani donne devono trovare un tempo e un modo per riavvicinarsi e riconciliarsi nonostante il passato e le recriminazioni. Nel testo si intravede un certo sguardo sulla memoria che potrebbe ricordare le pièce di Lucia Calamaro, ma ci vorrebbe rigore e tecnica recitativa per riuscire a far diventare teatro un’idea potenzialmente in grado di scavare nelle emozioni. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro Nardini – Rosignano Marittimo. Uno spettacolo di Carmen Giordano collaborazione alla drammaturgia Elena Cattaneo con Silvia Bertini, Francesca Zenobi disegno luci Alice Colla produzione MAGMA Associazione Culturale con il sostegno di Centro di Residenza della Toscana ARMUNIA – CapoTrave/Kilowatt, Teatro Cortesi di Sirolo (AN), Teatro Comunale di Montecarotto (AN)