Si può giocare a immaginare nuovi saperi e nuove epistemologie fondate da specie arboree e animali, specie reali o fictionarie. Il gioco può indurre una sensazione di sollievo epidermico, un orgasmo nella pelle che si irradia da aree intracraniche remote. Si potrebbe continuare a giocare immaginando una performance interspecie, un territorio ibrido di figure intente a studiare posture nuove, un mondo liberato dal discorso sulla fine, generata dall’ineluttabile disastro climatico, che genera più rimozione che strategie di sopravvivenza. Il corpo è affrancato da un senso di colpa che si spandeva come un’oleosa isola di calore sull’asfalto. Si può fuggire dal realismo del capitale, delle economie che i nostri ritmi e modi di vita impongono, persino dai linguaggi dell’arte e dalle sue consuetudini organizzativo\produttive: fuggire sotto l’egida di figure vegetali, animalesche e mostruose, che ci accompagnano anche nella seconda apertura stagionale a Centrale Fies dopo il primo weekend cannibale. La curatela di Barbara Boninsegna e di Filippo Andreatta (OHT) è un sapiente lavoro di maglia fra le autorialità convocate intorno a nuclei concettuali chiari, espansi in workshop partecipativi che portano il pubblico a interrogarsi attivamente su temi e linguaggi in causa. Nell’ecosistema teorico-performativo che salda ecologismo, antispecismo, decolonialismo e prospettive femministe, il weekend APAP – feminist futures prende forma intorno alla rete europea di supporto alle pratiche indirizzate al cambiamento sociale attraverso l’arte e la riflessione femminista.
Si parte dall’evidenza: non basta il nostro modo di vivere il presente, insufficiente a generare altri futuri possibili. E anche se “the artist si present” (presente al presente, presente come dono), ciò non dimeno The present is not enough. La strategia di Silvia Calderoni / Ilenia Caleo per rinegoziare significati e modalità di compresenza dei nostri corpi nel mondo passa attraverso la costruzione di un paesaggio queerizzato. La performance è un vivarium per corpi che dispiegano la propria muta animalità proprio a partire dalla relazione visiva fra osservanti e osservat*. Fede Morini si porta un piede alla bocca e comincia a succhiarsi l’alluce. I boccoli biondi da putto cinquecentesco, sotto la maliziosa luce da set pubblicitario di un riflettore in scena, evocano un immaginario sospeso fra erotismo e pornografia, grazia iconografica e consumismo. Caleo prende posto alla consolle dopo aver percorso, carponi, il perimetro di una gabbia immaginaria, inaugurando un concerto di ruggiti a metà fra il branco di tigri e i motori di una crew harleysta. Poi Tony Allotta, Silvia Calderoni, Giacomo AG, Gabriele Lepera conquistano il centro della Sala Comando, come sotto un sole artificiale si sdraiano a favore di pubblico, chi denudat* dalla cintola in giù, chi schiudendo il sesso all’osservatorio posto a semicerchio tutt’intorno.
Ciascun* cerca lo sguardo dello spettatore che così resta inchiodato ad una languida, ineludibile richiesta di relazione one-to-one: relazione che impone una reazione di apertura o rifiuto, un posizionamento. Stimolati dalla seduta a terra, che immerge lo sguardo fra i movimenti pelvici sulla scena, si reagisce alla performance soprattutto attraverso le zone erogene, chiamate a gran voce a prendere parte in questa riscrittura di geografie corporee agitate da segni difformi come setole di pelo che sgorgano improvvise da un polpaccio o fra le natiche. Questi animali in gabbia si avvicinano pericolosamente in branco, inondando lo spazio di desiderio: come convivere con loro, si chiederebbe Paul B. Preciado: “[…] il femminismo non è umanista. Il femminismo è animalista” (Manifesto Animalista). I\le performer portano in una busta della spesa i loro indumenti, indossati e riposti ripetutamente, creando la suggestione di uno spazio urbano underground, una coreografia di clochard che esercitano in pubblico i gesti più privati. Ondulati di cartone e grafiti fallici sottolineano l’atmosfera, fino all’allestimento di un cesso pubblico o di un club in cui il gruppo mima le gestualità e i riti da battuage gay degli anni ‘70 e ‘80. Il presente insufficiente genera la possibilità di un futuro in un passato sospeso fra discriminazione e fondazione di luoghi identitari.
Utopia e retrotopia si fondono dove si spaccano i corpi, nei sessi ostentati come luoghi porosi, fenditure da cui si produce il suono insieme provocatorio e dolce di una risata le cui convulsioni diventano sussulti libidinosi. La consegna del corpo come entità vibrante, luogo di un’alterità da esplorare e non da definire, queer nell’essenza, ci trasporta attraverso un continuum estetico-politico ne L’animale di Chiara Bersani, frammento del progetto multiautoriale Swans never die, sul classico La morte del cigno. Deposto su un podio ottagonale, come un fonte battesimale che rimanda al ciclo simbolico di morte e rinascita, il corpo trova nel perimetro angusto dell’altare un campo di ricerca plastico sul gesto minimo del levarsi, mentre la voce intona un vagito creaturale. L’ombra della performer, squamata di strass d’un violaceo à la Bill Viola, si estende profonda e liquida sull’ampia scena, proiettando l’immagine stravolta di un ennesima alterità che volge, con grazia ieratica, il dato iconografico in geroglifico. Come in un palinsesto di riscritture, la morte e resurrezione del cigno riceve nella lettura di Camilla Guarino e Giuseppe Comuniello una seconda drammaturgia sonora in trasparenza, un’audiodescrizione poetica offerta a chi del pubblico volesse munirsi dell’ apparecchio acustico conferito all’ingresso. Guarino e Comuniello lavorano dal 2018 alla traduzione delle performance, personali e non, per un pubblico non vedente, ipovedente, o che voglia fruire di uno strato sonoro “aumentato” (qui a Fies il loro impegno si è sdoppiato fra L’Animale e Curva Cieca di Muna Mussie).
Una direzione che ribadisce l’attenzione alla fruibilità dei formati in ottica non-abilista, ma che pure racconta dell’approccio curatelare alla programmazione dei weekend a Fies. La performance non è la capitalizzazione di un percorso produttivo, ma il capitolo di un processo aperto alle aderenze contingenti dello spazio creativo, tanto a quelle con autorialità sorelle che col pubblico. Fare parentele attraverso i workshop, o attraverso la festa come i dj set di Baba Electronica e Nico g. X Kali, non è una modalità storicamente inedita – guarda semmai proprio a quel repertorio di pratiche orizzontali nate dopo i ‘60 – ma è nuova, e certamente non comune, proprio in rapporto al nostro tempo di crisi. Così nei giorni successivi al weekend scambiamo per mail testi e pensieri con Harun Morrison, performer britannico, a partire dal suo workshop Fictions in garden, sui giardini nella narrativa. Così rileggiamo gli appunti donatici da Filippo Andreatta e Silvia Costa nella reading session su Frankestein, tappa primordiale di condivisione di materiali sul lavoro in cantiere dal classico di Mary Shelley. La prossemica lenta del dono abita nella voce distesa di Costa, che legge dalle pagine sottolineate dei libri raccolti in un percorso di ricerca spesso invisibile allo spettatore, che passa dal contesto sociale e climatico dell’Europa d’inizio XIX sec. alle riflessioni ecofemministe. Se il presente non basta, il tempo si dilata e accoglie passato e futuro del lavoro artistico, scavando mondi interstiziali di prossimità.
Andrea Zangari