Intervista a Fabrizio Saiu che a Pergine Festival 2022 presenterà il 3 luglio in prima nazionale Métron Extended, tra indagine acustica sonora e parkour. Materiali creati in Media Partnership.
Il tuo lavoro di sperimentazione artistica si concentra molto sulla ricreazione di un ambiente in cui le coordinate spaziali e acustiche acquisiscono una nuova prospettiva di indagine. Da dove sei partito, hai avuto o hai delle pratiche, delle figure di riferimento?
Io nasco come batterista e fino al 2010 ho lavorato nell’ambito dell’improvvisazione radicale, estendendo le mie collaborazioni a teatro, coreografia e musica contemporanea. Sicuramente un primo riferimento è stato Roberto Dani (prima maestro e poi performer assieme a me in alcuni progetti – come Grancona); lui è un percussionista appartenente all’area dell’improvvisazione, della musica contemporanea e ha fatto una ricerca importantissima sul corpo e sulla gestualità in rapporto allo sviluppo delle forme sonore. Grazie a lui ho rivoluzionato il modo di pensare allo strumento, soprattutto con l’introduzione di un pensiero sul gesto corporeo in funzione dell’espressività e dell’organizzazione del suono.
I primi tentativi in questa direzione sono stati delle azioni fatte in contesti urbani in disuso; Objet sans corps è un lavoro di video arte del 2011, fatto con il regista e artista siciliano Paolo Asaro, dove il suono era conseguenza di azioni reiterate e pensate sulla base della struttura dello spazio che volevo indagare da un punto di vista fisico: azioni di sfiancamento, di smontaggio, distruzione o urto con metalli, pareti, lastre, oggetti, in un gioco basato sulle reazioni corporee, un po’ come nelle durational performances. Il gesto era centrale ma non acquisiva una dimensione linguistica costituita, non era danza ma una via di mezzo tra suono e gesto per sé stesso, a-funzionale. La performance non ha una drammaturgia, è priva di narrazione e sviluppo e il linguaggio rimane una improvvisazione frenata. Sebbene il video sembri richiamare la performance art, questa non mi interessava, guardavo piuttosto a Carmelo Bene e alle sue azioni s-progettate, anche se ovviamente da lontano.
Per quanto riguarda la riflessione sullo spazio, vorrei citare un’altra performance-istallazione, realizzata per l’AsoloArtFilmFestival, Peso Posa Figura, che si svolgeva nel piazzale antistante al tempio di Canova a Possagno. Scendendo dal tempio arrivavo a legare al corpo, con delle corde lunghe anche 30 metri circa, 70 Kg di piatti da batteria, più o meno equivalenti al mio peso, fino a creare una specie di super-burattino che iniziava a muoversi lasciandosi cadere all’indietro mentre i piatti che lo trattenevano producevano un suono costante distribuendosi nello spazio in modi sempre diversi. La performance si concentrava sulla figura come corpo-protesi estesa, su una sorgente sonora spazializzata e lontana, sul peso del corpo e le sue pose. Quei piatti, che mi erano stati sponsorizzati dalla Ufip, sono poi diventati una specie di feticcio personale, prima o poi li distruggerò perché non ho più smesso di usarli [ride].
Per me è stato fondamentale capire come non formalizzare il gesto: una volta smesso di suonare sapevo solo che mi interessava lavorare in uno spazio pubblico all’aperto, pertanto ci ho impiegato degli anni per capire che forse era il parkour quella pratica che mi interessava indagare, allora ho iniziato a integrarlo all’interno del mio percorso artistico in rapporto al suono e come nuova ricerca sul gesto. L’idea era quella di riuscire a trovare una pratica che mi permettesse di muovermi recuperando la dimensione del suono ma senza estetismi.
A proposito di questi piatti, Métron Extended, che presenterai a Pergine il prossimo 3 luglio, è pensato come una performance per un atleta-musicista, 35 cimbali, voce umana e sintesi vocale. Da cosa sei partito, da un’immagine sonora, visiva, da una precisa tensione del corpo?
In Métron Extended voglio indagare i suoni diversi e costruirli all’interno di una azione gestuale in un ambiente chiuso e controllato, mantenendo come costante un passaggio dal piano percettivo – la visione o l’ascolto – al cognitivo, fino ad arrivare alla pura contemplazione. Quegli stessi piatti sono rovesciati a terra e diventano quasi delle campane, impossibili da suonare tradizionalmente, ma attraverso il corpo che ne diventa la “bacchetta”. Per me è fondamentale sfuggire al modo in cui il musicista organizza il suono, dunque il piatto diventa occasione per trovare possibilità diverse di movimento col corpo, sfruttando il suo essere basculante e utilizzando, per esempio, quelle che nel parkour sono chiamate “roll”, ovvero delle capriole fatte su un piatto mobile; questo gioco produce anche un suono.
Tutta la performance è basata sul rapporto tra corpo e piatto, si può essere accolti dai piatti, utilizzandoli come giaciglio, come testuggine, diventano un filo spinato, un campo minato – alcuni esercizi li ho rielaborati a partire dalle mie esperienze di allenamento al militare! –, perché sono posizionati molto vicini l’uno all’altro ed è difficile non suonarli. Era interessante lavorare sulla prossimità, sulla pressione del piede che lo schiaccia o del corpo che li accoglie sotto di sé e vi galleggia. In alcune azioni che eseguirò a Pergine, a partire da alcuni jump squat eseguiti sui piatti, lavorerò sulla reazione dell’ambiente al suono del piatto che si libra in levare, suonato con la sensibilità dei piedi che premono il bordo esterno per poi lasciarlo andare nel salto facendolo esplodere in una vibrazione. È molto potente perché si percepisce tutta la tensione del pubblico, quell’attesa che non ci sarebbe se tenessi semplicemente la bacchetta sul piatto. Ma la tensione è anche quella del piatto che si piega leggermente in base alla pressione esercitata così da lavorare su delle micro-variazioni sonore (due corpi che si piegano a vicenda).
Sembra quasi esserci un rapporto sinestetico tra suono e gesto, e all’interno di tale concezione, lo spettatore e le sue capacità percettive, ne sono al centro…
Gli spettatori sono sottoposti a una sorta di training al pari del performer, lavorano molto di anticipazione, quasi tra tensione e paura; una volta che “sentono” il salto e vedono cosa produce, quel gesto lo stanno già vivendo prima che accada. Questo lavoro di anticipazione assieme a quello di anamnesi, di rimozione o rifiuto del suono appena sentito, determina un’azione costante sia nel fruitore che nel performer. Va detto che tutto il pubblico sente attraverso delle cuffie, ha una percezione singolare. Da una parte è molto separata, (penso ai soggetti separati di cui scriveva Debord) in quanto “individuo dentro uno spazio chiuso”, ma al contempo lo spettatore si riconosce in una collettività simulata perché i microfoni prendono anche i suoni ambientali circostanti, permettendo a tutti di sentire il medesimo e di sentirsi, talvolta in una forma molto amplificata, esagerata e iperbolica, talaltra in una monca, muta o ovattata, in opposizione totale al movimento del performer in scena.
Il suono inoltre viene spazializzato stereofonicamente e in maniera distinta si ascolta, da un lato, una voce sintetica che simula quella umana in inglese, un algoritmo texttospeech che ho progettato personalmente, “Karen” e, dall’altra, una voce umana in italiano (di Alice Valenti), reale, che talvolta si avvicina molto a quella sintetica adottando processi di imitazione e simulazione. Ci sono dei momenti in cui entrambe si rivolgono normativamente al pubblico e al performer a cui danno indicazioni di velocità, ritmo, azione, densità e presenza/assenza di suoni. Ma danno anche il via a giochi tra loro sempre più incalzanti rendendo l’ambiente sonoro una speech music à la Robert Ashley, o ancora fanno delle speculazioni sul movimento, assumendo un tono descrittivo e pedagogico o ancora secondo un flusso di coscienza, riflettendo su quando e come accada un suono.
Il corpo durante questa sessione che definisci a metà tra il training e il concerto, sembra muoversi tra il gesto controllato finalizzato alla ripetizione – l’allenamento – e la sua dimensione simbolica, astratta, ovvero la componente artistica della dimensione concerto. Quanto deriva questa concezione dalla filosofia che sta alla base dell’Art du déplacement, o Parkour?
Tutti i movimenti che uso provengono dal parkour, io mi muovo tra i piatti come se fossero una città, un ostacolo, ed è per me l’occasione per trovare nuovi modi di abitarli, anche il pubblico deve attraversarli prima di sedersi in platea, sperimentando velocemente se pestarli, schivarli, appoggiare dolcemente i piedi…
Nell’arte du déplacement c’è un profondo rispetto del luogo, che viene ripulito concretamente in quanto spesso lo si fa in spazi degradati, ma questo luogo è anche rivitalizzato simbolicamente dalla messa in scena di una azione vitale e pulita, pure se fine a se stessa – vedi corpi che si allenano, che si misurano con le proprie abilità, che giocano e destrutturano l’ambiente. Questa pratica effettivamente esce fuori dal tracciato di una città pensata per ottiche funzionali (“l’angustia della Parigi reale, nella quale ciascun individuo vive… geograficamente un quadro il cui raggio è estremamente piccolo” […] “un triangolo di dimensioni ridotte, senza fuoriuscite, i cui tre vertici sono la Scuola di scienze politiche, il domicilio della ragazza e quello del suo professore di pianoforte”, così scriveva Guy Debord, ma c’è anche un pensiero legato al situazionismo e alla teoria della deriva, alle passeggiate surrealiste, etc.), per far vivere il mondo in un altro modo. Mi sembra che il parkour faccia propria quella Deriva di Debord inserendola in pratiche intrecciate tra loro: può andare verso l’acrobatico, in una direzione iper atletica militare, coreografica, o anche molto filosofica di cura dell’ambiente pubblico e di cura del sé. Io stando dentro al parkour, mi chiedo: che suono può produrre? Oppure: “come si muove un suono?
Redazione
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