RECENSIONI BREVI MA INTENSE. Tra le tre figlie di Re Lear, Cordelia, è quella sincera. Cordelia ama al di là del tornaconto personale. Gli occhi di Cordelia appaiono meno riverenti di altri, ma sono giusti. Cordelia dice la verità, sempre.
Scorrete fino alla fine per trovare tutte le opere recensite finora.
Qui gli altri numeri mensili di Cordelia
RACCONTO PERSONALE #NAPOLI
Per arrivare al Parco Corto Maltese si lambiscono le strade su cui svettano le ormai fin troppo conosciute Vele di Scampia. Lasciata la macchina in un piccolo parcheggio si schiude una dimensione di alberi e aiuole curate ognuna dagli abitanti di ciascun palazzo del comprensorio che lo circonda. Una comunità iridescente, la cui dinamica è scandita da un’ordinarietà della vita di quartiere non prona, lo abita e accoglie il racconto di un viaggio su un prato all’ombra delle fronde e all’interno del Festival Mediterraneo Antirazzista. In un pomeriggio di prima estate, mentre il carretto delle bibite si avvicina per servire caffè agli astanti, qualcuno gioca a pallone o magari un gruppo di bambine si avvicendano alle altalene chiamando la zia a gran voce, Mamadou Diakitè o semplicemente Mamadou, in piedi davanti a uno sgabello su cui non avrà mai bisogno di sedersi, ripercorre per tappe la strada che lo ha portato dalla Costa d’Avorio all’imbarco per l’Italia. Contrappuntato dalla fissazione di momenti specifici con poche figure a fare da raccordo come leitmotiv narrativi, il racconto scritto in collaborazione con Stefania Marrone (Teatro Bottega degli Apocrifi) restituisce con equilibrio e semplicità la realtà delle difficoltà di un attraversamento e delle sue regole imposte, seppur non scritte, senza il bisogno di frizionare su alcuna forma di pietismo e retorica, lasciando, col beneficio di momenti di tenerezza e ironia, la vividezza della scelta di “inseguire un sogno”. (Marianna Masselli)
Visto a Parco Corto Maltese con Mamadou Diakitè in collaborazione con Stefania Marrone
DEATH AND BIRTH IN MY LIFE #MILANO
Il progetto dell’artista svizzero Mats Staub Death and Birth in My Life, presentato nel corso di due settimane a Zona K, pone gli interrogativi universali che hanno da sempre scandito la storia dell’umanità per custodirne le risposte all’interno di un’atmosfera accogliente, frammentata in quattro postazioni e velata da una calda penombra che vuole restituire al pubblico un senso intimo e privato. Morte e nascita come condizioni sine qua non di ogni esistenza, sono così calate all’interno delle dimensioni personali di cinque coppie di diversa provenienza geografica, di persone che non si sono viste mai, conosciute mai, chiamate ora a condividere il dolore della perdita, il coraggio del riscatto. La resilienza. Prodotto da ZONA K in collaborazione con Mittelfest2022, la versione italiana è il frutto di un lavoro di sperimentazione condotto a Milano e in Lombardia in un dialogo con il Friuli: Staub parte dalle premesse di una ricerca artistica che porta avanti da anni, ponendosi in ascolto delle storie altrui, selezionandole e creando una tessitura narrativa che diventa dialogo intimamente collettivo, un cum patior che riabita le ferite passate nel tentativo di risanarle attraverso il racconto, in quanto medium di un sentire profondamente umano. Nelle installazioni video composte da schermi adiacenti, posizionate agli angoli della sala, prendono corpo persone, che sono uomini e donne di diverse età, e storie, che sono testimonianze di una vita che nonostante tutto continua imperterrita a fluire. E di una morte che fa inevitabilmente parte di una nuova e sempre possibile rinascita. (Andrea Gardenghi)
Visto a Zona K, Crediti: Idea, concept, regia Mats Staub
LA TOTÓ DEGLI ALBERI – LA VERA STORIA DEL BARONE RAMPICANTE #CORATO
Un piccolo teatro elisabettiano, per entrare nel quale agli adulti occorre abbassare la testa e piegarsi sulle ginocchia. Bruno Soriato, scenografo e regista di Kuziba Teatro lo ha iniziato a costruire a febbraio, un pezzo alla volta. Nel chiostro del Comune di Corato (nell’ambito di Città Bambina per Aspettando il tempo dei Piccoli) questo microcosmo, che pare fluttuare in un tempo sospeso, accoglie un adattamento de Il barone rampante di Italo Calvino. Il protagonista non è Cosimo Piovasco di Rondò, bensì Totò, figlio cresciuto in una compagnia che lavora alla messinscena del testo, composta dalla rigidissima madre, dallo zio, dal padre, dal fratello antagonista e compagno e dalla sorella cerca-lumache. Come nel romanzo, è per colpa di un litigio proprio su un piatto di lumache che il ragazzo deciderà di arrampicarsi e vivere da un’altezza ostinata che gli permetterà di conoscere Viola e di osservare il mondo da una prospettiva privilegiata ed espunta. Nel concreto, gli alberi su cui il protagonista si arrampica, ciondola, gioca, dorme, parla, mangia sono in realtà le strutture più o meno portanti di questo teatrino, dai palchetti ai pilastrini, sino alle assi della piccola americana che sormonta il fondo e la sua profondità prospettica. Una cifra precisa e ben centrata nella costruzione visiva dell’atmosfera e un gruppo di interpreti che beneficiano di una capacità di attraversamento, che pur abbisognando di un’ulteriore crescita di coscienza dello spazio, non manca di restituire quadri efficaci come quello onirico del funerale. (Marianna Masselli)
Visto nel Chiostro del Comune di Corato. Crediti di Bruno Soriato con Livio Berardi, Massimiliano Di Corato, Adriana Gallo, Bruno Ricchiuti, Rossella Tamborra
FAME O DELL’AVERE I CRAMPI ALL’ANIMA #MILANO
Fame come sensazione viscerale avvertita in mancanza di cibo, come vuoto, come morsa feroce allo stomaco. Fame come condizione di desiderio inappagato, quello che alimenta lo sforzo creativo, che è motore di un fare arte e teatro. Alice Redini costruisce un intero spettacolo con uno spirito squisitamente dissacratorio. Pochi elementi scenici servono a questo gioco: un leggio con qualche foglio e un pannello-porta per un’immaginaria soffitta, arricchiti da una gestualità che finisce per espandersi e dilagare anche nelle prime file del pubblico, richiamandone un coinvolgimento partecipato e attivo. A partire dal romanzo della letteratura nordica Fame di Knut Hamsun, Redini sovrappone al protagonista scrittore sé stessa, poiché entrambi condividono il “privilegio della precarità” in cui (soprav)vive da sempre l’artista. Lui, disperatamente intorpidito dall’indigente ricerca del suo genio letterario latente, viene raccontato attraverso le parole di lei che ne mette in scena le contraddizioni derisorie, i tentativi di mantenimento spiccioli e le insofferenze in una società indifferente. La fame patita nella povertà, fisiologica, si struttura così su quella metaforica, che si trasforma in ossessiva analisi introspettiva, tensione nei confronti di ciò che all’essere umano costantemente manca. Connotata da un sarcasmo vivace, la messa in scena si costruisce live, perché in fondo, ci conferma lei, facciamo tutti parte della stessa farsa. Un motivo, questo, per decostruire sé stessa e lo spettacolo di cui è protagonista come riflesso del saziarsi, per poi tornare ad avere nuovamente i crampi prepotenti della fame. (Andrea Gardenghi)
Visto alla sala Bausch del Teatro Elfo Puccini. Crediti: di e con Alice Redini, collaborazione alla drammaturgia Matteo Luoni, una produzione Alice Redini & BUSTER, foto di Laila Pozzo
OLTRE IL MURO – WHAT’S THE PARADISE #NAPOLI
La vedremo avanzare dal fondo, fra l’erba e la terra che pare sormontare e circondare lo spazio interno del TAN (Teatro Area Nord) di Napoli, a Piscinola, nel tono cianotico, sulfureo diremmo, tipico della prima sera, del calar della luce. Suggestione duncuniana quasi, i tratti armonici del viso incorniciati dal crine castano scuro in una coda bassa, una veste bianca e morbida, la figura di Sara Lupoli, scenderà da una scaletta di legno per guadagnare lo spazio concavo che precede una porta, destinata a diventare una barriera, a scoprirsi poi una feritoia, come uno spazio liminale tra il dentro, il fuori e i vari piani nel concetto di performance e rappresentazione. Inserita all’interno di MAGGIO DEI MONUMENTI – MURARIA 2022, iniziativa promossa dal Comune di Napoli che ha abitato gli spazi cittadini in vari modi, la coreografia (e la regia) di Antonello Tudisco lasciano l’anatomia interagire con le proiezioni (palesemente riconoscibili tra le altre quelle di frame da La ricotta di Pasolini), così come con il cemento dei muri appunto, lo spazio vuoto, la superficie terminale e la linea frontale di osservazione. Il movimento, fra cali e crescendo, si versifica nella breve durata tra la stasi e una maggior energia convulsiva, preferendo la verticalità che sottolinea o converte le immagini e con esse la matrice dell’immagine complessiva su un piano semantico la cui interpretazione, sufficientemente aperta alla sensibilità e ai riferimenti di ciascuno sguardo, si avvera tra il fumo e la nettezza della visione. (Marianna Masselli)
Visto a Teatro Area Nord. Crediti regia e coreografia Antonello Tudisco performer e collaborazione artistica Sara Lupoli video e luci Antonello Tudiscofotografie Sabrina Cirillo
produzione Interno 5
SPECIALE: INTEATRO FESTIVAL 2022 #POLVERIGI
THE END
The end, della compagnia franco-inglese Bert and Nasi e presentato in prima mondiale a Inteatro Festival, è uno spettacolo lieve, nonostante la volontà di fare “un resoconto sulla crisi climatica in corso”. Lieve come l’approccio ludico che hanno i due danzatori nella parte iniziale, quasi fosse una sorta di preludio in forma coreografica della seconda, più incentrata su un piano comunicativo che si affida alla parola ma che sembra, di fatto, tessere simili tracce narrative. I loro sono corpi che entrano ed escono di scena, che camminano quasi senza apparente scopo, provano a saltare ogni volta di più, giocando a colpire con la testa la mano dell’altro che si sposta costringendoli a cambiare strategia e registro, camminano e corrono abbracciati, i corpi sbilenchi eppure uniti, il palco tagliato in diagonali o ancora in falcate che ne segnano il perimetro, ancora e ancora. E se questo non fosse che il segno coreografico di una possibile storiografia futura, di loro come compagnia che provano uno spettacolo, che ha successo, che poi li vede lontani, che poi li vede vivere vite di matrimoni, figli, divorzi, nuove sfide, morti, salvataggi, raccontate al passato ma riferite a un domani, mentre loro continuano ad andare avanti, a ripercorrere quel passo, forse il primo, the beginning? Taglio forse troppo lieve, ma intimistico: questa coreografia diretta da Laura Dannequin è più una delicata prova poetica da affinare ancora, che si riversa nell’immagine di loro due accompagnati da una terza figura, un bambino che dalla sala compie serie quegli stessi passi. (Viviana Raciti)
Interpreti: Bertrand Lesca e Nasi Voutsas, regia di Laura Dannequin, video Guillaume Cailleau, responsabile tecnico Enrico Aurigemma, produzione Bert & Nasi Ltd, distribuzione Le Bureau des Paroles, foto Giulia Di Vitantonio
LET MY BODY BE!
Let my body be! Sprone a rendere presente i nostri corpi di persone, rimettendo al centro una pratica di consapevolezza del nostro essere in un luogo con un determinato corpo, capaci o meno di compiere azioni, se aderire o meno e come. Salvo Lombardo crea un dispositivo all’interno del quale rimane presente come voce guida, lasciando l’azione agli spettatori nello spazio ricavato all’interno del parco di Villa Nappi a Polverigi. Indossate tutti delle cuffie da silent disco siamo invitati a rispondere a stimolazioni corporee-mnemoniche secondo le indicazioni registrate (con in più una traccia sonora che rimane udibile da tutti), indagando così le qualità di un gesto, il nostro ricordo percettivo, o la sperimentazione di qualcosa di nuovo. Camminiamo in questo spazio circolare, timidamente ci osserviamo alzare un braccio, protenderci in uno spazio di azione che rimane fino quasi alla fine individuale, intimo, privato. Spalle ricurve, occhi concentrati, volto aperto, rilassato, teso, nascosti tra cespugli, dietro alberi, oppure decisi al centro dell’azione, accogliendo che la luce dei proiettori bagni la nostra pelle. L’indagine effimera si rivela nell’osservazione dell’altro, che in questa occasione rimane abbastanza intimidito, soprattutto quando, nella fase finale, poco accetta di lasciarsi andare a una dimensione più propriamente liberatoria, danzando senza il vincolo della guida. L’invito a chiamare qualcun altro funziona poco; forse, per ritrovare quella dimensione comunitaria ideale, in grado di sorreggere un’azione corale e condivisa, serve ancora del tempo. (Viviana Raciti)
Ideazione e cura Salvo Lombardo, ottimizzazione sonora Fabrizio Alviti, produzione chiasma, coproduzione Attraversamenti Multipli, con il sostegno di Mic – Ministero della Cultura. Foto Giulia di Vitantonio
SPECIALE: CAMPANIA TEATRO FESTIVAL 22 #NAPOLI
di Valentina V. Mancini
AMLETO PRINCIPE DI AIROLA
Il Campania Teatro Festival è partito, il 10 giugno, ospitando il progetto sostenuto da CCO- Crisi Come Opportunità per i minori reclusi nell’Istituto Penitenziario di Airola, a Benevento. I sette ragazzi hanno per compagne d’arte le studentesse dell’I.I.S A.M De’ Liguori di Sant’Agata de’ Goti. Non c’è molto da dire sullo spettacolo, se non il piacere sincero di aver visto i ragazzi divertiti e sereni grazie al sostegno preziosissimo degli educatori. Educatori, quando ci sono, che ormai sono l’unico scarno aiuto che le istituzioni pubbliche hanno per sostenere i giovani. Vorrei solo spendere due righe per un paio di obiezioni. Quanto sarebbe importante vedere recitare questi ragazzi in italiano, padroni e consapevoli della lingua, sicuri di poter parlare correttamente davanti a chiunque, e di certo non per rifiuto del luogo da cui vengono (quello, anzi, oltre all’affetto sarà motivo di orgoglio) ma per non essere più guardati da un folto gruppo di adulti privilegiati che si rivolgono a loro con superbo paternalismo e con bonaria approvazione. Perché conoscere bene la loro lingua gli permetterà di comprendere anche il loro dialetto (esattamente come gli educatori e gli intellettuali che seguono questi progetti). Impareranno in questo modo a scegliere sempre. Per curiosità, ho cercato quanti sono gli Istituti Penitenziari Minorili in tutto il paese: quasi uno a regione, tranne per la Campania (ne ha tre), la Puglia (sono due) e la Sicilia (sono tre). Non sarebbe meglio che lo Stato sostenesse con efficacia le scuole del Sud? Non sarebbe meglio che il teatro lo facessero a scuola? Non sarebbe il caso di sostenere le famiglie in difficoltà? Non sarebbe meglio evitare che questi ragazzi vengano rinchiusi?
Visto a Capodimonte – Praterie del Gigante; Crediti: Un progetto di CCO – Crisi Come Opportunità; Testo tratto da Amleto di Poggioreale di Maurizio Braucci; Lo spettacolo è il risultato del Laboratorio di Teatro Permanente nell’IPM di Airola
LONG PLAY, CAIRO
Prima che inizi, va detto che lo spettacolo era concepito per un flusso unico di tre ore, che un’organizzazione (quella del Festival, quella del Museo Madre) più attenta al prodotto artistico avrebbe potuto gestire con maggiore sensibilità e intelligenza invece di sezionarlo in tre momenti «che tanto si ripetono in loop», come dicono all’ingresso. Nel cortile del Museo Madre, abbracciato dalle ignare abitazioni di Via Donnaregina e dalle vetrate dell’abside dell’omonima chiesa, la luce cala dolcissima su sei corpi di fratelli e sorelle. Sono come fluidi non newtoniani che reagiscono alle mutevoli sollecitazioni dei bassi che vibrano dalle casse dietro cui il coreografo Alexandre Roccoli osserva emozionato. Sei identità ben distinte, sei modi ben delineati di riempire lo spazio, sei differenti curve sensibili. Qualcuno ha la curva tra collo e testa, altri nelle braccia, qualcuno nella schiena; qualcuno prorompe più di altri, ma la eco di un corpo riverbera nei compagni e l’armonia è nella relazione. Da una bocca all’altra scorrono sorrisi e soffi, in uno scambio affettuoso di energie. L’enorme vibrante massa, viva di autonomie che scelgono la coesione, pulsa e scivola, poi si comprime e poi si dilata, ruota e si rilassa sul pavimento. Il ritmo corale dei respiri regola quello di chi osserva, e l’odore salmastro delle gocce di sudore che colano da nasi e schiene riempie l’aria. Loro si uniscono e scorrono senza la fatica dell’attrito, emergendo e sparendo, sorretti e accompagnati e abbracciati e accarezzati. Si lasciano, si esprimono soli, esplodono nella corsa, si cercano ancora, si respirano.
Visto a Museo Madre; Crediti: Art Direction/Original Score Alexandre Roccoli, Adam Shaalan
TRILOGIA DELLE MACCHINE
È sempre molto interessante delineare una geografia storica dei pensieri e degli interessi in un contesto urbano. Vedere cosa spetta a chi, in quali spazi, in che misura, con che grado di coerenza. Le vie gentrificate dei Quartieri Spagnoli sono l’ecosistema della sperimentazione, l’area paradossalmente protetta dell’alternativa, il campo di confronto delle file di artiste e artisti (soprattutto di Napoli) che sfaldano il pensiero dominante (ma che, per necessità – comprensibile, sia chiaro – non disdegnano le dinamiche politicamente distanti del Festival) e impongono la critica. Nella Trilogia delle Macchine, Giuseppe Stellato fa dell’essere umano un’appendice della tecnologia che sfrutta e corrobora le nostre contraddizioni. L’uomo serve alle cose per perpetrare la realtà, per riempire il quotidiano di sostanza. Ma l’uomo non è succube, bensì collabora. Una lavatrice non potrà mai lavare via il sangue dalla maglia di un ragazzino. Un distributore automatico può sputare via gli orrori della fuga per fame. Un bancomat non può far altro che archiviare ogni nostro movimento e desiderio. Poi, nella realtà, succede qualcosa. Sul piccolo schermo dell’ATM appaiono le registrazioni di bombardamenti americani, in bianco e nero. Voci eccitate coprono le urla, i corpi cadono con estrema facilità. Questi dovevano essere gli ultimi trenta minuti di spettacolo, gli ultimi trenta minuti opzionali; chi era stanco, poteva andare via. Proprio quando era più necessario stare. Sono rimasta sola in sala finché non mi è stato chiesto di uscire.
Visto a Sala Assoli; Crediti: Ideazione e Regia Giusepper Stellato; Collaborazione alla drammaturgia Linda Dalisi (per Mind the gap), Collaboratore e Performer Domenico Riso; Musica e Sound design Franco Visioli
RUBEDO
La mia generazione (tra i venticinque e i trent’anni) ha un estremo bisogno di parlare di sé, perché per il sé effettivamente c’è poco spazio. Quello che non siamo ancora riusciti a fare, ma forse è normale, è stato trovare una lingua e un’immagine che fosse solo nostra. E questo trascende la personalissima convinzione che non ci sarà più tempo per i grandi e per i capolavori. Il fatto è che questi grandi ci sono stati, e non possono fare altro che parlare ancora per noi. La grandezza di Annibale Ruccello, la cui poesia drammatica deve avere in parte influito su questo lavoro, è stato nel fare della sua carne la carne di tutti. Sia nell’ambiente queer che in quello cis. L’unico vero discrimine nella comprensione di Ruccello è nelle distinzioni di classe. Detto questo, non ho nessuna sorpresa nel vedere sul palco un intenso e dolcissimo Giuseppe Affinito assumere le sembianze e gli umori di Jennifer, con quella capacità così umana da essere straziante di parlare a nome di tutti. Di parlare della solitudine, delle speranze che non si lasciano sciupare dalle delusioni, della ricerca affamata di sé, della voglia di potersi raccontare con onestà, del coraggio di scegliere di amare sempre. L’orientamento sessuale, se è un valore specifico personale del personaggio, per lo spettatore non è altro che un’altra sfumatura per leggere le proprie emozioni con una complessità che forse non era ancora in grado di cogliere. E chi non volteggerebbe tra lustrini e coriandoli luminosi, tra pizzi e specchi, bauli e memorie, cantando e piangendo e ridendo, liber*?
Visto a Capodimonte – Prateria del Gigante; Crediti: Scritto, diretto e interpretato da Giuseppe Affinito; Aiuto regia Domenico Ingenito; Suono e fonica Teresa DI Monaco; Allestimento e luci Enrico De Capoa, Simone Picardi; Costumi Dario Biancullo; Assistente scene e costumi Clara Varriale; Produzione Casa del Contemporaneo
STUPIDA SHOW (CAPITOLO1 CATTIVI PENSIERI)
Cortile del Palazzo Reale di Napoli. Il pubblico è quello frivolo e disinteressato borghese (alto borghese), il vero interlocutore in vacanza del Campania Teatro Festival. «Ho buttato giù subito questa battuta per vedere chi andava via. Se è troppo, andate a vedere Gigi D’Alessio», e via uno scroscio di applausi goderecci. Beatrice Schiros aveva appena fatto una battuta, credo, sui “bambini mongoloidi”. E poi, così di getto, un’altra sulla secchezza delle pareti vaginali nel periodo della menopausa, un’altra sull’aspetto truculento di un’altra vagina a seguito di un parto, un’altra sulle belle youtubers col culo di fuori, un’altra sulle femministe nazi, un’altra sulle madri “rompicoglioni”, un’altra sull’impossibilità degli uomini di avere un rapporto sessuale decente (con tanto di mano che batte rapida sul microfono per rendere l’idea), e tante altre, insomma, sullo stesso tono greve di quello che ormai si definisce politicamente scorretto ma che è solo noiosa e becera banalità. Gabriele Di Luca impacchetta una perfetta serata ridanciana per gente annoiata, che ride sguaiata se una donna ha la bocca molto sporca, che ha voglia di sollazzarsi con qualche prurito, ma a cui si rifila, giusto per bilanciare, la manfrina su questo brutto mondo che ci ha resi tanto brutti e cattivi.
Visto a Capodimonte – Cortile della Reggia; Crediti: Drammaturgia Gabriele Di Luca; Con Beatrice Schiros; Regia Gabriele Di Luca, Massimiliano Setti; Uno spettacolo di Carrozzeria Orfeo
SPECIALE: ATTRAVERSAMENTI MULTIPLI 22 #ROMA
IL MONDO ALTROVE: UNA STORIA NOTTURNA
Cosa sta accadendo? Chi appare di fronte a noi? Un essere umano, con una maschera: al Parco di Tor Fiscale, di fronte all’acquedotto, un piccolo mistero performativo si avvicina al pubblico. Siamo sistemati su un dislivello, una leggera salita trascina il nostro sguardo verso un cerchio di luce: lì è diretto questo danzatore proveniente da un mondo altro, ma non rimarrà al centro, cercherà una mobilità completa sfidando orizzontalità e profondità. Prima, mentre il crepuscolo si affretta a imbrunire la vista, la maschera senza parole raccoglie piccoli oggetti, sembrano pietre, in realtà sono di legno, poligoni che, una volta sistemati uno sull’altro, si ergono in un piccolo totem. Nicola Galli ha lavorato in site specific con questa opera nata per quattro performer e uno spazio scenico al chiuso. Qui è da solo, ma non viene meno la volontà di incarnare l’epifania, è questa la sensazione di spaesamento che si ha di fronte a una perfomance che potremmo ricondurre alla danza solo per la presenza della musica (evocativa prima ma con un senso di pericolo ed enfasi poi) e l’assenza delle parole; ma, come la maschera e il costume, l’ascendenza dei gesti va ricercata nelle pratiche dell’estremo oriente, nei ricordi di stampo balinesi, con l’obiettivo però (Galli lo spiega in questa ricca intervista rilasciata alla Redazione del blog del festival) di riposizionare i segni di quelle culture e dei loro immaginari in altri luoghi per creare, appunto, nuovi orizzonti e non una mera imitazione.(Andrea Pocosgnich)
Visto al Parco di Tor Fiscale produzione: TIR Danza, stereopsis co-produzione: MARCHE TEATRO / Inteatro Festival, Oriente Occidente coreografia, danza e costumi: Nicola Galli
IF YOU WERE A MAN
Un amalgama di corpi si snoda verso il centro di Garage Zero, uno dei luoghi del festival urbano Attraversamenti Multipli. Luci al neon e buio, gradazioni di blu e viola sfumano sugli abiti e sui volti del quartetto di danzatori dell’ensemble Spellbound diretto da Mauro Astolfi. If you were a man è uno studio, dalla durata di circa una ventina di minuti, ipnotico per vibrazione, contorsione e compromissione: ciascuna figura non esiste senza che l’altra la complementi nell’accostamento di gambe, braccia, schiena, testa, mani, le une estensione delle altre. L’ascolto agisce come collante, crea istanti di vuoto riempiti e trasformati in discese e salite, spostamenti, salti, curve e equilibri. Anche i volti degli interpreti partecipano a questa fusione. Negli occhi del pubblico, si fissa gradualmente l’immagine di un corpo unico, in loop, modificabile in alcuni istanti da variabili effimere agite con precisione quasi marziale. I gesti, immediati e transitori, sono onomatopeici diremmo, grazie al particolare tessuto dei costumi che produce un sottofondo di fruscii strascicati sovrapposti a un movimento musicale indefinito, nel quale si alternano voci umane impartire ordini e lontani aerei, il cui rombo crea una costante scansione del tempo. «Per poter accogliere un’informazione preziosa sugli altri» è la finalità indicata nelle note, che si raggiunge tramite sintonie o contrasti determinati e anticipati da un esercizio di ascolto imperituro, rigenerato continuamente senza avere fine. (Lucia Medri)
Visto a Garage Zero Crediti: Coreografia Mauro Astolfi, Interpreti Lorenzo Capozzi, Mario Laterza, Mateo Mirdita, Alessandro Piergentili, Costumi Anna Coluccia, Musiche AAVV; Una produzione Spellbound, Foto di Carolina Farina
SENZ_LESS
Senz_Less nasce dalla piazza, il Largo Spartaco del Quadraro, quartiere casa del festival Attraversamenti Multipli. Marco Di Nardo, Carlos Aller e Diego De La Rosa provano sul cemento, lo spazio scenico site specific delimitato dalle sedie della platea, mentre intorno si anima una calda serata di metà giugno. Bambini scalmanati giocano a pallone, corrono sul monopattino, si riempiono i tavoli della birreria, iniziano i brindisi; chi mangia, chi aspetta, chi si guarda intorno… Frantics Dance Co. si costituisce nel 2013 a Berlino come gruppo multiculturale: “Frantics” deriva dalla parola spagnola “Frenesí” traducibile “violenta esaltazione di un sentimento o passione”, come indicato nelle note. Di lì a poco, con Senz_Less secondo e ultimo spettacolo della giornata, il trio inizierà a costruire la propria storia da raccontare a quel pubblico e non ad altri, pensata per quella specifica relazione e tempo. La scrittura coreografica, ci dice il programma, è influenzata dal b-boying, danza contemporanea, acrobatica, hip hop sperimentale, arti marziali e Gaga, c’è molta teatralità e circo, c’è la propensione umile ma sapiente di sentire la platea, sedurla anche, e di ammaliare i bambini seduti a terra, attentissimi. Il discorso scenico è affidato alle atmosfere musicali che organicamente plasmano i movimenti con sinuosità o cesure, ralenti e accelerazioni. Il loro, è un gesto scritto e anche improvvisato, colorato e sagace che dice di «ballare senza interrogarsi per vivere il momento presente». (Lucia Medri)
Visto a Largo Spartaco. Coreografia Frantics Dance Company, Performers Marco Di Nardo, Carlos Aller, Diego De La Rosa, col sostegno dell’ Istituto Cervantes di Berlino e dell’Ambasciata tedesca, Foto di Carolina Farina
SLEAPING BEAUTY – OUTDOOR
C’è una generazione nuova, viva, che preme e mette in relazione con la creazione artistica anche le questioni legate all’orientamento di genere; nella danza, e nei linguaggi legati all’utilizzo del corpo in scena, tutto questo è evidente e il corpo proprio nella sua esposizione diventa il simbolo di un campo di battaglia sempre più al centro del dibattito. Il primo atto performativo di Attraversamenti 2022 è la versione Outdoor di Sleeping Beauty: 20 minuti di danza, ironia e intelligenza sull’asfalto di Largo Spartaco. Il gruppo si chiama Cornelia, viene da Napoli ed è guidato da Nyko Piscopo, sul web sono molto riconoscibili perché hanno come logo il disegno di un’anziana signora con gli occhiali da sole, la signora, Cornelia, nonostante il nome ricercato, altolocato, se ne frega delle convenzioni. E questa è l’idea anche di Sleeping Beauty, non farsi umiliare dalle regole imposte dall’alto: la Bella addormentata, in questa coreografia ripensata per Attraversamenti (anche grazie a un periodo di residenza messo a disposizione dal festival), non è presente come personaggio vero e proprio, perché a doversi svegliare sono tutti e quattro i danzatori (e una danzatrice). Calzoncini cortissimi in tinta con magliettine, scarpe da tennis e colori primari accesi: fuori campo, proprio come una strega cattiva, una voce integerrima, senza anima e automatica che dirige, impone e tutto vorrebbe normare; fino alla piccola rivoluzione finale, quando le convinzioni e la durezza delle regole classicheggianti lasciano il posto alla libertà dei corpi. (Andrea Pocosgnich)
Visto a Largo Spartaco. Crediti: Coreografia / Nyko Piscopo
Danzatori / Eleonora Greco, Nicolas Grimaldi Capitello, Leopoldo Guadagno, Francesco Russo, Roberta Zavino Costumi / Sonia Di Sarno Produzione / Cornelia. Foto C. Farina
LA FINE DEL MONDO #MILANO
Cosa succede quando sono due sorelle e due fratelli a confrontarsi con un tempo che annuncia la propria ineluttabile scadenza? In alto, a lato della scena, un timer comincia a scandire i propri rintocchi in un conto alla rovescia. Irreversibile, perché dopo è la fine del mondo. Il luogo dell’attesa è una nave sulla laguna veneziana, attraversata dalle complesse tragedie famigliari: Dora e Atena, attrice ed ecologista, sono genuina leggerezza e tetro pessimismo. Si incontrano soltanto nel violento scontro di ideali e di prospettive future, esasperando un rapporto che riesce a colmarsi soltanto nella solitudine di una condizione infelice. Luca e Diego giungono invece al loro punto di rottura. Trasbordano dal palco nei tentativi di confronto, per acquisire la consapevolezza di una fraterna incomunicabilità. Luca troppo focalizzato sul proprio lavoro di teatrante, Diego confinato in uno spazio che alimenta la sua malattia, grida la propria condizione di dolore, che si disperde come l’acqua di un acquario, il suo. Ad accompagnare con sguardo meticoloso il testo di Fabrizio Sinisi, compiuto più nell’approfondimento psicologico della coppia di sorelle che dei fratelli, è la regia di Claudio Autelli che ripropone anche nella scenografia uno slittamento dei livelli di narrazione: al primo piano del dramma personale fa da sfondo quello di un’intera umanità, con proiezioni video delle catastrofi ambientali già in atto. Tragedia personale e collettiva si intrecciano, si soffocano nella nevrosi dei rapporti umani, lì dove assistiamo ad una diversa e più intima fine del mondo. (Andrea Gardenghi)
Visto al Teatro Franco Parenti, Milano. Crediti: di Fabrizio Sinisi, regia e spazio Claudio Autelli, con Alice Spisa, Umberto Terruso, Anahì Traversi e Angelo Tronca, disegno luci Giuliano Almerighi, suono e musiche Gianluca Agostini, video Chiara Caliò, costumi Diana Ferri.
CONNESSIONI SCENA NATURA PADERNO (BO)
Immersività è una parola inflazionata, ma il suo duplice campo semantico illumina un’idiosincrasia storicamente nodale: c’è l’immersione nella natura e c’è l’immersività nei nuovi formati digitali dell’intrattenimento e delle arti. L’allusione è all’integralità di un’esperienza che implica la totale adesione del soggetto al paesaggio contestuale. Immergersi è dunque un gesto che implica il superamento di una diffidenza, il consegnarsi ad una dimensione altra proprio perché avulsa da una data quotidianità. Come ci si immerga nella natura, attraverso quali modalità artistiche, organizzative, produttive: questo il quesito che Michele Pascarella e Emanuele Regi (dottorando in Arti visive, performative e mediali presso Unibo) hanno posto ad una piccola, eterogenea comunità di artist*, accademic* e presenze del campo teatrale, convenuta a Fienile Fluò (BO) per Connessioni Scena Natura, nell’ambito del Festival che Crexida/Fienile Fluò dedica al tema. I due curatori hanno mediato una modalità di confronto distesa, anche letteralmente su variopinti teli da pic-nic, basata sulla condivisione breve e colloquiale (10’ a intervento) dei frutti del proprio percorso. Si passeggia e ci si ascolta all’ombra delle querce intorno al casolare, fra gli orti, i filari che guardano i calanchi dischiusi a ventaglio come un teatro naturale. Per nessuno, però, natura è solo amena cornice. Senza mai ricorrere a scontate formule da green washing, natura è il luogo sostanziale del lavoro, della ricerca, della relazione, tensione di fondo per un ecosistema delle arti realmente, profondamente sostenibile. (Andrea Zangari)
Convegno Itinerante tra i Colli Bolognesi – Incontro nazionale di scambio di pratiche e saperi sui molti rapporti tra arti e natura – Visto a Fienile Fluò, a cura di Michele Pascarella, Emanuele Regi – direzione artistica Angelica Zanardi – direzione organizzativa Monica Morleo
ELENA #MILANO
Gli invisibili sussurri senza corpo, flebilmente pronuniciati al microfono, sono preludio della messa in scena della décadence di una condizione esistenziale. Elisabetta Pozzi è Elena, personaggio femminile della tradizione omerica, motivo d’amore ma anche di guerra; avanza sommessamente nel buio del palco per poi essere illuminata dal calore di una luce endemica che taglia un’aria densa, intrisa dagli spettri di ciò che era, di ciò che ha vissuto. Elena si muove così tra cinque sgabelli vuoti, tra la luce e l’ombra, tra il fumo di una sigaretta consumata e il whisky di un bicchiere traboccante, rendendo corpo e voce, segnati dall’infausto scorrere del tempo, gli unici strumenti scenici di un racconto connotato dall’amarezza delle vane disillusioni del passato e dalla lucida consapevolezza del presente. Il testo di Ghiannis Ritsos, tradotto da Nicola Crocetti, mantiene il proprio spessore drammaturgico con la maturità artistica ed espressiva di Pozzi, ne diviene ritratto sterile e malinconico, per cui il monologo si contrae chiudendosi in un soliloquio lacerante, abitato dalle ombre di una donna anziana che ora è scherno per le ancelle. La musica di Daniele D’Angelo, nella volontà di accompagnare la solitudine delle parole della donna, talvolta sovrasta e ne prevarica l’interpretazione, facendo sfumare quell’attrattiva degradante del motivo performante. Sfuma anche la speranza nell’impietoso ritratto, il senso stesso di una vita tanto gloriosa quanto effimera nella sua vacua materialità. «Eppure chissà – ci dice Elena – là dove qualcuno resiste senza speranza, è forse là che inizia la storia umana, come la chiamiamo, e la bellezza dell’uomo». (Andrea Gardenghi)
Visto al Teatro Carcano, Milano. Crediti: di Ghiannis Ritsos, traduzione Nicola Crocetti, con Elisabetta Pozzi, musiche Daniele D’Angelo eseguite dal vivo, regia Andrea Chiodi, produzione Centro Teatrale Bresciano
SPECIALE: Salviamo i talenti – 13° ed. premio Attilio Corsini #ROMA
DISPERATO ERETICO SHOW
«L’uomo, nel suo stato di natura, è uno stronzo egoista». La rabbia di Ludovico, attore-rider o rider-attore è totale, viscerale, incancrenita dalle pedalate in tangenziale, dalla cattiveria del pizzaiolo che ti fa consegnare in ritardo, e il cliente poi non ti lascia la mancia. È abbrutito dalla pandemia, dal necessario bisogno di continuare a guadagnare per pagare l’affitto della casa in cui convive con la ragazza in attesa della riapertura dei teatri, incattivito dalla quotidiana fatica di continuare a vivere in un presente che un giorno di marzo ha dato un bello schiaffo all’umanità. Nel monologo diviso in capitoli scritto da Paolo Perrone per la regia di Beatrice Mitruccio, finalista al Premio Attilio Corsini – Salviamo i Talenti 2022 al Teatro Vittoria, Ludovico Cinalli, è in piedi davanti un microfono e una loop station, in uno spazio vuoto occupato ai lati da uno zaino quadrato giallo e da una biciclettina, di quelle piccole e basse, per cui le gambe quando pedali ti arrivano quasi sotto al mento. Il livore appunto, esacerba e consuma le parole (in dialetto romano e campano alcune) il ragionare politico del corpo d’attore che con puntigliosità reagisce, e ruggisce; un contenuto che rifiuta il contenitore imposto dal sistema per cui, nell’isolamento dello stallo mondiale, non possiamo che ordinare, pagare, mangiare. Erotico è l’attore che si consegna, eretico l’attore che si oppone, nell’intrattenimento del tempo che ci offre quello che vogliamo quando e come lo vogliamo. (Lucia Medri)
Visto al Teatro Vittoria, Roma. Crediti: drammaturgia Paolo Perrone, regia Beatrice Mitruccio, con Ludovico Cinalli, video e grafiche di Matteo Bernabei e Beatrice Mitruccio, produzione Collettivo Est, produzione esecutiva Progetto Goldstein con il sostegno del Teatro Trastevere – Roma, dell’Ex Mercato di Torre Spaccata, di Spin time
VOLEVO VEDERE IL MARE
Volevo vedere il mare: monologo dalla disincantata e a tratti tenera ironia di un trentenne che resiste al mondo adulto. Procrastino degli impegni, rifiuto della burocrazia, disagio per chi sembra già realizzato, ansia, angoscia quasi da accogliere a braccia aperte: il mondo a cui da voce Armando Quaranta, con due sedie e un telo su cui proiettare ombre, è quello che parte dai ricordi di bambino (tra dinosauri-voce della coscienza e le canzoni dei Neri per caso che accompagnano più di un momento scenico), adolescente che già sfugge alle interrogazioni. E poi l’oggi, quello di un’epoca in cui si fa fatica a trovare il proprio posto nel mondo, ma quello per cui, d’altro canto, si sente il peso delle responsabilità quando arrivano sotto forma di opportunità, magari lavorative. Quaranta autore, regista e interprete, parla al pubblico che con lui ride parecchio – e più volte lo sorprende con applausi a scena aperta, riconoscendosi –; dolce cadenza con una punta di pugliese, il suo è un personaggio che ricorda il Moretti prima maniera, con quello stesso modo di imbattersi nei problemi di lato, deviando anche nel parlato, nel pensiero, rincorrendo il senso e nascondendo le questioni importanti. Alla fine del colloquio di lavoro, fatto quasi per forza, arriva la candida confessione: “per un attimo ho pensato che non sarei voluto venire, che avrei voluto vedere il mare”. Concedersi, pensiamo noi, non tanto il piacere della non responsabilità ma della libertà, di quella corsa senza fine, quasi fosse un giovanissimo Antoine Doinel truffautiano, verso le possibilità di un mare che non ci sta giudicando. (Viviana Raciti)
Visto al Teatro Vittoria, Roma. Crediti: scritto, diretto e interpretato da Armando Quaranta, assistente alla regia Saverio Cambiotti, luci e fonica Andrea Vannini
MERIDIANI
Lo spettacolo vincitore dell’edizione 2022 di Salviamo i Talenti è Meridiani, una favola delicata scritta dal giovane drammaturgo Carlo Galiero e diretta da Chiarastella Sorrentino. Come in una canzone di Dalla, con la stessa allegra malinconia, c’è una luna che è una palla e un cielo-biliardo: C. Sorrentino e Giuseppe Brunetti, giocosamente affiatati, sono Gigo e Reii. Con la musica incantano i bimbi, chitarra e voce fusi in un sodalizio d’amicizia per lei, d’amore inconfessato per lui. Nella notte dei miracoli, su un’isola-luna park, i morti possono tornare a godere della vita, se indotti a provarne nostalgia: così Gigo e Reii portano sull’isola la musica e la propria sgargiante vitalità. Solitario e disincantato, Dinamo (Loris De Luna) di nostalgia della vita non ne avrà. Mentre i morti tornano, lui con seriosa leggerezza sceglie di morire, perché l’esistenza sa essere crudele. Neanche l’amore lo dissuade, quando lo punge la curiosa sete di vita di Gigo. Il desiderio muove i personaggi sul palcoscenico sgombro: il linguaggio lo riempie, un gioco continuo sul filo dell’incomprensione, ma mai supponente; il dolore quanto più cresce più impara a non prendersi sul serio. Le tre esistenze si rincorrono e si fermano a guardarsi da lontano, come meridiani procedono sentendo di potersi incontrare, prima o poi, in un punto lontanissimo nello spazio e nel tempo. Cosa ci tiene in vita, se sempre accanto ci cammina il destino della fine? Le storie e la musica, declinazioni d’amore. (Sabrina Fasanella)
Visto al Teatro Vittoria, Roma. Crediti: drammaturgia di Carlo Galiero, con Giuseppe Brunetti, Loris de Luna, Chiarastella Sorrentino, regia di Chiarastella Sorrentino, musiche originali Giuseppe Brunetti, scene Rosita Vallefuoco, costumi Rachele Nuzzo, luci Sebastiano Cutiero, progetto sonoro Filippo Conti, aiuto regia Elvira Scorza, assistente alla regia Caterina Modafferi, realizzazione scene Mauro Rea
DE PRETORE VINCENZO
Scritto nel 1957 e inserito nella Cantata dei giorni dispari, De Pretore Vincenzo è uno dei testi di Eduardo De Filippo che rappresentano quella apertura sociale verso un paese in piena ricostruzione, lasciando il dopoguerra alle spalle senza tuttavia dimenticarne il segno. La storia, sembrò pensare Eduardo, non si può eludere o farne un montaggio, bisogna affrontarla secondo i canoni che sviluppa lungo il divenire. Il testo, diretto dalla giovane regia di Emanuel Pascale, porta in rassegna l’unico testo che non sia di drammaturgia originale, ma preso in prestito dal classico. La vicenda è quella nota: un uomo (lo stesso Pascale) appena uscito di galera si fa devoto a San Giuseppe nella speranza che gli indichi la strada non per redimersi, al contrario per trovare soldi facili, anzi, “giusti”, come un modello Robin Hood che ruba ai ricchi per dare ai poveri, cioè a sé stesso. Attorno è Ninuccia (Maria Elena Verde), che pare subire – ma non del tutto – le bizze di De Pretore e il tabaccaio Don Peppino (Rosario Buglione) che cerca di redimere i propositi del giovane mariuolo. La derivazione classica, unitamente al dubbio che possa non apparire del tutto in linea con i tre altri contendenti, determina forse l’ovvia conseguenza di una messa in scena poco incline al distacco dalla matrice, condensata in un linguaggio e in un ambiente categorici, definiti. Il calco classico, se da un lato permette una confezione di più comoda fattura, pur segnalando una discreta freschezza d’attore in Pascale è registicamente un limite alle idee più personali e forse, in una rassegna tesa a segnalare talenti, ci si aspetta un poco di coraggio in più. (Simone Nebbia)
Visto al Teatro Vittoria, Roma. Crediti: testo di Eduardo De Filippo; regia Emanuel Pascale; con Rosario Buglione, Lorenzo D’Agata, Emanuel Pascale, Maria Elena Verde; musiche originali Francesco Di Giuseppe, Leo Giulio Cresci; aiuto regia Maria Elena Verde