Al Teatro Biondo di Palermo è stato rappresentato, in anteprima assoluta, il Viaggio al termine della notte, per la regia di Claudio Collovà. Tratto dall’omonima opera di Céline, a maggio il dramma ha restituito il lascito di una tra le maggiori coscienze del Novecento.
Era il 1932, e l’editore Denoël inviava alle stampe Voyage au bout de la nuit. I tipografi pensarono di intervenirvi alterando sintassi e punteggiatura. La reazione di Céline fu un manifesto programmatico: «Questi mi vogliono far scrivere come François Mauriac! Non aggiungete una sillaba senza dirmelo! Mi buttereste all’aria il ritmo come niente!», e infine «Ho un’aria scalcinata ma so esattamente quel che voglio». La sua paratassi spezzata sembrava allora uno sproposito delirante; non a caso Ernesto Ferrero, nell’appendice alla più recente traduzione dell’opera (Milano, 2022), individua in “delirio” la parola chiave per comprendere Céline. Proprio la versione di Ferrero è stata oggetto della regia del Viaggio al termine della notte diretta da Claudio Collovà, che dopo Joyce, ritorna sul palco del Biondo con un’opera di consolidata tradizione letteraria. Un’opera imponente, che necessitava un compendio.
La sintesi presuppone un filtro, un criterio che imprima al modello una forma nuova, inevitabilmente personale. Nonostante Collovà proclami un’assoluta fedeltà al testo («Io non ho aggiunto nulla. Céline è perfetto per il teatro, è tutto lì dentro. Ma l’hai letto?»), nella sua regia le vicende céliniane conoscono uno sviluppo coerente: il racconto prevale sul frammento, la narrazione sulla sua negazione. Ciò vale soprattutto per il primo atto, quello in cui Ferdinand Bardamu (Nicolas Zappa) è un giovane soldato nella prima guerra mondiale. Sulla scena, la sua biografia è un romanzo in transito, vissuto e raccontato attraverso i luoghi della battaglia: un ponte precario, dove commilitoni e ufficiali arrancano armati di cinismo e perversione; una foresta di alberi smisurati, tra cui è facile perdere se stessi e la vita. Le scene di Enzo Venezia non sono uno sfondo, ma un grande orizzonte paesaggistico, e rendono visibili le atmosfere altrove evocate dalla parola. Tutto si perde nel fumo di scena: il suo corpo rarefatto accoglie lo squallido umore della trincea che, inalato come fosse una droga diffusa, eccita i dialoghi e le attitudini dei personaggi. Il Bardamu di Zappa, spinto da un patriottismo convinto (forse un po’ distante dal vitalismo interventista che pure è in Céline) è ancora un ragazzo con un ideale fisso. Assolutamente sfrontato, e non poteva essere altrimenti, il suo compagno Léon Robinson (Antonio Orlando). Céliniane anche le donne. Margherita Laterza, nei panni di Lola (e poi Madelon), dà corpo a una femminilità sensuale e allucinata. Angelica Dipace rappresenta due volti della maternità: uno delicato, l’altro degenere.
Quando il sipario si riapre, Bardamu (adesso Sergio Basile) è un medico attempato privo di sogni e utopia: nello scontro tra il giovane e il vecchio, aggiunta da Collovà per suturare la parte iniziale e quella finale del Voyage, si distende la cesura etica segnata dal tempo. L’interpretazione di Basile, che già aveva commentato alcune scene precedenti, è tesa tra il disincanto e ciò che resta degli antichi ideali. Come fosse una proiezione del suo pensiero, il secondo atto consiste di una serie di episodi che, inanellandosi ininterrotti, conservano più da vicino la struttura del libro. In linea con questo carattere, enormi mura cittadine imprimono alla rappresentazione un tono onirico e astratto; tra queste si muovono gli abitanti del quartiere Rancy. Gianluigi Fogacci è un Robinson invecchiato e liso, che assieme al suo corpo trascina la sua esistenza. Serena Barone è la vecchia Henrouille, e ne esprime con arcigna ostinazione la resistenza agli eredi e loro ai tentativi di omicidio. E ancora Protiste, il curato che mette da parte i comandamenti per qualche spicciolo: nell’interpretazione di Luigi Mezzanotte, già nei panni di Bestombee e del medico Prestipine, è un miserabile capace pure di attirarsi qualche comprensione. A loro si aggiunge la folla di pezzenti ormai interessati, citando Malaparte, a salvare la pelle e non la vita; avanzano tra barelle, cadaveri, orribili fantocci. E acqua, onnipresente sulla scena come elemento rigenerante o pozza stantia.
È tutto lì dentro. Davvero l’operazione di Collovà si svolge all’interno del testo, nel quale trova senso e linfa. Tutto concorre alla restituzione di una parvenza letteraria, storicamente connotata. I costumi (ancora di Venezia), e il commento sonoro (di Giuseppe Rizzo) immettono lo spettatore all’interno di un’epoca: la fanfara militare, interrotta da un improvviso boato, invade prepotente lo spazio sensoriale del pubblico, oltretutto rimandando a un problema fin troppo attuale. Tuttavia, e forse nonostante le intenzioni più volte manifestate da Collovà, questo Viaggio non è il frutto di una traslitterazione pedissequa – per fortuna. Si tratta di una riduzione, e dal dato tecnico non si fugge: col termine comunque non si intende un ridimensionamento, ma una sintesi. Sintesi che il regista rinviene – e non impone – nell’unità di luogo, occupandosi soltanto di alcuni episodi francesi della vita di Bardamu (rimane fuori il soggiorno in Africa e negli Stati Uniti). Sintesi che ha comportato anche una limatura stilistica: i dialoghi sono in parte epurati dai molti accidenti sintattici e lessicali che tipicamente complicano la prosa del francese. Insomma Collovà ha visto il romanzo nell’anti-romanzo, e lo ha portato in scena. Come di fronte a una composizione cubista, ne ha tracciato l’origine figurativa, il soggetto distrutto dal segmento e dalla frattura. Ciò non ha implicato il rifiuto dell’orrore, ed è fondamentale. Anzi, questa narrazione ha donato evidenza e universalità a ciò che Céline sapeva di volere, nonostante il suo essere scalcinato. L’urlo, straordinario e terribile, lanciato da Zoppa alla fine del primo atto, è quanto di più fedele possa mai essere detto e prodotto sul Voyage e l’intero Novecento, al di là di tanta postura critica e letteraria. In esso si è raccolta, per un momento, la disperazione di un uomo, di un’epoca, dell’angoscia priva di uno scopo. Il delirio, appunto.
Tiziana Bonsignore
Visto in prima assoluta al Teatro Biondo di Palermo, nel maggio 2022
VIAGGIO AL TERMINE DELLA NOTTE
di Louis-Ferdinand Céline
traduzione Ernesto Ferrero
adattamento teatrale e regia Claudio Collovà
con Sergio Basile, Nicolas Zappa, Gianluigi Fogacci, Luigi Mezzanotte, Antonio Orlando, Margherita Laterza, Serena Barone, Angelica Dipace
scene e costumi Enzo Venezia
luci Pietro Sperduti
musiche Giuseppe Rizzo
assistente alla regia Valentina Enea
scenografa assistente e attrezzista Giuseppina Giacalone
assistente ai costumi Ilenia Modica
direttore di scena Sergio Beghi
produzione Teatro Biondo Palermo