Recensione. Andato in scena all’Arena del Sole di Bologna per ERT- Emilia Romagna Teatro, Liebestod è lo spettacolo dell’artista spagnola Angélica Liddell, già presentato allo scorso Festival di Avignone.
«Mi sei entrato nel cuore con un fucile. / Mi sono fatta una corona funebre col tuo silenzio. / Mi sono comprata una casa per pensare a te. / Ti regalerò la mia veste battesimale. / Sei la seta del mio divenire cristiana. / L’amore è il bene della morte. / Lascia che sia la tua evangelista. / La tua puttana dalla corona di spine. / La tua Madonna della Macarena con i canini. / Ruberò il baldacchino della Madonna per trasportarti. […] Per quante lacrime abbiano i nostri occhi. / Dobbiamo dormire stretti alla pistola. / Mi immagino morta ogni mattina. / Ti immagino morto ogni mattina. / L’unica cosa che ci libera dalla morte è desiderarla. / Inchiodati a questa croce che è il nostro proprio corpo. […] Mordimi la testa, / ti supplico, uccidimi. / Davanti a te mi cadrà la spada, / mi cadrà sempre la spada, /ti guardo e mi cade la spada, / mi cade la spada / mi cade la spada… […]». Liebestod significa morire d’amore, o forse amare da morire. Espressioni così comuni da essere annoverabili pure tra le schiere della retorica. Eppure la maggior parte delle persone crede che l’amore sia la con-divisione della vita, la messa in comune della parte virtuosa e vitale con qualcosa, con qualcuno, vi trovano un posto per se stessi, una sicurezza, vi inseguono un bilanciamento, vi rintracciano una stabilità, per bisogno, per appagamento, per riconoscimento. Altri, più o meno di quanti si pensi, constatano di amare solo quando riescono ad odiare, quando mettono in relazione la parte morta, quando accettano di uccidere il proprio senso del grottesco, dell’espresso, del ridicolo, quando si infliggono un martirio, di cui si gloriano e si scherniscono, per cui si lodano e si avviliscono, senza crederci e non potendone fare a meno. Una, due, tre, dieci, cento volte. La dannazione di una grazia. Una sequela di piccole, gigantesche morti per chi è in grado di trascinare e trascinarsi solo nel grido o nel silenzio, nell’assenza o nella presenza tangibile, nell’esaltazione o nel vituperio, nell’adorare o nel rinnegare. Operazione senza senno, processo lucidissimo in cui si apprende che non vi è nulla di più spaventoso, stupendo e orribile, di più necessario e inutile, umano e impossibile se non trovarsi o scegliere di amare qualcosa, qualcuno.
Angélica Liddell ha portato sul palcoscenico dell’Arena del Sole di Bologna uno dei suoi ultimi lavori, presentato allo scorso Festival di Avignone tra le solite polemiche e i soliti clamori che accompagnano sovente le messinscena dell’artista spagnola. Il titolo viene dall’ultima aria del Tristan un Isolde di Wagner, seppure di questo restano più che altro accenni e qualche refrain sonoro. In principio è l’avvicendarsi di tre quadri cesurati dal calare di un pannello sull’ininterrotta acustica di una banda sintetica continua, in loop. Poi il silenzio, sullo schermo dei sovratitoli la scritta “Questa opera è dedicata a Heysel”, segue una frase di Emile Cioran, autore che tornerà ancora e ancora. L’autrice e interprete entra sulla scena di giallo intenso nel nero della maglia e della gonna e siede al tavolino scuro su cui campeggiano un bicchiere di vino rosso, il pane, le garze e le lamette con cui si taglierà le ginocchia e le mani, il fazzoletto bianco che userà per penetrarsi con due dita frontalmente alla platea, la gonna alzata sulle cosce. Verrebbe quasi da dire che è questo che si aspetta da lei chi abbia anche una minima confidenza coi lavori precedenti della Liddell, una corporale versificazione della sua presenza asservita all’identità non solo scenica ma anche drammaturgica. Il riferimento a Juan Belmonte, uno dei più grandi toreri rimasti impressi alla memoria morto suicida nel 1962, è non solo nella costruzione dello spazio che rimanda a quello di un’arena da corrida, nella vestizione che a un certo punto richiama il Traje de Luces, bensì nelle parole, che non transustanziano tuttavia completamente l’azione come pure a tratti potrebbe voler sembrare. Perché «L’odore del sangue non mi va via dagli occhi», perché «si torea così come si è», perché la riproduzione di un toro a grandezza naturale farà da contraltare figurale statico non solo a quello della performer, ma anche agli undici gatti veri tenuti al guinzaglio in uno dei quadri iniziali o chiusi in una bara di vetro simile a quelle del Cristo Morto portate in processione durante la Settimana Santa. Quello che davvero torna però di quella assurda, estetizzata, bellissima e deplorevole pratica o tradizione è il senso, in un sistema metonimico, della sfida, del combattimento che si consuma in uno stillicidio, un fiotto ematico alla volta, di sacrificio in sacrificio, di vittoria in vittoria, di perdita in perdita.
La costruzione visiva dell’immagine scenica è implacabile, lo è nella spinta cromatica che vive di contrasti armonici, lo è nella giustapposizione di elementi mai sovrabbondanti così da rimanere ognuno incisivo e determinante il modificarsi di gradienti che compitano il procedere e il susseguirsi dei momenti e dell’azione intera. Vi è un distillato di quanto rientra nell’accezione di contemporaneo in teatro e in arte in questo Liebestod di Angélica Liddel, vi si rintracciano rimandi all’iconografia pittorica (vd. Bacon o La Pietà), alla body e alla video-arte, al concetto di performance per come affacciatosi nelle cronache e nelle storiografie a partire soprattutto dagli anni Sessanta e Settanta, agli stilemi del mimo e agli schemi motori della danza, alla coniugazione tonale e ritmica della voce che spazia dalla parola al verso, dal detto al cantato sino alle altezze del gorgheggio e dell’urlo, passando per il diaframma e la cassa di risonanza facciale fino all’amplificazione del microfono. Vi è un distillato di elementi e “verbi” legati ad immaginari culturali ed esistenziali e traslati al contempo sulla e per la scena: gli stimoli uditivi (dalla musica “flamenca” a quella classica, dalle distorsioni elettroniche ai silenzi), l’olfatto sfiancato dal turibolo che brucia incenso per un tempo sufficiente a invadere la sala, poi un vestito da sposa, una mantilla bruna, un giglio bianco, un libro, … Oltre ai riferimenti a Cioran e Belmonte di cui già sopra, vi è uno stuolo di citazioni dichiarate o meno, da Artaud a Rimbaud, da Fassbinder a Kinsky, da Sade a Garcia Lorca…
Il nucleo che, però, strappa il lavoro e la sua autrice dal ripetersi di quanto alcuni valuterebbero una “provocazione”, che oltre la forma resterebbe poco più che la fissazione di un canone stilistico nemmeno così inedito, è contenuto in un monologo inserito più o meno dopo la prima metà dello spettacolo in cui Angélica assolve al suo compito preventivato e avvera tutte le aspettative conosciute e conoscibili di un sacrificio estetico del sé. È in quel nucleo che tutto acquisisce una prospettiva in grado di raccontare un interminato e interminabile percorso di coscienza artistica e non, quasi un flusso non necessariamente fluido, è lì che pulsa un apparente dialogo autoriferito, un’esortazione a dire “quello che pensi” condotta in prima persona e affrontata verso la platea, come una dichiarazione. In una camicia da notte di raso nero prende corpo la “verità” di Angélica Liddell, la verità della paura, la paura della solitudine, l’immolazione della vita e il bisogno di essere amati, anche in virtù dell’ottundente dedizione al lavoro, l’insofferenza per il dilagare della burocrazia, l’autocompatimento momentaneo, il beneficio del disprezzo, per l’esercito sociale, per il proprio ambiente e i suoi figuri, per il proprio pubblico. Il rigetto di un’osservazione sentita sino a risultare purulenta, inclemente, scorretta, niente affatto conciliante e per questo nemmeno troppo velatamente sarcastica, pietosamente senza pietà, dolorosissima nel suo essere così vicina e così distante, per i ben- pensanti, per i mal-pensanti, per noi spettatori, per gli intellettuali, ammiratori à la page, per gli inconsapevoli, per i troppo consapevoli. Non è forse così, detestando e decantando con rabbia, provocando per essere all’altezza di essere rifiutati sperando invece di essere accolti, continuando comunque a esporre e a esporsi, rischiando di scoprire ogni volta inutile il calcolato sacrificio del proprio orgoglio, dell’esaltazione dei propri slanci, della pudicizia delle proprie difese che si capisce come si odia, come si muore, come si ama, in scena? E cosa c’è di stabile, rassicurante, ed equilibrato in questo?
«Ho la fortuna di desiderare ardentemente, con tutta la potenza della mia anima, ciò che più di ogni cosa può ferirmi. […] L’unica cosa che ci libera dalla morte è desiderarla. Bisogna offrire spavaldamente al destino il varco da cui può ferirci. La festa non serve a divertirsi. Non serve a divertirsi. La festa serve a dare un nome alle sofferenze, ci uccidiamo di puro amore. […] Chi mi vieta di uscire a cercare una morte magnifica? Sete di terrore, sete di orrore e sete di pietà, brama di essere nulla». Essere nulla, ovvero morire, d’amore.
Marianna Masselli
Visto a Bologna, Teatro Arena del Sole, Aprile 2022
LIEBESTOD El olor a sangre no se me quita de los ojos Juan Belmonte
con Angélica Liddell, Gumersindo Puche, Palestina de los Reyes, Patrice Le Rouzic, Borja Lopez, Ezekiel Chibo
testo, regia, scene, costumi Angélica Liddell
assistente alla regia Borja López
disegno luci Mark Van Denesse
luci Dennis Diels
suono Antonio Navarro
produzione NTGent, Atra Bilis Teatro, in coproduzione con Festival d’Avignon, Tandem Scene National Arras-Douai, Kunstlerhaus Mousonturm (Frankfurt)
in collaborazione con Aldo Miguel Grompone, Roma