Recensione. Lo scorso aprile lo Studio Melato del Teatro Piccolo di Milano presentava lo spettacolo Carne blu, scritto, diretto e interpretato da Federica Rosellini, riportato in scena a maggio all’interno del Festival “Presente Indicativo”.
C’è un vento laggiù, un vento che trasporta cose leggere. Sembrano fiocchi di neve quelli che vediamo scendere silenziosamente sullo schermo di fondo palco, vaporosi e impalpabili, incostanti e docili. E invece sono dolorosi frammenti, tracce di un’imminente distruzione, preludio di un inevitabile crollo. Nel ventre della terra precipitano con un tonfo lugubre sei palazzi, di cui in scena vediamo i resti di una sabbia polverosa, macerie arroccate di un mondo infranto che non potrà mai più funzionare come prima. Eppure, è proprio questa pars destruens della proiezione video a divenire condizione necessaria della pars construens della narrazione: le forme architettoniche ora prendono nuova vita e crescono nel senso contrario. Capovolte, fanno presagire l’ingresso in una dimensione altra, al di là di ciò che conosciamo, che scava sotto la superficie delle cose, che diviene senso ultimo, che è al tempo stesso uno sprofondare e un fondare sé stessi.
È proprio dall’inversione della tensione architettonica (dall’alto verso il basso) che prende avvio un lungo viaggio nelle profondità abissali della memoria e del sentire umano-postumano. A fare da guida è Federica Rosellini, premio Ubu under 35, che oltre a prestare il proprio corpo performante, firma dello spettacolo testo e regia. Carne blu, difatti, prende le mosse dal libro pubblicato nel 2021 dalla Giulio Perrone Editore, scritto da Rosellini con la prefazione di Claudia Terranova e la postfazione di Fiona Sansone (co-regista) e Claudio Longhi. Un racconto che è fiaba nera, nata in tempi pandemici, che ha tutta la forza della resistenza ad una corporeità negata, e che anzi la indaga nelle sue fluide possibilità metamorfiche, nella volontà di trascendere il sesso, il genere, la specie.
Una specie che vediamo emergere sommessamente tra le arenose macerie tenute in un equilibrio precario da ganci da traino, appesi all’alto soffitto del teatro: è Federica Rosellini, che è Orlando, che è carne blu. Veste una tuta da palombaro e si muove con mansueta lentezza tra le rovine, poi si accovaccia tenendosi il capo tra le esili dita e si nasconde. Della sua storia che ora è sogno veniamo a conoscenza tramite una voce registrata fuori campo, che ci racconta con ineluttabile sonorità la sua condizione di unico superstite sulla Luna. Le alte maree del Mare della Tranquillità hanno cancellato tutti, anche suo padre perché in quell’acqua luttuosa si cela la dimenticanza del mondo intero. La stessa struttura perturbante della Luna rende il deserto di rigolite un luogo di smarrimento e solitudine, il cui connaturato oblio impone al protagonista un percorso alla ricerca di ciò che ignora, ma che da tempo sa di aver perduto.
L’immaginario dell’artista-regista prende così forma e vita attraverso parole fortemente evocative: sono i gemiti di Orlando e di una balena peregrina (suo alter ego) che richiama il capodoglio di melvilliana memoria, sono le parole reiterate per colmare il senso di vuoto, sono le melodie accarezzate su di un pianoforte e le canzoni sussurrate che hanno il candore e la dolcezza delle ninne nanne, poesie fiabesche dal potere immaginifico che si sostanziano del loro carattere rivelatorio. Ad esse si ancorano le installazioni curate da Paola Villani, che hanno simbolicamente il compito di condurre lo spettatore nell’interiorità di Orlando, scandagliandone i recessi dei segreti omessi.
Dalla frastagliata e lacerata superficie lunare apparirà quindi la visione di “interiora” palpitanti fatte di carne e sangue per poi tornare ad una scena composta da residui, con un ragno mostruoso “alla Bourgeois” dalle dimensioni monumentali (scultura di Daniele Franzella su disegno di Simona D’Amico) che è le radici di un albero a cui è appesa un’altalena, forse l’ultima possibilità di lasciarsi andare. Le stesse luci, di Luigi Biondi, nel susseguirsi dei tre atti dello spettacolo riducono la propria luminosità in virtù di una sorta di introspezione; prima forti e disvelatrici, poi ombrose e umide, infine avvolgenti e viscerali.
Ma quando è la marea ad alzarsi, ecco il dissolversi di ricordi che fanno la loro ultima comparsa come specie biologiche di fantasmi mutanti, di sirene e ippogrifi, falene e babbuini, donne d’acqua, e padri fatti di terra e radici. Sono creature chimeriche di un mondo fantastico destinato a svanire, i cui corpi vogliono mettere in discussione lo statuto identitario tradizionalmente inteso. In quest’opera polimorfa, dunque, il corpo diviene luogo di incontro e, al tempo stesso, contenitore ibrido, frutto di un’incessante processualità metamorfica, di genere e di specie. La pelle blu di Orlando viene grattata via, diviene manto e nuda carnalità per lasciare spazio alle possibilità di trasformazione. Non è un caso il riferimento all’Orlando di Ariosto e di Virginia Woolf, autori letterari che divengono il punto di partenza per sviluppare un discorso sempre più ampio e attuale, che vuole superare una prospettiva tipicamente antropocentrica in virtù di una fluidità che disvela molteplici dimensioni extra-umane possibili (e necessarie).
All’ambiguità del corpo, si aggiunge anche una riflessione sulle dimensioni di vita e morte. Riprendendo Virginia Woolf nel suo Orlando: «È dunque necessario che di tanto in tanto il dito della morte si abbatta sul tumulto della vita per impedirle di spezzarci? Siamo dunque così fatti da dover assumere la morte a piccole dosi quotidiane per seguitare il mestiere di vivere? […]. E se così, di che natura è la morte, e di che natura è la vita?» Federica Rosellini, nella narrazione di Carne Blu, sembra ereditare questo postulato di duplicità, non soltanto mescolando le differenze e le complementarietà di maschile e femminile, di umano e transumano, ma anche di vita (che doveva essere ma non è mai stata) e morte (che è già e che tornerà ad essere). Questo aspetto la porta a recitare in un tempo sospeso, immanente e ancestrale, che se da una parte produce nel pubblico un affaticamento sensoriale (uditivo-visivo nella ricca scenografia e nei lunghi monologhi), dall’altra si risolve nel potere di fascinazione di una scrittura poetica, fluente e di una presenza carnale così forte da risultare magnetica.
Sulla marea delle cose perdute Orlando cresce e viaggia nei misteri di sé stesso, ne recupera il rimosso perturbante e lo condivide, per percorrere traiettorie che non sono mai state e non potranno essere mai. Porta con sé Sunny, un pesciolino dorato che nuota nella tasca cucita a sinistra, al posto del suo cuore. Sunny danza, guizza, e ogni movimento della sua coda scandisce una metamorfosi di Orlando, una possibilità che rivela la necessità ultima di lasciarsi, finalmente, scivolare via, di abbandonarsi come fa la marea quando inesorabilmente si ritira. Ora la Luna torna silenziosa, senza tempo. È una Luna che piange, è una Luna che cancella, è una Luna che ha la voce, inconfondibile, di Orlando.
Andrea Gardenghi
Visto a Milano, maggio 2022
di Federica Rosellini
tratto da Carne blu. Un Orlando di Federica Rosellini (Giulio Perrone Editore)
con Federica Rosellini
scenografa Paola Villani
costumi Simona D’Amico
realizzazione scultorea creatura III atto Daniele Franzella su disegno di Simona D’Amico
light designer Luigi Biondi
visual designer Massimo Racozzi
sound designer Gup Alcaro
assistente alla regia Elvira Berarducci
regia Federica Rosellini e Fiona Sansone
produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
un ringraziamento particolare a Daniela Bassani e a Nadia Terranova
con il sostegno di Dialoghi-Residenze delle arti performative a Villa Manin/CSS Teatro stabile di Innovazione del FVG e di RuotaLibera/Centrale Preneste Teatro