Recensione. La tempesta di William Shakespeare messo in scena da Alessandro Serra, prodotto da Teatro Stabile di Torino, Teatro di Roma, Ert, Sardegna Teatro e dalla compagnia Teatropersona. Visto al Teatro Argentina di Roma
L’isola della Tempesta, lo spazio geografico e drammaturgico inventato da William Shakespeare nel 1611, è il luogo dove tutto può accadere e qui si fa metafora del teatro di uno dei più talentuosi registi del panorama italiano: Alessandro Serra è un creatore di mondi, è un artista in grado di far palpitare lo spazio vuoto, di animarlo, di renderlo vivo di fronte agli spettatori; erede dunque delle fantasmagorie barocche o ottocentesche (quando la meraviglia del grande teatro era esperienza ludica anche popolare).
Il buio del Teatro Argentina inghiotte la scena di fronte a una platea pomeridiana numerosa nel giorno di festa del Primo Maggio, sale il sipario tagliafuoco, dalla foschia e da un telo nero compare una figurina danzante; i suoi gesti orchestrano la tempesta, il telo ne segue il ritmo degli arti, è Ariel, piccola servetta magica di Prospero. Il sollevarsi del telo mostra una scena anch’essa nera, inquadrata da una pedana: è il campo da gioco, il luogo dove si diventa personaggi, dove si recita la commedia. Dietro c’è un’altra grande entrata, una feritoia che si apre e si chiude, come una membrana in collegamento con un mondo altro, quello di una fantasia creatrice, un fuoriscena invalicabile che solo nel finale si lascerà mostrare agli occhi della platea.
Tornare a Shakespeare – come al solito in maniera totale, firmando tutte le parti dell’opera, dalla traduzione alle foto di scena, compreso il disegno luci suggestivo e funzionale, gli abiti, le scene, i suoni e naturalmente la regia – vuol dire per Serra tornare a inventare: nel 2020 l’Argentina lo aveva accolto con le ultime repliche prima del lockdown per un Giardino dei ciliegi in minore rispetto alla grandezza del celebre Macbettu, ma ogni opera è un passaggio: ecco allora il ritorno a colui che “inventò l’uomo”, all’archetipo del teatro, a Shakespeare, che compose questa commedia nel 1611. Ma tutto è già accaduto, come evidenzia Harold Bloom, e la commedia – che poi in realtà è un romance – ha una trama esile, si regge sulla vocazione di Prospero per la magia, sulla sua capacità di controllare le azioni altrui e recuperare il potere senza torcere un capello, senza far cadere una goccia di sangue. C’è una sorta di monito, oppure di suggerimento; è una delle ultime opere shakespeariane e l’addio alle scene per il Bardo comincia a rappresentarsi con una riflessione sul potere come ordinamento della realtà da ricostruire in assenza di violenza. La tempesta comincia come una tragedia che si prefigura non meno sanguinaria di altre, proprio perché l’antefatto è nella perdita del potere. Ma Prospero è uomo di libri, di cultura, eccola l’utopia della modernità, e la magia si fa metafora del sapere in sostituzione della violenza.
Se Prospero ha la vocazione alla magia, in Serra la vocazione è nella magia del palcoscenico: è lo stesso Shakespeare a guidare i registi verso questo luogo metateatrale, chi si confronta con la messinscena della Tempesta per forza di cose si rispecchia in Prospero e dunque in Shakespeare. Ma allora quella grande metafora dell’isola che si fa teatro, nella quale gli uomini scoprono di essere fatti della stessa sostanza dei sogni, avrebbe bisogno di farsi carne negli attori e nelle attrici, di glorificarsi nei muscoli e nelle voci, d’altronde nel teatro di Shakespeare la convenzione minima è quella della parola in azione. Nel mezzo, tra il fango della mostruosità di Caliban e la magia altissima e celestiale di Ariel c’è il mondo degli uomini con i loro tentativi di vivere strappando frammenti di felicità ai giorni bui, anelano il potere, parlano di terre da riconquistare, di città da cui sono stati banditi, si innamorano e si sfidano fino a quando uno spirito verrà a sollevarli dalla schiena per rendere vano tutto quell’affannarsi. Allora è davvero un peccato dover riconoscere in questa Tempesta di Serra – che è “musica per gli occhi”, per citare una locuzione ottocentesca – che il piano recitativo non regga il passo della visione, non sia altrettanto ricco di inventiva e immaginazione, soprattutto dal punto di vista vocale.
Il prospero di Marco Sgrosso è altero e orgoglioso, nel bianco regale con il quale si staglia dal buio, ma la sua parola non lascia il segno per stile o emozioni; l’Ariel di Chiara Michelini è leggera e nei movimenti, quasi a mezz’aria, conduce gli altri personaggi come un puparo, aggraziata nel corpo e negli slanci fisici, ma vocalmente si appiattisce su un tono bambinesco stridulo. Come da tradizione, Caliban per antinomia con Ariel è rabbia e distruzione nella pelle scura che ancora una volta vede gli uomini bianchi invadere la sua terra e la sua cultura; questa di Jared McNeill è apparizione teatrale potentissima e terrigna anche nella voce; divertono i toni dialettali della coppia Stefano e Trinculo (Vincenzo Del Prete e Massimiliano Poli).
Rimane in generale la sensazione di aver assistito a un grande spettacolo a cui manca un tassello; un’opera che meriterebbe nella densità della parola recitata la stessa ricerca dello stupore di quei minuti iniziali potentissimi in cui la tempesta sulla nave e il sudore degli uomini vengono sintetizzati dal palpito nero di un velo, oppure la forza di un’idea come quella del freakshow di Caliban o del consesso degli dei che appaiono con teste di legno, le bellissime maschere create da Tiziano Fario che fuggono dal classicismo per portarci in un mondo spaventevole e ritualmente animistico, e le scene di gruppo, quel matrimonio finale bellissimo ed estetizzante nel bianco lunare e surreale dei personaggi trasformati in ballerine di un bizzarro avanspettacolo; come d’altronde rimarrà a simbolo di questo spettacolo il commovente incanto di un appendiabiti che ricco di costumi rossi scende dall’alto, come artigianale epifania, sineddoche di un mondo e di una vita per il teatro.
Andrea Pocosgnich
Teatro Argentina di Roma, fino al 15 maggio 2022
Prossime date in calendario tournée
Wuzhen (Cina), Wuzhen Theatre Festival dal 19 al 21 ottobre 2023
Torino, Teatro Carignano dal 7 al 19 novembre 2023
Bari, Teatro Piccinni dal 23 al 26 novembre 2023
Modena, Teatro Storchi dal 30 novembre al 3 dicembre 2023
Vercelli, Teatro Civico 5 dicembre 2023
Villadossola (VB), Teatro La Fabbrica 7 dicembre 2023
Bolzano, Teatro Comunale dal 14 al 17 dicembre 2023
Piacenza, Teatro Municipale dal 20 al 21 dicembre 2023
LA TEMPESTA
di William Shakespeare
traduzione e adattamento Alessandro Serra
con (in ordine alfabetico) Fabio Barone, Andrea Castellano, Vincenzo Del Prete, Massimiliano Donato, Paolo Madonna, Jared McNeill, Chiara Michelini, Maria Irene Minelli, Valerio Pietrovita, Massimiliano Poli, Marco Sgrosso, Bruno Stori
regia, scene, luci, suoni, costumi Alessandro Serra
collaborazione alle luci Stefano Bardelli
collaborazione ai suoni Alessandro Saviozzi
collaborazione ai costumi Francesca Novati
maschere Tiziano Fario
Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale / Teatro di Roma – Teatro Nazionale / ERT – Teatro Nazionale / Sardegna Teatro
in collaborazione con Fondazione I Teatri Reggio Emilia / Compagnia Teatropersona
Stupendo spettacolo che “vola” in un’ora e quarantacinque minuti. Non sono d’accordo che manchi un tassello. Mi astengo da giudizi sui singoli come non esperto. Ma dopo il potentissimo inizio è naturale che venga la quiete che quiete comunque non è.