Recensione. La Compagnia Licia Lanera ha debuttato con il nuovo spettacolo Con la carabina, in prima nazionale durante Polis Teatro Festival curato da ErosAntEros.
Accade, lo sappiamo. Lo abbiamo vissuto o ce lo hanno raccontato. Lo abbiamo visto o letto o ascoltato. Accade perché la violenza è silenziosa ma deflagrante, è l’azione o la parola-azione che sconvolge, e genera un vuoto pienissimo. Lo sdegno non basta più, la condanna e la pena neanche. Sono il riconoscimento, invece, definitorio, e il rispetto per chi ha subito che devono condurre a un percorso a ritroso per cui l’aggressione non è compresa perché viene capita e quindi giustificata, ma perché è “presa con” tutti gli aspetti culturali, esperienziali, relazionali che l’hanno generata.
I personaggi sono “l’arma” e il “bersaglio”, lo sono sempre in realtà e nel testo À la carabine (2020) della drammaturga francese Pauline Peyrade diventano attore e attrice, agiscono e reagiscono, l’uno all’altra, in un rapporto naturale e per questo assai pericoloso, che scrutiamo come faremmo se ci trovassimo davanti un incidente, testimoni intenti a interrogarci sulla dinamica. E basta quel suono della cassa acustica gracchiante e prolungato (sound design Francesco Curci) a farci comprendere che c’è qualcosa che non va e che si sta apprestando a peggiorare, rumore scelto dalla regista Licia Lanera nell’adattamento Con la carabina presentato in prima nazionale al POLIS Teatro Festival, che ha dedicato nell’edizione appena conclusa un focus speciale alla drammaturgia contemporanea francese. Il caso di cronaca di una bambina di undici anni riconosciuta consenziente da un tribunale francese allo stupro subito da un amico del fratello maggiore e la sua decisione di farsi giustizia da sola è diventato testo teatrale scovato dal traduttore e libraio Paolo Bellomo, barese residente a Parigi, proposto alla Compagnia Licia Lanera e interpretato da Danilo Giuva e Ermelinda Nasuto. Peyrade, già nota in Italia grazie al lavoro svolto da Fabula Mundi Playwriting Europe, sembra possedere una scrittura tendente all’impostazione inglese, con dialoghi serrati concentrati sull’unità di azione della pièce; quello che si dicono i personaggi e come lo dicono costruiscono l’ossatura essenziale della drammaturgia, rispetto alla quale il lavoro di Lanera – come raccontato da lei in un incontro post spettacolo – è stato quello di «uscire dalla rappresentazione e arrivare al nucleo». Ed è proprio attorno al fatto, alla necessità e alla prossimità di stare lì, in quel frangente, che viene costruita la fruizione: nel ridotto del Teatro Rasi di Ravenna, il pubblico è assiso su delle panche vicinissime alla scena, non c’è palco, non ci sono quinte, sui lati altre sedute occupate spingono a osservare, e a essere osservati.
Una ruota panoramica gira, illuminata di lucine, è posta sul tavolo al centro della scena immersa nel buio. Un’ipnosi collettiva ci conduce alle giostre, è l’epifania infantile, il ricordo della festa. La ruota panoramica è costruita coi mattoncini Lego, può essere montata, trasportata e poi distrutta. A sinistra della ruota Ermelinda Nasuto, a destra Danilo Giuva, entrambi seduti su delle sedie di scuola, con tanto di segni e scritte. Lei, rivolta verso il pubblico ha un leccalecca in mano a colorarle la lingua di blu, lui, gomiti poggiati sul tavolo, la guarda. Lei esplode: «Succhia, stronzo». È la prima scena chiamata Bocca. «Non faccio niente di male, gioco», continua in seguito lei. Alle giostre, infatti, si va per giocare, e anche uno sparo è un gioco, si imbraccia un fucile – una carabina – la si poggia sulla spalla e si cerca di fare centro, per ottenere un dono in cambio, un peluche: «È da tanto tempo che voglio un grande coniglio. Ne ho solo uno piccolo a casa», conferma lei. «Tua madre mi ha detto di tenerti d’occhio» dice l’altro, insignito di questo incarico per cui proprio lui dovrebbe proteggerla, proprio lui dovrebbe fare attenzione che non le succeda nulla, proprio lui dovrebbe garantirle di giocare senza che il gioco possa farle del male. Ma il male sta anche nel gioco della lingua, nella rapidità di uno scambio che diventa prima complicità poi sberleffo, nell’incontro di un pensiero che si fa parola e quindi azione, la sensazione fisica di un contatto, una vicinanza concessa dalla fiducia, diventata controllo, prevaricazione e insulto e alla fine offesa.
In dialetto barese dialogano i due, il francese originale è così trasposto in una lingua di provincia, «una lingua nostra», così definita dalla regista, funzionale allora a una carnalità ulteriore, un rigurgito volgare che diventa lirismo nudo e crudo e che troverà la sua estasi, etimologicamente verrà fuori, nel coniglio vero e scuoiato che l’attrice, in lacrime, terrà in grembo. «Sembra triste, non voleva che fossi io a sparare, voleva farlo da sola, ha perso, voleva fare la grande e fare come se io non esistessi, avrei potuto vincertelo il coniglio e avresti potuto averlo e adesso saresti contenta, ben le sta, ha fatto l’orgogliosa» confessa, lui. La lingua si fa linguaggio allora, dialettica e comportamento, cultura diremmo. Per questo la violenza accade, certo che accade, non può non accadere, la vediamo tutte e tutti, e stiamo lì. L’attrice e l’attore spostano i fari, ci illuminano, sono i servi della loro scena il cui disegno luci, firmato da Vincent Longuemare, rende il pubblico testimone visibile nelle sue espressioni e pose e interrogativi. Le scene dal copione chiamate Lingua, Palato, Denti e poi Tacca di mira, Gola, Annuncio, sono degli a parte rispetto alla narrazione, sono i non luoghi e i non tempi in cui esplode la rabbia di lei, la giustizia rivendicata nell’autonomia di uno scontro corpo a corpo, nella reazione violenta all’azione violenta e nella pretesa severamente dolce di riavere in cambio il gioco perduto: «Non hai il diritto di prendere ciò che non ti appartiene, non puoi fare quello che vuoi con quello che non ti appartiene, giù il secchiello, restituisci il rastrello alla bambina».
Per raggiungere quel grado di immersione e compromissione, l’attore e l’attrice non hanno avuto scampo, hanno vissuto insieme, hanno condiviso il testo e lo hanno incorporato, sono stati incredibilmente vicini e affettuosi per poi farsi schifo a vicenda. E per questo sono stati interpreti dalla sensibilità pratica, quella che diventa strumento tecnico, dosata con rigore, cervello e cuore, un esperimento di memoria sia del fatto in sé che dei corpi. Non hanno assolto un compito, non hanno imparato la parte, ma hanno fatto esperienza della mostruosità, per questo il loro è un gesto attorale incandescente, né morboso, né pornografico. Ermelinda e Danilo diranno nell’incontro col pubblico condotto da Maddalena Giovannelli che il loro è stato «un lavoro sul confine», per cui hanno avuto la protezione adeguata considerato il tipo di impostazione condotta da Lanera: «cerco disperatamente di portare avanti una compagnia nelle vesti di capocomica, un esperimento controcorrente di autonomia per cui si condividono luoghi, pensieri, tempi».
«C’è qualcos’altro che ha il potere di svegliarci alla verità. È il lavoro degli scrittori di genio. Essi ci danno, sotto forma di finzione, qualcosa di equivalente all’attuale densità del reale». È la citazione di Simone Weil scelta dal curatore Davide Sacco e dalla curatrice Agata Tomšič di Polis Teatro Festival per indicare come il tema centrale della rassegna sia la violenza tra gli esseri umani e di questi nei confronti del pianeta Terra. Quella «densità del reale» è nello spettacolo Con la carabina anche rappresentata dai costumi, di Angela Tomasicchio, per cui l’habitum diventa habitus e quindi anch’esso concorre all’individuazione di un contesto relativo ai protagonisti, sia alla loro età che alla loro estrazione. Anche la musica aiuta secondo questa prospettiva: non è un caso l’inserimento di due brani dell’artista Billie Eilish che rivendicano la libertà di essere come si è e come si vuole. «Non hai bisogno di metterti tutta nuda per lavarti i denti, da dove ti viene?» è il pensiero che ha la protagonista, quando immagina cosa penserebbe sua madre entrando in bagno, vedendola così, nauseata per quello che le è successo e intenta a lavare via ciò che invece resta. Che si possa allora partire da scritture come questa che non danno risposte, che nello straniamento della visione sedimentano interrogativi utili a, come sottolineato da Lanera durante la discussione, quell’«educazione del corpo» che dovrebbe contribuire a una ridefinizione culturale che non si basi su una punizione a posteriori della violenza, ma sulla prevenzione a priori.
Lucia Medri
CON LA CARABINA
di Pauline Peyrade
con Danilo Giuva e Ermelinda Nasuto
traduzione Paolo Bellomo
luci Vincent Longuemare
sound design Francesco Curci
costumi Angela Tomasicchio
aiuto regia Nina Martorana
organizzazione Silvia Milani
regia e spazio Licia Lanera
produzione Compagnia Licia Lanera
in coproduzione con POLIS Teatro Festival
in collaborazione con Angelo Mai
si ringrazia E Production
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