Aterballetto ha debuttato con successo a Reggio Emilia con due brevi nuovi lavori di Eyal Dadon e Diego Tortelli, dai quali emergono però numerosi dubbi.
Inseguita o inseguitrice, Aterballetto è compagnia oggi al bivio. Diventare davvero un centro coreografico e di produzione della danza nel pieno della sua attuale mission, radicato sul territorio e fucina del presente, oppure restare luogo di transito di coreografi freelance con l’occhio soltanto al mercato. Quanto visto al momento però non chiarisce nessuna bussola artistica: di fatto, è compagnia senza repertorio e, dunque, senza identità. Servono idee capaci di riconsegnare questo ensemble (oggi di 18 interpreti) soprattutto alla danza, ai suoi processi compositivi, sempre in atto e mai definitori, e alla sua capacità di fare sistema, di essere mondo. Temi e questioni che una progettualità espansa e tutta minore, un’idea convenzionale di coreografia come formato, prodotto da offrire, e una programmazione disegnata a tavolino distante dal lavoro in sala, dalla vita delle individualità che dovrebbero fare la differenza (mentre invece molti membri della compagnia stanno lasciando), hanno reso questa già importante compagnia abbastanza invisibile.
Gioverebbe senz’altro il recupero di alcuni capisaldi della storia di Aterballetto; il confronto nei ‘nuovi’ corpi con il repertorio coreografico europeo del secolo scorso; l’allenamento alle nuove pratiche di lavoro della performance contemporanea, secondo un’estetica alternativa nella quale la coreografia è un gruppo aperto di strumenti utilizzati sia per l’analisi e la comprensione del presente che per la produzione. Quanto invece visto al Teatro Romolo Valli di Reggio Emilia, in prima assoluta, è stato un indiscusso successo nostrano, ma ottenuto con proposte calibrate sul regime soltanto dell’effetto.
A partire da Yeled (‘bambino’) di Eyal Dadon, che ha un progetto drammaturgico sulla nostalgia dell’infanzia davvero minimo, di nessuna necessità. Anche la scena è poverissima, sembra un decor da teatro per ragazzi (anni novanta del secolo scorso, con tanto di minuscola porta da cui entrare per retrodatare il presente). Ma l’errore più flagrante è il grande schermo appeso a proscenio che manda in diretta le immagini della libera regressione che avviene in una angusta casetta/capanna/serra a lato del palco: l’effetto cine-televisivo domina sempre l’attenzione e dilegua e dissolve inesorabilmente la forza dei corpi dal vivo sotto in scena. Il movimento è un bambolismo cinetico che non sembra richiedere alcun particolare studio; mentre lo spazio è continuamente ordinato secondo una diagonale che infine si scioglie in un effetto parata davanti alla telecamera, troppo light per qualsiasi pubblico che non sia quello di un fashion show d’altri tempi. Le atmosfere sono molto trendy ma già un po’ rifritte perché un po’ Pite un po’ Eyal un po’ Shechter un po’ un’altra cosa, ma sempre appunto un’altra cosa. Non c’è tensione né dramma (nonostante la cupa colonna sonora e il risibile testo a corredo) nel vedere un adolescente che riflette sul fatto di essere stato bambino: un infantilismo patinato e regressivo che peraltro fa danzare pochissimo.
Il secondo titolo, SHOOT ME di Diego Tortelli, su musiche (bellissime) del gruppo brit The Spiritualized e la (ingombrante) voce di Jim Morrison che declama poesie, parte benissimo. I primi 10 minuti sono perfetti, intensi: passaggi, occupazione dello spazio, rivendicazioni di presenza, comunità di sguardi che si orchestrano per trovare unità. Ma purtroppo le idee finiscono subito. In modo un po’ troppo didattico, Tortelli mette tutt* sulla diagonale e qualcosa di diverso parte, per altri lunghi 20 minuti, inintelligibile.
La prestazione ha la meglio sulla performance, e allora non si tratta più di coreografia ma di formato, di calcolo e misure, senza che emerga chiaro, indispensabile, un volto o un corpo di questo fantastico gruppo, e non basta il libero concept del «concerto-balletto» a cui appellarsi per dare corpo a quelli che sembrano meri espedienti giocati sempre al sicuro, come le luci sparate sul pubblico, giusto il tempo di colpire, mai troppo da disturbare.
Aterballetto ha 43 anni, ed è in Italia la compagnia meglio finanziata e sostenuta, quella più capace di dare continuità al proprio passato: è curioso che non siano disponibili libri, monografie, cataloghi capaci di ripercorrere questa lunga storia. Difficile farla, quella nuova, se non si è pronti a tenere conto di quella che è già stata. Infine, leggere sul programma di presentazione della serata parole introduttive sulla compagnia: «come una delle più smaglianti e plasmabili formazioni europee», fa un po’ effetto “gita a Chiasso”. È vero: basta solo allungare il naso poco oltre i propri confini per trovare un mondo di novità, di fermenti e cambiamento. Ma le parole da sole non possono tanto, e il sorriso porta con sé il dubbio ch’esse nascondano, per tutta evidenza, fragilità, incertezze e timori che il calcolo dei dadi più non torni.
Stefano Tomassini
Aprile 2022, Reggio Emilia, Teatro Municipale Valli
Yeled
Creazione per 16 danzatori della compagnia
Coreografia Eyal Dadon
Musica Eyal Dadon
Set e luci Fabiana Piccioli
Costumi Bregje Van Balen
Produzione Fondazione Nazionale della Danza / Aterballetto
Coproduzione Fondazione I Teatri di Reggio Emilia
Con il contributo dell’Ufficio Culturale dell’Ambasciata di Israele in Italia
Premiere 27 Aprile 2022, Reggio Emilia, Teatro Municipale Valli
Shoot me
Creazione per 16 danzatori della compagnia
Coreografia Diego Tortelli
Musica Spiritualized
Costumi Marco De Vincenzo
Luci Roman Fliegel
Produzione Fondazione Nazionale della Danza / Aterballetto
Premiere 27 Aprile 2022, Reggio Emilia, Teatro Municipale Valli
¡Qué excelente y justo artículo! Por fin alguien que llame la atención sobre la homogeneidad y la falta de riesgo que se observa en las propuestas de muchas compañías italianas. La danza italiana necesita coraje, necesita pasión y necesita diversidad.