HomeArticoliPupo di zucchero di Emma Dante. Per la memoria, sulla persistenza

Pupo di zucchero di Emma Dante. Per la memoria, sulla persistenza

Recensione. Pupo di zucchero, l’ultimo spettacolo di Emma Dante,visto al Teatro Kismet, di Bari prende le mosse dall’incontro tra la sua auotorialità registica e compositiva con un racconto di Basile e un testo di Rainer Maria Rilke. In tournée poi a Udine, Cremona e Napoli.

Foto Ivan Nocera

« “Tata mio, se mi vuoi bene, portami mezzo vaso di zucchero di Palermo e mezzo di mandorle ambrosine, con quattro o sei fiaschette d’acqua di rose e un poco di muschio e d’ambra, e dovresti portarmi anche una quarantina di perle, due zaffiri, un poco di granatine e rubini e un poco di fili d’oro e con tutte queste cose una madia e un rasoio d’argento” […]si chiuse dentro una camera e cominciò a fare un grande impasto di mandorle e zucchero, mescolato con acqua di rose e profumo […]». Così in Pinto Smauto (Smalto splendente), terzo racconto della quinta giornata de Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile. È questo il nucleo narrativo servito come presupposto per Pupo di zucchero, ultimo lavoro di Emma Dante, già andato in scena la scorsa estate al Pompeii Theatrum Mundi e in apertura di stagione al Teatro Biondo di Palermo, a febbraio approdato a Bari in un Teatro Kismet tutto esaurito e ora in circuitazione. Dopo La scortecata, il lavoro segna il ritorno della regista siciliana, anche autrice del testo e curatrice dei costumi, al Pentamerone.

Qui non c’è Betta, la figlia del mercante della fiaba di Basile, ma un vecchio ‘nzenziglio e spetacchiato (Carmine Maringola) a lavorare la pasta di zucchero che “nun cresce”. Il tempo dell’azione è il giorno dei morti, un tempo preciso eppure sospeso. A sud, o se si preferisce nel meridione, il due novembre i bambini ricevono in dono dolciumi, la sera prima in certe case lasciano ancora la tavola apparecchiata per permettere di sfamarsi a quanti, dall’ antro oscuro dell’altro regno, di notte la tradizione vuole attraversino le porte dimensionali dell’anima facendo la fatica di tornare, qualora se ne fossero mai andati davvero. A Palermo la pupaccena, un cromatismo sgargiante, prende i connotati dei paladini e delle figure del ciclo carolingio, dell’opera dei pupi. È una suggestione quella del racconto di Basile, la cui matrice lessicale e narratologica dal testo originale si desume nell’adattamento del linguaggio e della lingua, perciò in quello della scena (la drammatizzazione della fabula è insita nella concezione originaria del Cunto) e della parola. Il napoletano seicentesco viene messo in reazione con un testo ove non è il dialogo in termini contenutistici o in quanto strumento di costruzione dei significati il perno.

Foto Ivan Nocera

Ma è solo la prima suggestione cui, secondo le note di regia, si aggiunge l’espressionismo delle parole de i quaderni di Malte Laurids Brigge di Rilke. «Tutti avevano una propria morte. Gli uomini che la portavano nell’armatura, dentro, come un prigioniero, le donne che divenivano vecchissime e piccole e poi in un letto enorme morivano come su un palcoscenico, dinnanzi all’intera famiglia» si legge a un certo punto del romanzo. Il flusso intermittente, l’andirivieni del pensiero, il meccanismo della memoria per cui ricordi, figure appaiono, funzioni di una costante e sostanziale riflessione sulla vita stessa nell’incedere della morte, nel cono d’ombra, anzi di ombre del legame col passato. Tema non nuovo allo spessore magmatico della e nella poetica di Emma Dante sin dalla trilogia della famiglia, così come non inedito appare pure il processo metonimico secondo il quale la presenza del personaggio sulla scena e l’energia che ad esso abbisogna, che lo connota si offrano come sottolineature dell’assenza, voragini interpretative di una mancanza. È in questa crasi di immaginari che tutto inizia, in cui si delinea e termina, o meglio forse arriva a compimento la parabola di una reviviscenza per spaccati, sorta di convocazione medianica di un frastagliato ripetersi di esistenze finite senza poter finire di esistere.

Foto Ivan Nocera

Come già in altri lavori dell’autrice, sulla scena di nero immersivo in principio è il buio, poi il tintinnare ritmico e regolato dei campanelli, finchè per riflesso all’occhio come un vapore alchemico la luce lascia affiorare l’immagine. Nell’adattamento tra l’iride e la pupilla si scorgono Rosa, Primula e Viola (rispettivamente Nacy Trabona, Federica Greco e Maria Sgro), tre giovani donne in piedi, una delle quali ha una bambola per compagna degli stinchi. L’oscurità delle vesti avvera il contrasto nel bianco delle striature dei capelli dell’uomo chino sul tavolo dell’impasto. Rosario in mano, si addormenta e sarà il respiro pesante del sonno a contrappuntare a un tratto l’armonizzazione e l’armonia vocale di Viola su Luna Nova. Una ferita corre a cercare nella mente la voce di Murolo sulla soavità dei versi di Di Giacomo e Costa, ma non ne ha il tempo, perché poi il tonfo di una caduta, una convulsione, un segno di croce… Nel procedere dell’azione, cifrato dal perfetto alternarsi di bagliori caldi e freddi (di Cristian Zucaro), si inanelleranno i quadri, congiunti in un universo plurimo e implacabilmente solipsistico. Oltre alle tre sorelle, il Vecchio riporterà in scena, in casa, il suono francofono della voce della “mammina” custodito nell’esilità del corpo, l’attesa destinata a divenire imperitura alla deriva di chissà quale navigazione del padre, l’empio erotismo e il furente amore dei pestaggi fra zio Antonio e zia Rita e poi la presenza assistita del figlio adottivo Pasqualino, il vorticoso spasimare di Pedro per Viola.

Foto Ivan Nocera

Succederà che una coperta disegni lo spazio come un manto e definisca la dimensione visiva come un arabesco dinamico in crescendo, che i mobili e poche suppellettili necessarie all’azione segnino la scena di un interno domestico senza fondo come un quadro di Magritte, che gli unici fari blu e fucsia incontrino la sparuta iridescenza delle paillettes, che la pasta di zucchero venga aggredita e gettata nel fluttuare di polveri d’oro e d’argento. Si sentirà soave armonizzare il canto, crescere un vociare spesso, battere flamenchi i tacchi… Accadrà ogni cosa, solo perchè è già accaduta, ci saranno tutti perché non c’è più nessuno. Si rincorre in palcoscenico una vivida pittura di sogni, che lascia il sibilo della morte insinuarsi ipnotico tra le fessure della poltrona, risalirci gelido per la colonna vertebrale e, arrampicandosi per la nuca, arrivare alle tempie, passare per gli occhi, scendere dalla bocca a bloccare il respiro. A conclamarlo l’ultima progressiva costruzione, due strutture in giunzione, una croce per il cancello di una cripta, ai piedi della quale il vecchio ‘nzenziglio, prima di abbandonare il capo l’ultima volta, lascia una preghiera di quattordici lumini. Allora ciascuna vita, col tempo adatto, avrà esposto la verità della propria morte (dieci sculture di Cesare Inzerillo).

La visione che sfuma, per l’attimo di un silenzio lungo. Per rimanere, affissa come una persistenza.

Marianna Masselli

Visto a Bari, febbraio 2022, Teatro Kismet

Prossime date in calendario tournée

08 – 09 aprile 2022
Udine, CSS Teatro Palamostre

11 aprile 2022
Cremona, Teatro Ponchielli

04 – 15 maggio 2022
Napoli, Teatro di Napoli – Teatro Mercadante

PUPO DI ZUCCHERO-La festa dei morti

liberamente ispirato a “Lo cunto de li cunti” di Giambattista Basile

testo e regia Emma Dante

con Tiebeu Marc-Henry Brissy Ghadout, Sandro Maria Campagna, Martina Caracappa, Federica Greco, Giuseppe Lino, Carmine Maringola, Valter Sarzi Sartori, Maria Sgro, Stephanie Taillandier, Nancy Trabona

costumi Emma Dante

sculture Cesare Inzerillo

luci Cristian Zucaro

foto di scena Ivan Nocera

produzione Sud Costa Occidentale, Teatro di Napoli – Teatro Nazionale,Scène National Châteauvallon-Liberté, ExtraPôle Provence-Alpes-Côte d’Azur, Teatro Biondo di Palermo,La Criée Théâtre National de Marseille, Festival d’Avignon, Anthéa Antipolis Théâtre d’Antibes, Carnezzeria

e con il sostegno dei Fondi di integrazione per i giovani artisti teatrali, della DRAC PACA e della Regione Sud

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Marianna Masselli
Marianna Masselli
Marianna Masselli, cresciuta in Puglia, terminato dopo anni lo studio del pianoforte e conseguita la maturità classica, si trasferisce a Roma per coltivare l’interesse e gli studi teatrali. Qui ha modo di frequentare diversi seminari e partecipare a progetti collaterali all’avanzamento del percorso accademico. Consegue la laurea magistrale con una tesi sullo spettacolo Ci ragiono e canto (di Dario Fo e Nuovo Canzoniere Italiano) e sul teatro politico degli anni '60 e ’70. Dal luglio del 2012 scrive e collabora in qualità di redattrice con la testata di informazione e approfondimento «Teatro e Critica». Negli ultimi anni ha avuto modo di prendere parte e confrontarsi con ulteriori esperienze o realtà redazionali (v. «Quaderni del Teatro di Roma», «La tempesta», foglio quotidiano della Biennale Teatro 2013).

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