Al Teatro Nuovo di Napoli i debutti del Premio Scenario 2021. Qui alcune note di riflessione sugli spunti offerti dai quattro spettacoli
Tra il 17 e il 18 marzo al Teatro Nuovo di Napoli si è tenuto il debutto degli spettacoli che hanno avuto la menzione del Premio Scenario 2021. Chi era in scena ha avuto il merito di predisporre interessanti prospettive di osservazione, private o collettive se non addirittura storiche, che hanno restituito una lettura puntuale delle contraddizioni del nostro tempo. Caterina Marino porta in scena il suo corpo avvolto da un pesante piumone bianco: lei non è Caterina, ma il suo stato depressivo. L’intero spettacolo deve adattarsi alla sua condizione, e non per vezzo ma per necessità: c’è spazio per un microfono e una sedia perché è troppo stanca per usare pienamente voce e gambe. Still Alive (but not Live) è la confessione di una debolezza. Caterina non riesce a uscire di casa e va aiutata per vestirsi, mangia e non vuole lavarsi; progetta cose, e resta seduta; vorrebbe mangiarselo questo anno nuovo, ma l’unica cosa che addenta è una banana. Lei non vuole ammazzarsi, ma c’ha pensato. E se contro la sofferenza “non ce l’ha fatta uno come Pavese, perché cazzo dovrebbe farcela lei?” Eppure questa ragazza di ottant’anni (ma all’anagrafe stranamente dicono ne abbia trenta) è dotata di un’ironia troppo acuta per essere davvero una debole; Caterina è consapevole di cosa c’è al di fuori del perimetro di casa sua, ed è consapevole che quello che sta avvenendo causa il suo dolore. La depressione paradossalmente diventa come una reazione al mondo; di più, un atto di coraggio. Il coraggio di non dover necessariamente accettare lo stato delle cose. Il coraggio di affermare che quello che basta a molti, per lei non è sufficiente (“Io il maxi concorso pubblico non lo voglio fare!”). Il coraggio di prendere coscienza del proprio immobilismo, e da li ricominciare a muoversi. Giusto per vedere come andrà a finire.
Si prosegue con Topi della compagnia Usine Baug. Genova, luglio 2001. Il signor Canepa è un uomo normale con una vita ordinaria che qualche volta si anima di novità: nel caso specifico, una cena di lavoro da organizzare in casa sua. Il disordine viene distillato con intelligenza. Lì dove l’esperienza diretta non è potuta arrivare c’è lo sforzo dell’invenzione narrativa; contemporaneamente, la finzione acquista valore dall’attendibilità documentaristica. Le due intenzioni non si sbilanciano tra loro, né perdono mai l’obiettivo di esporre l’incontrovertibile. Non esistono opinioni, non esistono sfumature, le memorie non sono dubbie; il corpo di Carlo è un fatto. Canepa si prepara sereno ad accogliere gli ospiti, ignorando volutamente le notizie alla radio e le voci vive dei manifestanti che gli si infilano in casa dalle finestre. Scopre di avere un’infestazione di topi, e la pulizia diventa intransigente. La tranquillità banale dell’appartamento era già compromessa dalla sua stessa costruzione, dalla presenza disturbante dei servi di scena: destinati al silenzioso e marginale ruolo da reggimensola si liberano, topi, nell’assordante rivolta che ha l’innocenza e la dolcezza del ballo. Il dialogo concitato tra i resoconti delle manifestazioni e lo sviluppo dell’azione fanno deflagrare l’espediente narrativo che si sovrappone perfettamente alla realtà. Il “come se” non regge più, e i fumi densi del topicida sono l’immagine fotografica della Storia. Dal fumo però si alza qualche altra cosa, qualcosa che non è storia dal momento che ha la quotidianità del sempre: un anziano spettatore stravaccato su due poltroncine, pieno dell’ego stantio della sua età, che sente e attacca a cantare ad alta voce Que reste-t-il de nos amours? di Charles Trenet perché troppo stanco per seguire in silenzio qualcosa che non fosse sé stesso. Che noia dover ripetere che niente cambia, che i nostri padri sono sempre gli stessi.
Qualcuno però crede che questo nostro mondo possa cambiare e per ragioni che superano l’arbitrio della volontà, per quanto pure a quella ci si appelli. L’Europa ha delle ragioni che la politica non considera; qualcosa di atavico, che solo nel tempo del mito trova piena espressione. Mattia Cason per il suo racconto epico delle Etiopiche sceglie il plurilinguismo, perché non ha senso raccontare la nostra storia senza tutte le lingue che la animano. Le domande che cercano quelle ragioni sono espresse nel tedesco dell’Inno alla Gioia, o nel Tractatus Logico-Philosophicus di Wittgenstein. La risposta dell’Europa va cercata (quanto può essere cattiva l’ironia) in Turchia, tra le sonorità del greco classico e quello moderno. Alessandro Magno, non greco ma effettivamente europeo, nel 334 sul Granico chiede al mercenario Memnone di Rodi come è possibile per un greco tradire il suo popolo a favore del nemico persiano. E la memoria dei tempi retrocede verso il ricordo di un altro Memnone, re di Persia e di Etiopia, che accorse in aiuto di Priamo contro la minaccia achea. Quanto la nostra Europa deve all’Oriente, quanto poi al mondo islamico (e volutamente lo dimentichiamo). Gli idiomi si susseguono nel corso della storia senza difficoltà: l’amarico, l’arabo, il persiano, fino all’yiddish. Il linguaggio primo resta però quello del corpo, della danza, che nella sua complessità di espressione e narrazione è una vittoria. La visione si moltiplica (e leggermente si complica) sullo schermo dove trovano spazio i volti, le terre, i racconti che tanto ci appartengono, che appartengono a quest’Europa così già profondamente afro-asiatica. Ma anche la politica ha delle ragioni che la poesia non considera, e quelle stesse ragioni sviliscono la richiesta esplicita di cambiamento rendendola, ahimè, naif.
Allora guardiamo ancora più da lontano, tra quelle ragioni che sono terra sterile per la poesia. O forse non così da lontano. Come la spieghiamo questa realtà? Che linguaggio, che immagine? Il collettivo Baladam B-side in Surrealismo capitalista non ha bisogno di ricreare immagini, non ha bisogno di supporti per chiarire il reale, e il palcoscenico è completamente vuoto. La nostra realtà, regolata com’è dalle perversioni del Capitale, è un contradditorio controsenso. I tempi di questa realtà sono scanditi dall’affannoso ripetersi del presente: tutto si riduce a dei rapidi “ora”. Le regole del Capitale sono talmente esplicite che, per paradosso, nessuno di noi è del tutto consapevole di sottostarvi. Nessun impianto scenico avrebbe potuto contenere e restituire onestamente quel contradditorio con quei tempi. Il sistema teatrale si manifesta e spiega se stesso come un insieme di immagini e immaginari controllato dal Capitale. Il movimento, ingabbiato ottusamente nei perimetri stabiliti dal canone scenico, è soggetto a nevrotiche ripetizioni che lo rendono ridicolo. Ma persino l’uso dell’umorismo ha l’ambigua funzione di smascherare e giustificare la prassi. I tre attori si presentano in un flusso di situazioni che hanno l’esemplarità iconica del rituale. Situazioni che si ripropongono nel meccanismo di un sistema che manipola il linguaggio fino a piegarlo alle logiche distorte del consumo; anche l’affetto è consumo, pure la morte è consumo. Esserci è consumo. I tre corpi sul palco sono di tre persone che per convenienza definiamo attori, perché essere attori è consumo.
A conclusione di tutto questo va riportato che tra il 17 e il 18 marzo – al Teatro Nuovo che ha scambiato il proprio spettacolo di Drusilla Foer per motivi di spazio, accordandosi con il Teatro Bellini che invece aveva in programma Scenario – non c’è stato un vero debutto, dal momento che il pubblico in platea era pressoché inesistente, segno evidente che la comunicazione dell’evento, a nostro avviso non coerente al tipo di offerta, deve aver risentito del trambusto dato dal cambiamento in corsa. Le due giornate sono state come delle estenuanti maratone, con dei tempi serrati dalle 16:30 fino anche a tarda notte. È parso piuttosto assurdo pretendere di portare in scena ben quattro spettacoli intervallati da rapidi cambi di scena, come se al posto del teatro, con la cura che ad esso si deve, fosse stato l’allestimento svogliato di vetrine per il solo sguardo di giornalisti (pure pochi) e un pubblico (forse) pagante di parenti o amici. Dopo ore di attesa (con tutto il carico di naturale agitazione che ne deriva), gli attori meno fortunati hanno potuto calcare il palco solo alle 23:15, mettendo a durissima prova la loro forza di volontà. È sempre mortificante dover constatare che a dei giovani lavoratori non venga concessa, secondo tempistiche di maggiore umanità, la sacrosanta possibilità dell’ascolto e del confronto, come se davvero non avessero peso. Ma il giovane lavoratore, si sa, è sempre grato delle mezze occasioni che gli vengono concesse, e spera.
Valentina V. Mancini
Marzo 2022, Teatro Nuovo di Napoli
Still Alive (but not Live)
drammaturgia e regia Caterina Marino
con Caterina Marino, Lorenzo Bruno
aiuto regia Marco Fasciana
video creator Lorenzo Bruno
sound designer Luca Gaudenzi
Topi
regia e drammaturgia Usine Baug
con Ermanno Pingitore, Stefano Rocco, Claudia Russo, Claudia Veronesi
luci e tecnica Emanuele Cavalcanti
consulenza scenografica Arcangela Varlotta
Etiopiche
regia, coreografie, testi Mattia Cason
con Mattia Cason, Katia Kolaric, Rada Kovacevic, Tamas Tuza, Carolina Alessandra Valentini
riprese Federico Bruno, Mattia Cason, Alberto De Nart, Andrej Lamut, Francesco Sossai
tecnica Aleksander Plut
Surrealismo capitalista
drammaturgia e regia Pierre Campagnoli
con Pierre Campagnoli, Nina Lanzi, Giacomo Tamburini