Recensione. Fausto Russo Alesi e Fausto Malcovati portano in scena Padri e Figli dello scrittore russo Ivan Sergeevič Turgenev e raccontano di cosa si anima l’umanità.
Perché portare in scena proprio Turgenev? Perché la sua penna e non quelle dei contemporanei Tolstoj o Dostoevskj? Per quale motivo non pescare tra uomini e donne che, nel bene e nel male, hanno una tale potenza da animare l’epica? A pensarci bene, è quella l’umanità che alimenta l’immaginario sulla Russia. Un paese e un popolo la cui essenza si esprime pienamente nella vasta accezione che è il “terribile”. L’unico paese, uno degli ultimi grandi esotismi di questo mondo, le cui bombe ci spingono a dire Guerra; come se le numerose che si abbattono ugualmente feroci su altri Stati (riconosciuti o no) avessero un peso irrisorio. Ebbene, cosa ha in più Nikolaj Petrovič Kirsanov rispetto a Fëdor Pavlovič Karamazov? O la Odincòva rispetto alla Karenina? Per non parlare di Bazàrov: un nichilista anche troppo mite; ve n’è uno più moderno, Sanin, descritto da Michail Arcybàšev (di quella Russia che è Ucraina) la cui fame distruttiva è paragonabile a quella di un cancro fulminante. Allora sono arrivata al Mercadante con estremo anticipo per prepararmi a capire.
Il palco era coperto per quasi tutta la sua ampiezza da una pedana che riproduceva il pavimento di quella che avrebbe potuto essere una dacia; alcune delle assi non erano in ordine, ed erano stati distribuiti, in apparenza casualmente, alcune sedie e qualche cavalletto; un avvitatore elettrico all’estrema sinistra e un pianoforte al capo opposto. Una tenue melodia di sottofondo ha accompagnato il vagare degli occhi. La calibrata misura della suggestione irretisce. Varcano la scena Fausto Malcovati e i tredici giovani attori che insieme a Fausto Russo Alesi hanno condotto il progetto di studio sul testo al Centro Teatrale Santacristina dal 2017. Sia il professore che gli attori e le attrici hanno tra le mani Padri e Figli, lo sollevano e lo mostrano al pubblico; il rapporto col romanzo è imprescindibile, e terranno l’oggetto per tutte le quattro ore e mezzo di spettacolo. Ogni cosa parte da lì: lo studio, le posture, i toni. Malcovati, cui viene porta una sedia, al di sopra di qualunque parte o giudizio osserva muto. Al pianoforte prende posto Esmeralda Sella, esecutrice delle composizioni di Giovanni Vitaletti. Avanza Marina Occhionero che inizia a leggere; alle sue spalle procedono Matteo Cecchi e Luca Carbone. Loro sono Evgénij Bazàrov e Arkadij Kirsanov, due amici in viaggio da San Pietroburgo per far visita alle rispettive famiglie; la prima tappa per i due giovani è a Mar’ino, dove li aspetta l’affettuoso Nikolaj Petrovič Kirsanov, in scena Stefano Guerrieri.
Siamo nel maggio del 1859: si è appena conclusa la Guerra di Crimea e da lì a due anni Alessandro II avrebbe emanato la Riforma per l’abolizione della servitù della gleba. A un passo dalla modernità, lo scontro generazionale è feroce. Arkadij è un nichilista come il suo sornione compagno. “Il nichilista non s’inchina davanti all’autorità di nessuno e non accetta nessun principio, anche se si tratta di un principio a cui tutti obbediscono”. Pavel Petrovič, Luca Tanganelli fratello di Nikolaj, è un nostalgico aristocratico di mezza età che difende con foga e rabbia il privilegio di un idealismo tradizionalista, che non è altro che amore per sé stessi e la patria; a lui si contrappongono i dogmatici “noi” dei due giovani. La soluzione è nella crisi. Bazàrov e Arkadij, in visita dal diplomatico Matvej Koljazin, Cosimo Frascella, si trovano davanti un’umanità più o meno interessante: la nobile divorziata erotomane e intellettuale Kukšina, Giulia Bartolini, e il becero seguace di un nichilismo annacquato Sitnikov, Marial Bajma Riva (tutti e tre gli attori hanno delle spiccate attitudini al trasformismo, interpretando pure rispettivamente i servi Pëtr, Dunjaša e la Principessa R., l’amante defunta di Pavel). A una festa fanno la conoscenza di Anna Sergeevna Odincòva, Daria Pascal Attolini, una ricca vedova, una donna colta e curiosa, terribilmente affascinata da Bazàrov che, suo malgrado, deve piegarsi alla violenta passione che lo irretisce.
Marina Occhionero procede nella sua lettura drammatizzata con incertezza; le parole risuonano con dubbio e i suoi occhi spesso si posano su Malcovati come alla ricerca di una spiegazione. Leggermente curva nelle spalle, i piedi lenti e il libro stretto al petto, si volta poi a guardare i personaggi. E quelli ancora non sono effettivamente uomini e donne; si leggono e si interpretano e si espongono nella nudità delle cieche convinzioni, sezionati come le rane che Bazàrov studia per capire la meccanica umana. Esattamente come l’occhio del giovane medico, anche quello dello spettatore si muove clinico da un attore all’altro; non c’è spazio per l’empatia, e la comprensione è sostenuta dal solo ausilio della vista e dell’udito. La penna di Turgenev è molto più che avara nell’esprimere qualsiasi giudizio, nonostante sia meticolosa. Ognuno di loro è oggetto della stessa attenzione, e insieme si ingegnano per ordinare le assi del pavimento; insieme lo creano questo mondo. Eppure qualcosa disturba: come un’accentuata affettazione proprio per quel non essere ancora uomini e donne. L’azione ha un riverbero di vita solo dopo essere stata contemporaneamente letta e inscenata. È come se le idee avessero perso la consistenza delle personalità.
Matteo Cecchi ha avuto il compito gravoso di imporre la violenza dell’età giovane, e finisce per stizzire chi lo guarda. Il suo Bazàrov ancora non si compie; eppure è attraente, scuro e irruento, convincente e ammaliante. Nel conflitto con Pavel Petrovič si rasenta quasi il ridicolo nel rigido antagonismo dialettico. E poi, eccolo un afflato: la Odincòva, il cui tono innaturalmente altisonante si crepa patetico, rifiuta Bazàrov che si inginocchia disperato ai suoi piedi. Il dolore esplode e qualcuno in platea, stupito dall’improvviso cambio di registro, si lascia sfuggire qualche risata. In pochi attimi, nella veemenza di un amore infelice, tutto cambia. Tutte quelle fitte impalcature ideologiche, rigide armature per manichini, sono state costruite al solo scopo di vederle precipitare. Lasciata la Odincòva, Bazàrov e Arkadij si recano dai genitori del primo. Vasìlij Bazàrov, Alfredo Calicchio, è un vecchio ufficiale di campo e appassionato naturalista e sua moglie Arìna Bazàrova, Marta Mungo, “[…]avrebbe dovuto vivere duecento anni prima, all’epoca moscovita. Era religiosa e con una sensibilità a fior di pelle, credeva a qualsiasi coincidenza, presagio, stregoneria, sogno premonitore;[…]”. L’Arìna della Mungo è una splendida icona, una madonnina dolente dolcissima; seduta a gambe aperte, è talmente minuta eppure imponente. La testa le si piega di lato e le lacrime copiose le bagnano il viso: piange per quel figlio bello e intelligente ma così duro e severo; non riesce a capirlo tanta è la distanza tra loro, ma è un pezzo del suo corpo.
E mentre sinceramente si piange con Arìna, Bazàrov ancora una volta irrompe con le proprie verità; stavolta, con disperazione. Finalmente. “[…]il posto che occupo è infinitamente piccolo se lo si paragona a tutto lo spazio dove io non sono e non sarò mai. E la porzione di tempo che mi è dato vivere è così insignificante[…]Che assurdità![…] com’è brava quella formica , trascina una mosca mezza morta. […] approfitta del suo diritto animale cui è concesso di non conoscere la compassione mentre la pietà spezza gli uomini in due.” Cecchi è perfetto mentre cerca di ribellarsi inutilmente all’amore che prova per i genitori, al rifiuto dell’Odincòva, alla meschinità dell’esistenza. I Figli conoscono il futuro del mondo: lo vedono nel dolore e nell’abnegazione remissiva dei genitori, e sanno che non c’è salvezza perché a loro volta, da Padri, dovranno piegarsi. L’unica cosa da fare è dire no finché è possibile. E lui strilla arrabbiato e addolorato, si dimena, salta su una delle assi in bilico. Quando nel confronto con dei servi coglierà anche le sue di mancanze e contraddizioni, lui che è un progressista, incassa un’altra sconfitta (ma la realtà di ognuno è una terribile contraddizione. Poco più di quarant’anni dopo, nel Giardino dei ciliegi, Čechov, nipote di un servo della gleba, fa dire al suo vecchio Firs: “La liberazione non l’ho voluta, e sono rimasto coi padroni. Erano tutti contenti, mi ricordo, ma contenti di che, non lo sapevano neanche loro.”). Prima di morire, il giovane nichilista prega per un’umanità più giusta; fatto sta che il vero Bazàrov, nel romanzo, prima di chiudere gli occhi grida “L’avevo detto che volevo ribellarmi, e mi ribellerò, mi ribellerò!”. Forse sarebbe stato più giusto, per quanto spaventoso, lasciarglielo dire. Ma è vero, la pietà spezza in due davanti a quella sfilata di umanità debolissima, ridimensionata in tutte le inutili convinzioni. La lettura procede meno claudicante e accompagna nella compassione. Malcovati ha un aspetto più malinconico. Tutti in scena hanno modulato le voci seguendo il respiro di corpi vivi di amori, sofferenze, ricordi, paure, speranze (non si dimenticano la Katja di Zoe Zolferino, e la Fenečka di Eletta Del Castillo, con il loro tenero candore rinvigorito di pragmatismo). Si piange per tutti, nessuno escluso.
Valentina V. Mancini
Marzo 2022, Teatro Mercadante di Napoli
Padri e Figli
di Ivan Turgenev
traduzione e adattamento Fausto Malcovati e Fausto Russo Alesi
regia Fausto Russo Alesi
con Daria Pascal Attolini, Marial Bajma Riva, Giulia Bartolini, Alfredo Calicchio, Luca Carbone, Matteo Cecchi, Eletta Del Castillo, Cosimo Frascella, Stefano Guerrieri, Marta Mungo, Marina Occhionero, Luca Tanganelli, Zoe Zolferino
e con Fausto Malcovati
pianoforte Giovanni Vitaletti / Esmeralda Sella
composizione musiche originali Giovanni Vitaletti
progetto scenografico Marco Rossi costumi Gianluca Sbicca
luci Max Mugnai
foto di scena Serena Pea
produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Emilia Romagna Teatro Fondazione
in collaborazione con Teatro Verdi Pordenone