Sul palco del Teatro Biondo è stata rappresentata a marzo la Pazza di Chaillot, di Jean Giraudoux. Un dramma attuale, tra pacifismo ed ecologia, interpretato da Manuela Mandracchia e Giovanni Crippa, per la regia di Franco Però.
La letteratura critica insiste quasi all’unisono sull’attualità di Jean Giradoux e delle sue convinzioni. Intellettuale che, a uno sguardo superficiale, potrebbe sembrare non immune da certo candore di provincia. Eppure, osservando sul palco del Teatro Biondo di Palermo La pazza di Chaillot (regia di Franco Però), si deve riconoscere la consapevolezza con la quale l’autore ha guardato al proprio tempo, anticipando molto – forse troppo – del nostro. Il dramma è stato oggetto di indimenticati allestimenti teatrali (di Strehler, con Sarah Ferrati; di Ronconi, con Annamaria Guarnieri; di Cobelli, con Piera degli Esposti) e riproposizioni cinematografiche (il film con Katharine Hepburn, diretto da Bryan Forbes). Franco Però ne conserva il carattere quasi fiabesco e lo immerge in un’atmosfera da realismo magico. Non viene meno il contatto, la concretezza e l’urgenza dei fatti evocati dalla finzione: l’adattamento di Letizia Russo guarda al presente, ma senza forzature.
Il racconto è sospeso tra fantasia letteraria e dato storico. Tuttavia, il filtro della metafora trasfigura solo in minima parte la sua referenza effettiva. La collina che, nella scena di Domenico Franchi, accoglie lo svolgimento del dramma e lo proietta in una dimensione quasi astratta, è di un verde irreale. Ma l’umanità che calca questo prato è sempre identificabile, riconoscibile per classe e provenienza.
Da una parte vi è un gruppo di malfattori in giacca e cravatta, seduti a uno dei tavolini che poggiano sull’erba: progettano di distruggere la zona di Chaillot per estrarre petrolio dal sottosuolo. Sono il Presidente (Francesco Migliaccio), il Barone (Mauro Malinverno), lo Speculatore (Riccardo Maranzana); a questi si aggiunge un glaciale Prospettore (Giulio Cancelli). Si stagliano nere sul verde, come sagome di ladri miserabili; il loro dialogo è animato da tinte gradevolmente brillanti e movenze caricaturali.
Dall’altra parte, è la congerie di abitanti del quartiere parigino. Insieme, i popolani costituiscono un esercito di stracci variopinti (i costumi sono di Andrea Viotti) che, a differenza degli speculatori, può permettersi almeno il lusso di indossare «sette colori differenti». Attendono fiduciosi l’arrivo di Aurélie (Manuela Mandracchia), presunta contessa e presunta pazza, sulla quale fanno affidamento per scongiurare il disastro preannunciato. Attraversano il palco in tutte le direzioni, con una vivacità delicata.
La figura di Aurélie sembra emergere a stento dalla massa di abiti che indossa. Dapprima non comprende le ragioni dei malfattori: è il Cenciaiolo ad aprirle gli occhi. Nei panni dell’uomo, Giovanni Crippa ha tutto l’atteggiamento di chi, suo malgrado, deve rivelare una verità dolorosa, ma necessaria. Più degli altri i personaggi, ha maggiore esperienza del mondo, ed è pronto ad assumersi le responsabilità che ne derivano. Ma la cameriera Irma (Zoe Pernici) non è meno consapevole: in un breve ma intenso monologo, racconta le costanti vessazioni alle quali è esposta come donna, e per di più di umile estrazione. Ne parla con una schiettezza semplice, disarmante. Altrettanto spontanea è la sua voglia di guardare al futuro: nonostante tutto, è questa l’attitudine della povera gente che la circonda.
Nell’analizzare i fatti, nel proporre soluzioni, la Aurélie di Manuela Mandracchia insegue instancabile un filo logico che sembra offrirsi soltanto a lei, e lo scioglie con l’ovvia sicurezza di chi conosce cose sconosciute a tutti. Nel farlo, ricorre a una chiarezza paradossale, a una gestualità tanto vaga quanto esilarante. Qualcuno sembra afferrarne il senso: Constance (Evelyn Famà) e Gabrielle (Ester Galazzi), le due compagne non meno stravaganti alla quali la protagonista si rivolge per salvare il quartiere. Il finto processo, intentato dai popolani contro un ricco petroliere (che poi è il Cenciaiolo), è la soluzione democratica al problema. La condanna dei malviventi è irrevocabile e, nonostante sia il frutto di una messinscena, è certo più ragionevole delle tante “pagliacciate” che governano la società. La scoperta del piano criminale corrisponde, per Aurélie, a un’imprevista presa di coscienza: gli individui possono agire secondo il proprio personale guadagno, indifferenti alle necessità dei propri simili e dell’ambiente. Le ragioni del profitto sono l’unica insania; se la contessa è folle, lo è per l’instancabile fiducia nutrita nei confronti degli esseri umani.
Al di là delle sue più esteriori bizzarrie, Aurélie rivela gradualmente una personalità complessa: in realtà, i suoi sproloqui sono la forma del sentimento per l’uomo che vive nella sua mente, dove questi si ostina a non lasciarla. La continua esposizione alla malvagità altrui esaurisce le risorse della donna, il cui volto appare sempre più solcato da una stanchezza incredula, da uno sfinimento che la accompagna fino alla conclusione. La sua è una pazzia lucidissima, e corrisponde al tentativo di fuga in un mondo migliore; in quello reale, non è previsto lieto fine. D’altronde, Giraudoux scriveva questo testo mentre la Francia era occupata dai nazisti. Quando il dramma fu rappresentato postumo da Louis Jouvet nel 1945, alla presenza del generale De Gaulle, la storia aveva dato ragione, e ancora ne avrebbe data, alla triste conclusione.
Tiziana Bonsignore
Teatro Biondo, Palermo – Marzo 2022
LA PAZZA DI CHAILLOT
adattamento Letizia Russo
con Manuela Mandracchia, Giovanni Crippa
e con Filippo Borghi, Emanuele Fortunati, Ester Galazzi, Andrea Germani, Mauro Malinverno, Riccardo Maranzana, Francesco Migliaccio, Jacopo Morra, Zoe Pernici, Maria Grazia Plos
regia Franco Però
scene Domenico Franchi
costumi Andrea Viotti
musiche Antonio Di Pofi
produzione Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia / Teatro Stabile di Napoli – Teatro Nazionale