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Il fascista non deve morire? Tiago Rodrigues e il dubbio di Catarina

Recensione. Catarina e a beleza de matar fascistas di Tiago Rodrigues. Visto alla prima nazionale al Teatro Argentina, successivamente in scena al Teatro Storchi di Modena

Foto Filipe Ferreira

Catarina Efigénia Sabino Eufémia era una contadina dell’Alentejo, regione del meridione portoghese. Fu uccisa da un gendarme durante uno sciopero nel maggio del 1954. Aveva ventisei anni e a maggio, nell’Alentejo, doveva essere già molto caldo e la luce del tardo pomeriggio doveva sembrare gialla, come se ci fosse uno di quei filtri hollywoodiani davanti agli occhi. Caldo e fragore degli spari nella luce gialla e intorno la vasta pianura coltivata. Certe storie sembrano nascere dalla coscienza di un narratore-pittore, che qui ha imbracciato la tavolozza calda e commossa di un Pellizza da Volpedo. Catarina Eufémia in portoghese porta il nome della rivoluzione e della lotta femminista, ricordata negli anni da poeti, musicisti, drammaturghi. Qui un celebre cantar del musicista José Alfonso – altra figura cardine dell’identità antifascista portoghese (la radio trasmise una sua canzone per dare il segnale d’avvio delle operazioni della Rivoluzione dei garofani). “Que o teu pranto nao findou \ Quem viu morrer Catarina \ Nao perdoa a quem matou” (Che il tuo pianto non è finito \ chi ha visto morire Catarina \ non perdona chi ha ucciso). La voce di José “Zeca” Alfonso insegue un lamento lontano, che sembra orizzonte. Una voce che echeggia per impedire il perdono.

foto di Jaime Machado

Ecco la luce gialla invadere la sala del Teatro Argentina, come un senso di calore quasi tropicale, un’elettricità sinistra fra il sogno e la bile, che spinge a dubitare di ciò che così nitidamente si offre in scena: una famiglia in villeggiatura, in abiti contadini di fogge femminili indossati da tutte e tutti i presenti in scena. Costumi splendidi e solenni, come di sacerdotesse o moire che fossero convenute a compiere il destino che è sempre tremendo, non fosse altro che per la sua ineluttabilità. Perché uomini e donne indossano quegli abiti femminili? Catarina e a beleza de matar fascistas di Tiago Rodrigues inizia dissodando la mente dello spettatore: un dubbio ferisce la contemplazione della scena, l’aia di una casa in legno costruita intorno ad una quercia da sughero. Sulla tovaglia candida di una lunga mensa è ricamato il motto antifascista nao passarao, le sue lettere scarlatte suggeriscono un’inflessione evangelica. La mensa, dunque, è un altare sacrificale. Al contempo il convivio si offre, come da tradizione, luogo e sorgente dello scambio dialogico. Uno dei personaggi descrive la preparazione di uno stufato di maiale, tagliato a pezzi piccoli “come proiettili”, come lo faceva la nonna Catarina. Anche lui, il cuoco (Pedro Gil), si chiama Catarina. Anche sua sorella, Catarina (Isabel Abreu), e pure i suoi due fratelli, Catarina (Antonio Fonseca) e Catarina (Rui M. Silva). Anche le tre nipoti: Catarina (Marco Mendonça), Catarina (Carolina Passos Sousa), e Catarina (Beatriz Maia).  

Foto Pedro Macedo

Cibarsi e parlare, mangiare parole. La lingua portoghese presta la propria corporeità esuberante alla fine tessitura orale e musicale del dramma, filtrata dall’interpetazione monumentale di un ensemble che illumina la scena ora con la forza viva della fiamma, ora con la malinconica delicatezza di una brace morente. Le Catarine si riuniscono ogni anno nella loro casa di campagna per ricordare la radice comune di quel loro nome, profondo come le fondamenta della casa-albero, appiccicato ai corpi come la terra d’Alentejo ai bordi lunghi delle loro gonne. Loro sono tutte Catarina Eufémia. A partire dal mito, Rodrigues immagina un rivolo rosso propagarsi dalla carne della martire. Una compagna di Catarina decide di vendicarne l’omicidio assassinando il proprio marito: gendarme anch’esso, era presente alla tragedia, dunque complice. Cos’è un fascista, in fondo? Un connivente silenzioso, un debole che non fa uso del proprio diritto-dovere di parola per opporsi all’ingiustizia? La stessa Catarina, in sogno, le aveva chiesto di perpetuare un fiume di vendetta. Così l’ava di questa progenie matriarcale traccia il solco di una stirpe omicida, marchiata nel nome dall’incapacità di emanciparsi da una tradizione che diventa subito sapienza artigiana: uccidere ogni anno un fascista, fino a uscire da sé, vedersi compiere il gesto, vedere decine di uccisioni scandire il tempo, come dispositivi preziosi, e misurarne la grazia, la bellezza. Alla mensa apparecchiata in scena siede infatti, a capotavola, la vittima sacrificale: il fascista di quest’annata (Pedro Gil), il 2028. Futuro distopico prossimo – e che mai come oggi, a valle del ballottaggio in Francia, possiamo dire possibile. L’uomo, in giacca e cravatta resta a lungo in silenzio, appare umile e rassegnato. Non sembra un violento, anzi, la sua posa attrae a sé la pietà che si riserva alla vittima predestinata. L’assenza di parola è la sua opposizione silenziosa? Non sembra nemmeno un fascista. Ma che cos’è un fascista?

foto di Filipe Ferreira

La domanda nidifica in ogni particella del testo, anche nei passaggi apparentemente più spensierati, anche quando zia (zio) e nipote dibattono di veganesimo. “quello che mi urta dei vegani è che non vi basta mangiare ciò che volete, ma accusate il resto del mondo di non mangiare come voi! Come se fosse una lotta…” “è una lotta!”. Catarina ci immette in un edificio processuale ove non è possibile sospendere il giudizio – o meglio il giudizio non è mai veramente emesso, ma si dà in forma di dovere storico e civico, pubblico e privato. La realtà è rappresentata aspramente antitetica, secondo l’impianto classico della tragedia. Il titolo stesso è una domanda: può essere bello uccidere un fascista? Immancabilmente, l’invettiva non poteva che destare lo sdegno acritico di un parlamentare di Fratelli d’Italia, che ha invocato la sospensione della programmazione rivolgendosi al sindaco della capitale (già imitato a Modena da alcuni solerti colleghi di partito). Se mai non fosse chiaro, il pensiero complesso, che procede per paradossi e slittamenti di senso, non può darsi per scontato, e c’è da chiedersi come la situazione possa migliorare in una città, Roma, ove la varietà dell’offerta teatrale va riducendosi di giorno in giorno, assottigliandosi la frequentazione di una forma d’arte che più di ogni altra considera il proprio fruitore come un soggetto politico. Eppure è vero anche che partecipiamo, almeno in parte, almeno concettualmente, all’ebbrezza scandalosa di quella suggestione. Chi di noi non ha provato un fremito violento di fronte all’immagine dell’ennesimo leader populista che sciorina le sue becere retoriche? Chi di noi non ha tratto piacere dalla sequenza di un Hitler crivellato e sfigurato nel monumentale Inglorious basterds di Taratino? Ed ecco ramificarsi il solco della vendetta.

foto di Filipe Ferreira

Ma la linea della sua seduzione non risale il crinale della mera animalità. L’antitesi è reale, lo scandalo deve compiersi pienamente nella rappresentazione, per mettere in moto le componenti, spesso sopite, di un conflitto invece pienamente in essere nell’agone contemporanea. “Se riconosciamo la bellezza di uccidere, facciamo parte della Storia. Noi siamo quelli uccisi per mano dei fascisti mentre lottavamo per un mondo più equo […] Noi siamo quelli perseguitati, gassati, trucidati. Siamo con gli impotenti, gli oppressi, i defraudati. Se riconosciamo la bellezza di uccidere, siamo in contatto col passato e col futuro”. Può dunque la violenza essere un dispositivo accettabile in democrazia, persino necessario di fronte alle fragilità della stessa, che spesso dimostra di non avere “gli strumenti per combattere il fascismo”? È giustificabile la violenza degli oppressi? È proprio la Catarina chiamata a compiere l’esecuzione rituale a inaugurare una nuova storia in seno alla tradizione omicida, lasciandosi abitare dal dubbio, opponendo alla fissità del rituale identitario l’interpretazione personale della responsabilità del gesto. La sua opposizione al dettato familiare trova, da un lato, acme conflittuale nello scambio con la madre e, dall’altro, rispecchiamento e legittimazione nell’interazione col fratello. Personaggio eccentrico, muto alla scena ma dialogante con il pubblico, questi è un corifeo o un narratore onnisciente definito dalla rinuncia simbolica al lessico familiare. Rifugiandosi nell’ascolto musicale per mezzo di vistose cuffie, che dettano i tempi delle interiezioni sonore, la sua presenza indica un altrove, il suo linguaggio trasfigura il nomos della parola, verso un registro poetico che non può sollevare dal dubbio, ma che schiude il passo ad una visione trasversale. Nella voce delle rondini che Catarina-figlio imita con Catarina-padre è il ricordo di un cielo remoto, immagine di un dio ignaro o indifferente alla storia tutta umana che qui si compie.  

Andrea Zangari

Aprile 2022, Teatro Argentina, Roma

prossime date in calendario tournée:

28.29 aprile, Modena, Teatro Storchi

Catarina e a beleza de matar fascistas
Catarina e la bellezza d’ammazzar fascisti

testo e regia Tiago Rodrigues
con António Fonseca, Beatriz Maia, Carolina Passos Sousa, Isabel Abreu, Marco Mendonça, Pedro Gil, Romeu Costa, Rui M. Silva
spazio scenico F. Ribeiro
costumi José António Tenente
luci Nuno Meira
design del suono e musica originale Pedro Costa
direzione del coro, arrangiamento vocaleJoão Henriques
voce fuoricampo Cláudio de Castro, Nadezhda Bocharova, Paula Mora, Pedro Moldão
consulenti alla coreografia Sofia Dias, Vítor Roriz
consulente tecnico David Chan Cordeiro
assistente alla regia Margarida Bak Gordon
collaborazione artistica Magda Bizarro
direttore di scena Carlos Freitas
suggeritrice Cristina Vidal
traduttore Vincenzo Arsillo
sovratitoli Patricia Pimentel
produzione esecutiva Rita Forjaz, Pedro Pestana
produzione Teatro Nacional D. Maria II (Portogallo)
co-produzione Wiener Festwochen, ERT / Teatro Nazionale, ThéâtredelaCité – CDN Toulouse Occitanie & Théâtre Garonne Scène européenne Toulouse, Festival d’Automne à Paris & Théâtre des Bouffes du Nord, Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Comédie de Caen, Théâtre de Liège, Maison de la Culture d’Amiens, BIT Teatergarasjen (Bergen), Le Trident – Scène-nationale de Cherbourg-en-Cotentin, Teatre Lliure (Barcelona), Centro Cultural Vila Flor (Guimarães), O Espaço do Tempo (Montemor-o-Novo).

sostegno Almeida Garrett Wines, Cano Amarelo, Culturgest, Zouri Shoes
si ringraziano Mariana Gomes, Rui Pina Coelho, Sara Barros Leitão
Lo spettacolo include brani di Hania Rani (Biesy et Now, Run), Joanna Brouk (The Nymph Rising, Calling the Sailor), Laurel Halo (Rome Theme III et Hyphae) e Rosalía (De Plata)

foto di locandina Pedro Macedo
foto di scena Filipe Ferreira

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Andrea Zangari
Andrea Zangari
Architetto, laureato presso lo IUAV di Venezia, specializzato in restauro. Ha scritto su riviste di settore approfondendo il tema degli spazi della memoria, e della riconversione di edifici religiosi dismessi in Europa. Si avvicina al teatro attraverso laboratori di recitazione, muovendosi poi verso la scrittura critica con la frequentazione dei laboratori condotti da Andrea Pocosgnich e Francesca Pierri presso il festival Castellinaria prima e Short Theatre poi, nel 2018. Ha collaborato con Scene Contemporanee, ed attualmente scrive anche su Paneacquaculture. Inizia la sua collaborazione con Teatro e Critica a fine 2019, osservando la realtà teatrale fra Emilia e Romagna.

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