Recensione. Giorni felici di Samuel Beckett, con la regia di Massimiliano Civica e l’interpretazione di Monica Demuru e Roberto Abbiati è andato in scena al Teatro Metastasio. Prossime date a Rosignano e Grosseto
C’è un sipario tagliafuoco tra la platea e la scena, mentre suona una sveglia, si alza in tutta la sua pesantezza, come a difendere una reliquia, un mondo o un essere prezioso. Poi ritroviamo la montagna e una donna che, come sempre, vi è immersa. È lei il reperto di un teatro che non esiste più? Esemplare da proteggere e allo stesso tempo da mettere in mostra come un mistero antico, sotto una cornice di fari ben visibili e in una scena inquadrata da una geometria rettangolare che focalizza lo spazio dello sguardo perché non ci sia altro da osservare, e perché tutto il fuoco sia su di lei, proprio come la devozione del regista Massimiliano Civica per gli attori e le attrici con cui decide di collaborare.
Ancora una volta il direttore del Teatro Metastasio di Prato dà prova dell’intento per cui il regista è tramite tra il testo e l’attore: aiutare l’interprete a dare il meglio di sé, come fosse una sorta di allenatore. D’altronde questa visione che qualche anno fa (nelle note di regia di Un quaderno per l’inverno) venne indicata come “la sparizione del regista” si ritrova poi nella gestione di un teatro pubblico inteso come luogo cittadino aperto al teatro popolare d’arte.
Questa postura – lontana dunque da quella dell’artista demiurgo che ha segnato la storia delle avanguardie novecentesche – per Civica è attuabile soltanto con attori e attrici in grado di inventare, interpreti in possesso di un senso del teatro per il quale possono diventare (come affermava in un’intervista qualche anno fa) “registi della loro performance”. Ecco che in questo caso l’attrice che può dimostrare l’autonomia richiesta è Monica Demuru, è suo il corpo che emerge dal promontorio, quel monticello che per Beckett doveva essere una sorta di collinetta nell’erba inaridita. Nell’immagine scenica di Roberto Abbiati il paesaggio è lunare, pochissimi i ciuffi d’erba a colorare la secca terra segnata da dure zolle che dimostrano una siccità ormai irrimediabile; dietro, un fondale grigio nel quale il deserto sparisce in lontananza, come risucchiato da una nebbia ancestrale.
Qui si muove – per quello che la pièce le concede – l’attrice: Monica Demuru (vista negli ultimi tempi con Deflorian Tagliarini e protagonista del dispositivo di l’Encyclopédie de la parole, Jukebox), dà prova di un talento smisurato, ma la tecnica è evidente all’interno di un discorso sulla recitazione proiettata sempre verso sincerità e verità; ecco il piacere di quella leggerissima coloritura – come solo le grandi possono permettersi – in cui certe consonanti di tanto in tanto scivolano verso il romanesco. «Winnie è una moglie interrata, bloccata in una montagnola di terra, ma nonostante la difficoltà estrema della sua esistenza la gioia di vivere, la pulsione alla vita non cessano mai» così Demuru parla del celebre personaggio beckettiano, estremamente umano, personaggio vivo, tutt’altro che simbolico. Il celebre allestimento di Bob Wilson di qualche anno fa cominciava con un vento gelido che faceva muovere un velatino bianco, un frastuono di tempesta lasciava poi lo spazio ai pastelli e alle silhouette tipiche dell’artista americano: Adriana Asti, con un trucco quasi da cinema espressionista, si ergeva su una montagna visibile solo come controluce, e cominciava con una partitura di movimenti stilizzati e una recitazione straordinaria tra immediatezza e artificio. L’anno prima, nel 2008, andava in scena l’interpretazione di Anna Marchesini che, coronando un sogno d’Accademia, ne curava perfino la regia, anche in quel caso tantissima tecnica, mimica oltre che vocale. Negli ultimi decenni poi il ruolo fu anche di Giulia Lazzarini e Nicoletta Braschi.
Demuru e Civica riportano il testo sulla terra, nella densità quotidiana dei nostri soffocanti giorni, nel calore di quella voce piena di vita e di una forza d’animo dignitosa anche nel dolore: per il regista la montagna non è simbolo di qualcosa di astratto ma proprio della fatica dello stare al mondo, di quella incapacità di movimento che spesso ci blocca al punto di partenza. Ecco la necessità di scoprire il bisogno di aver qualcuno vicino, il prendersi cura dell’altro, ecco lo splendido Willie di Roberto Abbiati: un rivolo di sangue gli corre sulla schiena, il viso immobile dietro i baffi e poi quel tentativo di arrampicarsi sulla grande montagna. Le proporzioni sono implacabili, Demuru/Winnie dovrà essere liberata dai tecnici alla fine dello spettacolo e nel secondo atto, come da copione, rimarrà solo la testa ad uscire dal promontorio; eppure niente piagnistei, si resiste, si lotta di fronte all’ignoto. La pistola è lontana, in Beckett non ci si può uccidere, ma si soffre per l’eternità, in questo caso si soffre in due, a dividere l’amore c’è una montagna: «Prova di nuovo, Willie, cercherò di tenerti allegro, intanto. (Pausa). Non guardarmi così! (Pausa. Con veemenza) Non guardarmi così! (Pausa. Voce bassa) Sei impazzito, Willie?». Perché è in quel tentativo, talmente fallimentare da essere atroce, di toccare la donna amata che qualcosa appare negli occhi dell’uomo, forse proprio l’ultimo tentativo di condividere o di arrendersi, prima che un valzer riempia il tempo dei secoli passati e presenti, nel deserto degli ultimi esseri umani.
Andrea Pocosgnich
Marzo 2022, Teatro Metastasio di Prato
Prossime date calendario tournée
07.04 / 2022 ROSIGNANO, Teatro Solvay
08.04 / 2022 GROSSETO, Teatro degli Industri
Giorni felici
di Samuel Beckett
traduzione di Carlo Fruttero
uno spettacolo di Massimiliano Civica
con Roberto Abbiati e Monica Demuru
scene Roberto Abbiati
costumi Daniela Salernitano
luci Gianni Staropoli
produzione Teatro Metastasio di Prato
durata 1h 30′ senza intervallo