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Corpi in attesa. L’umanità in transito di Koohestani

Recensione. Alla Triennale Teatro di Milano, Amir Reza Koohestani presenta l’opera teatrale In Transit, un intreccio della propria vicenda autobiografica e di quella che la scrittrice Anna Seghers raccontò nell’omonimo libro. Nell’ambito di FOG Performing Arts Festival

Foto Magali Dougados

La waiting area è la zona di un passaggio doloroso e di un’attesa imposta; in essa i corpi si sospendono, le vite si fermano, le anime irrequiete si spengono, perché «quando sei un rifugiato sei morto anche se sopravvivi». E per sopravvivere c’è l’attesa di un visto, dove si condensa la viscerale speranza di una possibilità che si anela con lo spirito ma che scivola inesorabilmente via dalle dita. È in questo spazio di attraversamento all’interno degli aeroporti che si presenta lo spettro del proprio passato, un bagaglio che sul palco vediamo in una posizione marginale, isolato e abbandonato. È il fardello di un’umanità in transito che non ha colpe se non quella di aver definito dei confini per rimarcare la differenza tra identità e alterità, in una prospettiva dominata dal possesso che, d’altra parte, non fa che escludere ed eliminare i gesti di condivisione.

Foto Magali Dougados

È in questo spazio che alla Triennale Teatro di Milano prende forma lo spettacolo del regista iraniano Amir Reza Koohestani. Sul palco viene riprodotto un non-luogo (dal francese non-lieu, coniato da Marc Augé), dove i personaggi transitano senza entrare in una compiuta relazione tra loro. Sono dei passanti, perché nessuno è destinato a rimanerci per sempre ma c’è chi vivo non ne uscirà mai. È uno spazio di nessuno, anonimo, abitato dal flusso indeterminato di esuli che cercano invano una via per sfuggire da ciò che li perseguita. Nell’elaborare l’accurata scenografia, Eric Soyer sceglie dunque dei pannelli di vetro trasparente incorniciati che scorrono sul palco, si aprono e si chiudono, formando una griglia dalla struttura tanto centripeta quanto centrifuga che, nei riquadri creatisi, manifesta una perdita del centro in virtù delle ripetute e mutevoli assialità. Un espediente che evoca nella propria essenzialità monocromatica, l’asettico smarrimento di chi, una volta varcata la soglia, perde ogni punto di riferimento e convive con l’isolamento della propria emarginazione. Talvolta, delle teche geometriche irrompono silenziosamente nello spazio, transitano anche loro, metafore simboliche di una condizione errante che si tramuta in chiusura, soffocamento e prigionia. In ognuna di esse ci sono due figure, incubate come reliquie in tutta la loro solitudine.

Foto Magali Dougados

Sullo sfondo di queste architetture lineari, ad essere proiettati sono delle video-riprese di Phillip Hohenwarter, in primi piani vincolanti, del volto dei personaggi sul palco, in uno sdoppiamento visivo che ricalca quello drammaturgico narrativo. Nella sua totalizzante espressione visiva, è quindi la forza e l’autorità della storia di ognuno che si impone con brutalità. Si costruiscono così le scene e i dialoghi dei diversi protagonisti, interpretati dalle stesse quattro attrici. Le loro parole hanno quell’automatismo meccanico, quella glaciale acrimonia, quella malinconica lontananza di un linguaggio che si nutre dell’assurdità di una condizione, simbolo di molte altre che vengono celate e taciute. Una scelta che sembra voler utilizzare l’indifferenza e la distanza come arma con cui scalfire gli animi di un pubblico testimone dell’irrazionale paradosso dei severi controlli, regolati da infinite procedure burocratiche, che servono per ottenere il permesso di soggiorno. Viene quindi da chiedersi, in questo contesto, come può un uomo porre speranze sulla destinazione del proprio viaggio?

La trama dà il segno del proprio inizio quando ad essere rappresentato è quel momento convulso in cui tutti fuggono. A destra, sola e immobile, c’è una valigia grigia come il resto della scenografia. È quella di uno scrittore suicida che ha impacchettato la propria storia. È quella dell’uomo che la ritrova, fingendosi chi non è e non potrà mai essere; quella di un regista, (alterego di Koohestani) che, in partenza per il Cile, viene fermato per un visto di soggiorno scaduto e incontra un avvocato  pro bono. È quella di una donna che, per lasciare la Russia, scende a compromessi ma viene trattenuta dalle autorità, reclusa ed interrogata. In questo spazio a metà tra purgatorio e inferno, un limbo asettico dalle tonalità spente e grigie, assistiamo all’irragionevolezza di un’attesa logorante. Perché la reclusione senza motivi reali spinge gli uomini al delirio e ad atti disperati.

Foto Magali Dougados

Nell’acuto adattamento teatrale, Koohestani parte sì da una vicenda autobiografica (il 29 dicembre 2018 viene arrestato e detenuto dalla polizia di frontiera di Monaco per un visto scaduto) ma la intreccia con quella personale della scrittrice tedesca ed ebrea Anna Seghers, che nel suo romanzo Transito, pubblicato nel 1944, racconta la Marsiglia che lei stessa ha vissuto, quella del 1940, sotto il controllo del regime nazista. Il porto cittadino era diventato, così, la zona di transito, l’unica possibilità di scappare per gli esuli di tutta Europa. Nella tessitura drammaturgica delle due narrazioni, che si sviluppano per capitoli nell’opera teatrale, il regista rievoca quindi due temporalità, due passati, uno remoto e uno prossimo, ne riduce la distanza, ne aumenta l’impellenza, per offrire alla visione del pubblico la denuncia di quella che è una condizione inevitabilmente presente. Il suo è un arguto gioco di specchi riflessi e riflettenti, in cui riesce a intersecare elementi di finzione ed elementi della realtà, sfera pubblica e privata, arricchendo la rappresentazione che diviene al tempo stesso un terreno fortemente simbolico.

L’atmosfera tesa, agitata, di incredulità è completata dal plurilinguismo della recitazione (traduzione a cura di Massoumeh Lahidji) che talvolta provoca disagio e incomprensioni, innescate da una cultura dominante che pretende di imporsi: portoghese, francese, inglese e farsi sono le lingue utilizzate per comunicare quella che è una condizione universale, che il mondo ha vissuto durante la Seconda guerra mondiale, ma che continua a perpetrarsi nelle chiusure delle frontiere, nella demarcazione dei confini, nella costruzione dei muri. La fine sembrava vicina – ci dicono le attrici sul palco – ma forse, non era davvero così.

Andrea Gardenghi

Aprile, Triennale di Milano, FOG Performing Arts Festival

In Transit

adattamento e testi Amir Reza Koohestani, Keyvan Sarresteh
regia Amir Reza Koohestani
traduzione Massoumeh Lahidji
scenografia, luci Eric Soyer
video Phillip Hohenwarter
suono Benjamin Vicq
costumi Marie Artamonoff
assistente alla regia Isabela De Moraes Evangelista
realizzazione scenografia Workshops of Comédie de Genève
con Danaé Dario, Agathe Lecomte, Khazar Masoumi, Mahin Sadri
produzione Comédie de Genève
coproduzione Odéon – Théâtre de l’Europe, Théâtre national de Bretagne, CSS – Teatro stabile di innovazione del Friuli Venezia Giulia, Fondazione Teatro Metastasio di Prato, Mehr Theatre Group, FOG Triennale Milano Performing Arts

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Andrea Gardenghi
Andrea Gardenghi
Andrea Gardenghi, nata in Veneto nel 1999, è laureata all’Università Ca’ Foscari di Venezia in Conservazione e Gestione dei Beni e delle Attività Culturali. Prosegue i suoi studi a Milano specializzandosi al biennio di Visual Cultures e Pratiche Curatoriali dell’Accademia di Brera. Dopo aver seguito nel 2020 il corso di giornalismo culturale tenuto dalla Giulio Perrone Editore, inizia il suo percorso nella critica teatrale. Collabora con la rivista online Teatro e Critica da gennaio 2021.

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