Conversazione con a Mariano Dammacco (con la partecipazione di Serena Balivo) dal Teatro Area Nord di Napoli. Sul fare teatro come atto di affermazione dell’anima, diventare tramite di una relazione complementare. In corsivo le riflessioni di Valentina V. Mancini.
Attore, autore, regista, Mariano Dammacco ha collaborato, con numerosi artisti e compagnie della scena italiana (ma il curriculum segna anche un’esperienza con La fura dels baus). I suoi testi, dagli anni Novanta, sono stati prodotti da soggetti come il Teatro Kismet OperA di Bari, il Teatro Koreja di Lecce. Con la Piccola Compagnia Dammacco (di cui fanno parte Stella Monesi alla tecnica e l’attrice Serena Balivo perno degli spettacoli – e dal 2019 Erica Galante, anch’essa attrice) ha firmato, dal 2012, L’ultima notte di Antonio, L’inferno e la fanciulla, Esilio, La buona educazione; con l’ultimo Spezzato è il cuore della bellezza ha vinto il Premio Ubu nel 2021 come “Migliore nuovo testo italiano o scrittura drammaturgica”.
Questo discontinuo parlare di teatro potrebbe essere un lavoro di montaggio cinematografico, uno sforzo di immaginazione con movimenti oscillatori tra l’estrema posizione periferica del Teatro Area Nord di Napoli, e l’assolato centro storico della città. Terminato Spezzato è il cuore della bellezza, Mariano Dammacco mi aspetta nella sala vuota.
Come è andata questa serata, è stato contento della reazione del pubblico?
Come hai visto ci sono stati un paio di applausi in scena aperta e delle risate. Lo spettacolo coglie piacevolmente di sorpresa. Dopo un primo momento di presentazione dei due personaggi, inizia una sorta di equilibrismo tra qualcosa che strappa un sorriso e qualcosa che può più intimamente toccarci.
[Da quella serata in periferia si passa al soleggiato terrazzo all’Ex Asilo Filangieri: per vezzo mi accingo alla conversazione avendo per sottofondo le voci di una compagnia che prova in teatro. Dammacco è diventato Mariano, dal lei siamo passati al tu e nel corso della conversazione telefonica osservo un gruppo di adolescenti relazionarsi tra loro sotto i primi calori primaverili] Da pedagogo teatrale a drammaturgo: ti ritrovi nella posizione curiosa di essere allievo di te stesso?
Sì, effettivamente lo sono. Ho studiato come l’arte della drammaturgia ha la capacità di accogliere in sé le storie che restituisce. Consapevole di tutto quello che ho appreso in ormai trent’anni, vivo un rapporto d’amore con la disciplina dello scrivere: la pagina bianca è l’oggetto su cui riverso lo studio della regola. Lo stesso rapporto d’amore è con lo spettatore, a cui penso sempre: seguendo la regola, tengo lo spettatore con me. Un passo dietro di me.
Quindi il tuo è un teatro di relazione?
Assolutamente. Il teatro è sempre relazione. Fare comunità è fare teatro. Il lavoro della compagnia è costruito sul dialogo. Dopo aver preso i miei primi appunti, e riempito un certo numero di pagine, sottopongo tutto a Serena (Balivo ndr). Dai miei appunti, lei estrae e crea una figura che studio; da quella figura ricomincio a scrivere. Il “lavoro della preparazione dello spettacolo”, come dice Peter Brook, che considero mio maestro, procede con questo andamento dialogico fino al debutto, per seguire poi le fila delle relazioni che Serena instaura col pubblico nelle prime repliche. Si lavora ancora sui segnali di quelle relazioni per approdare a una forma stabile.
[Al Teatro Area Nord dopo lo spettacolo avevo appena confessato a Serena Balivo di essere stata entrambe le donne da lei brillantemente interpretate; ci raggiunge sul palco] Nonostante le risate, che pure hanno un loro valore, queste due donne hanno un portato di tragicità non indifferente. Com’è essere entrambe?
SB: Si offre la presenza di un unico cervello femminile, di un unico organismo che vive nello stesso momento due possibilità di vissuto. A livello attoriale, sicuramente divertente ma faticoso; da donna, sento di poter creare un rapporto più intimo con lo spettatore che è spinto a percepire qualcosa di più rispetto a un conflitto tra due figure femminili.
Penso, e forse siamo d’accordo, che qui non si parla solo d’amore. C’è di più. Ci sono tutte le sfumature della relazione con l’altro. Non ci si ama sempre; qualche volta è permesso odiarsi.
MD: Hai ragione, ed è proprio in quei guasti della relazione che parte la mia ricerca. Qualcuno scriveva che l’anima non esiste, e quella che noi chiamiamo anima non è altro che la relazione con l’altro.
[Ancora una volta con la faccia rivolta al sole e il telefono caldo contro l’orecchio; i ragazzi, poco distanti da me, stanno inconsapevolmente mettendo in scena violenti e infantili tentativi di seduzione] Ricordi quando mi hai detto che non siamo altro che relazione? E quanto siano fragili queste relazioni, a prescindere dall’emergenza pandemica? La tua scrittura come elabora le fragilità?
Gerardo Guccini, un preziosissimo compagno di viaggio e lavoro, nell’apparato critico ai miei testi ha individuato l’elaborazione di personaggi estremi. Il loro essere talmente evidenti e divertenti, il loro vivere così spinto, li rende completamente leggibili per chiunque. Come compagnia siamo pronti ad affrontare la relazione in forma strettamente dialogica per analizzare approfonditamente le storture dei rapporti. Il dialogo mi consente di caricare i miei personaggi estremi di sfumature complementari del disagio.
Pensi possa essere consolatorio ridere dei dolori?
Non è consolatorio, ma felicitante. Ricordi le risate del pubblico quando ci siamo conosciuti? Bene, quel pubblico me lo immagino galvanizzato dalla risata; me lo immagino arricchito, esattamente come lo sono io ogni volta, di mezzi nuovi per osservare e valutare la propria condizione.
[Sorrido ricordando una piccola spettatrice di circa sette anni che dopo lo spettacolo, mentre ero in attesa di poter parlare con Mariano, effettivamente galvanizzata da chissà quale pensiero d’amore, mi aveva scelto per attirare su di sé le mie attenzioni facendomi oggetto delle sue talmente incoerenti e tenere] Sembra tu mi abbia dettato una lettera d’amore. Come vorresti che si concludesse?
Sono felice tu senta questo, perché è davvero un continuo intento d’amore il nostro fare teatro. È un impegno fatto di costanza, consapevolezza e disciplina. Un amore che è un percorso collettivo, un’assemblea o una danza. E siamo tutti coinvolti.
Valentina V. Mancini
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