Un dittico quello del Teatro Due di Parma: Bestie incredule di Simone Corso e Nicoletta Robello e Il domatore, di e con Vittorio Franceschi. Per riflettere su mondi teatrali e non, a confronto. Recensione
È il novembre 2020 quando, in Danimarca, il governo sancisce quello che consiste in un vero e proprio sterminio dei visoni da allevamento, considerati potenziale veicolo di trasmissione del Covid-19. Una misura presa di fretta e sconsiderata, che causerà uno scandalo di portata internazionale e scene sconcertanti come quelle di centinaia di visoni ammassati e seppelliti grossolanamente, o quella del premier danese in lacrime per l’abbattimento delle inestimabili bestie. È il 2083 quando a Susanne torna alla memoria la storia di quelle Bestie incredule e innocenti: un vecchio fatto di cronaca, quasi marginale nella più complessa e dolorosa narrazione di quel 2020, ma che coinvolse profondamente la famiglia di Susanne e il suo destino, che lei ha sentito raccontare e che ora racconta a noi.
Un testo denso e complesso quello del giovane Simone Corso, vincitore del bando Mezz’ore d’autore 2021 di Fondazione Teatro Due, che prende le mosse da quello strano fatto di cronaca, passato quasi inosservato durante il delirio mediatico che ha segnato gli ultimi due anni, per tentare di narrare la pandemia da un punto di vista parallelo e inedito. Un testo spesso prepotentemente narrativo nello scarto tra futuro e passato, che pure, nonostante i passaggi più ingombranti, scorre nella recitazione sapiente e disinvolta del gruppo di attori; e che la regia di Nicoletta Robello brillantemente risolve in una delicata architettura di spazi, di incontri e allontanamenti e con l’inserimento di una figura straniante e ironica, un goffo grizzly che accompagna Susanne nella narrazione con una parte silenziosa e mimica, quasi clownesca. Le scene solide e geometriche di Eleonora Scarponi, i costumi invernali curati nel più piccolo dettaglio da Emanuela Dall’Aglio, le luci cangianti e soffuse di Luca Bronzo conferiscono a questa scena una tonalità sulle sfumature del turchese, una tonalità dalle intenzioni fredde, inizialmente quasi scostanti. L’unico elemento che compensa cromaticamente questa scena è Susanne, avvolta in un elegante abito rosa e rosso, che riesce a comunicarci l’esito felice di questa storia, e una speranza nel tempo futuro.
È il novembre 2017 quando il parlamento italiano approva la legge per il “graduale superamento” dell’utilizzo di animali nel circo e una giovane giornalista incontra lo storico attore Vittorio Franceschi, Il domatore di leoni – l’ultimo, ormai. Un’intervista sul filo del rasoio in un tendone da circo decadente, che riporta alla mente l’atmosfera tiepida e un po’ selvaggia del circo di passaggio in cui si andava da bambini e in cui, nemmeno a dirlo, gli animali erano senz’altro la prima attrazione. A dominare questo spazio pieno di cianfrusaglie e oggetti insoliti è il colore rosso, nella bella scenografia e nel costume del protagonista ideati da Mattia Soltanto, che di questo spettacolo firma anche la regia. Un fatto di cronaca quasi marginale. Un espediente per tornare a parlare di leoni e di uomini, in ogni caso di bestie; e per aprire una riflessione molto più ampia, senza fondo, su un mondo che in questo spettacolo viene dichiarato in via d’estinzione: quello del teatro. Il testo di Franceschi si struttura quasi come un monologo, coadiuvato e interrotto, di tanto in tanto, dalla figura dell’intraprendente, supponente e intransigente giornalista (Chiara Degani). Da un inizio promettente incentrato sulla metafora del circo, il testo si fa via via sempre più articolato, i temi iniziano a sovrapporsi e a confondersi. C’è proprio tutto in questo piccolo tendone, nella gabbia dei leoni: la vita di un attore, la finta vita di un attore, un gioco pericoloso e serio, l’amore e l’incapacità di amare per davvero. Soltanto verso la fine dello spettacolo il monologo tenta di diventare un duetto, mentre i due personaggi si aggirano in una scenografia inerte.
In questi due spettacoli il testo assume una rinnovata e inattesa centralità: essi condividono una componente testuale corposa, quasi esagerata, con una qualità stranamente narrativa e statica, accentuata dalla difficoltà nel passaggio tra passato, presente e futuro. La componente narrativa e riflessiva limita fortemente lo sviluppo drammaturgico dell’azione: mentre Susanne ci racconta la sua storia, i personaggi della sua famiglia si muovono fuori e dentro le pareti della casa, viaggiano nel rigido inverno danese, ma questo peregrinare può essere reso soltanto dalla sapienza di una struttura registica. Il domatore e la sua intervistatrice, invece, non vanno proprio da nessuna parte: il loro viaggio nel tempo è un viaggio a bordo di parole e ricordi che cercano di materializzarsi in un testo dalla qualità prepotentemente poetica, che classicamente alterna passaggi lirici e trasognati a cadute repentine verso il basso, verso la rena del tendone. Una carica politica uguale e opposta: da una parte, il tentativo rischioso di distaccarsi dal proprio presente per poterlo raccontare con lucidità. Dall’altra, la denuncia di una scomparsa e di una morte lenta. Perché il circo, lo spirito del circo, sta scomparendo, e questo è sotto gli occhi di tutti. E insieme a lui, ci dice Franceschi dall’alto di una carriera mirabile e romanzesca, anche il teatro, il suo teatro, sta scomparendo. «Perché il teatro di oggi non ti piace e vuoi lasciare qualche prova a tua discolpa», scrive Franceschi in prefazione al testo. E lo vediamo, quel teatro che scompare e che ancora, di tanto in tanto, sa scaldare il cuore: un teatro di cianfrusaglie sparse in una scenografia realistica e sfarzosa; un teatro del testo che è poesia e non azione, passato e non presente; un teatro dei grandi attori che quella poesia sanno recitarla senza sforzi, con tutta la naturalezza e la sapienza del loro mestiere, che sanno farla sembrare una cosa semplice, come il domatore con il leone. Quegli attori con cui è difficile competere, in scena, a cui è difficile tenere testa. Dove la regia è un tocco finale, una cornice estetica, un suggerimento e una correzione qua e là.
Forse però il teatro di oggi che a Franceschi non piace più è anche il teatro di Simone Corso e Nicoletta Robello, un teatro della protesta e della denuncia, un teatro immerso nel presente fino al collo, che talvolta fatica a divincolarsi ma il cui sforzo ci sembra necessario. Un teatro diretto, senza troppe metafore, che parla direttamente al pubblico, dove il ruolo del regista è strutturale e serve a dare alle parole un peso e un volto e uno spazio reale in cui agire. Prima ancora che due spettacoli con le loro tematiche e linguaggi, in scena vediamo due mondi che si confrontano e si scontrano: un passaggio di testimone inevitabile, talvolta necessariamente doloroso, che ci indica gli errori e le strade, le prospettive possibili di questo nostro teatro.
Angela Forti
Teatro Due, Parma – Febbraio e marzo 2022
BESTIE INCREDULE
di Simone Corso
con Cristina Cattellani, Paola De Crescenzo, Davide Gagliardini,
Massimiliano Sbarsi, Nanni Tormen, Pavel Zelinskiy
luci Luca Bronzo
costumi Emanuela Dall’Aglio
scene Eleonora Scarponi
musiche Arturo Annecchino
regista assistente Laura Cleri
regia Nicoletta Robello
produzione Fondazione Teatro Due, Nutrimenti Terrestri
IL DOMATORE
di e con Vittorio Franceschi
e con Chiara Degani
musica, sound design Guido Sodo
light design Luca Bronzo
regia, scene, costumi Matteo Soltanto
produzione Fondazione Teatro Due, CTB Centro Teatrale Bresciano