Recensione. In prima nazionale, con Lino Guanciale e Sara Putignano, al Piccolo Teatro Grassi (in replica fino al 5 maggio 2022), Zoo, del regista e drammaturgo franco-uruguaiano Sergio Blanco. Un’opera che esplora le dinamiche relazionali tra animale ed umano per riscoprire un sentimento unico come l’amore.
«La specie umana è meravigliosa: ci hanno dato la bocca per mordere e abbiamo imparato a baciare». È quello che ci confessa Lino Guanciale sul palco del Piccolo Teatro Grassi, dopo aver rievocato un ricordo intimo sul figlio. Accanto a lui, microfono allineato, c’è Sara Putignano, anche lei si lascia trasportare dal racconto di un episodio personale. Sono aneddoti di vite vissute, di persone, che si ritrovano ad essere degli attori su un palco e cominciano a tirare le fila dello spettacolo, presentandone la trama, il regista e i personaggi che interpreteranno. Sono parole dirette che ci fanno capire che quella sera, a teatro, la quarta parete non è – e non sarà mai – alzata. Che lo spettacolo che andremo a vedere non sarà mai solamente visione passiva ma coinvolgimento emotivo, stimolo estetico, relazione collettiva. Che in scena ci sarà la meraviglia, quella che nasce dalla solitudine, dalla malinconia, di un mondo, di una donna, di un uomo, di un gorilla, ma le trascende al tempo stesso.
Sergio Blanco firma la regia di Zoo (con la traduzione di Angelo Savelli) e mette in scena quella che oramai è diventata la cifra stilistica del suo fare teatro: l’autofinzione. Un neologismo, coniato nel 1977 da Serge Doubrovsky, che è per lui espediente narrativo-drammaturgico e si nutre tanto dei fatti reali quanto di quelli fittizi, di elementi autobiografici e invenzione creativa, per creare un universo parallelo in cui tutto diviene possibile. Il pubblico prende così parte ad una verità che viene offerta solo per metà: il resto è finzione, ma di quelle poetiche, che sanno rendere l’illusione stupefacente bellezza e l’artificio autentica sensibilità. È un modello di ut pictura poesis rovesciato che assume come termine di paragone non più la pittura ma il teatro, un medium che si rivela multiforme ed estremamente variegato non solo nei molteplici riferimenti culturali che spaziano dalla musica alla letteratura, dalla cinematografia alla scienza, ma anche nei dispositivi: alla recitazione si alternano il canto performativo e le proiezioni video, in una relazione dinamica che diviene il meccanismo stesso di svelamento dei sentimenti dei personaggi.
Lino Guanciale è Sergio Blanco, suona la chitarra punzecchiandola per poi lasciarsi andare alla melodia, trasportato in quell’universo da sognatore che sembra essere il suo habitat naturale. Inguaribile romantico, con qualche ossessione per la superficie lunare e la misteriosa e tracotante figura di Edda Ciano che abita i suoi pensieri di scrittore, decide di intraprendere un viaggio nell’incontro con un gorilla, Tandzo. Tutte le mattine si reca allo zoo di Milano, entra nel laboratorio diretto dalla Dottoressa Rozental (Sara Putignano), si rapporta col primate e prende appunti. Si stabiliscono così delle dinamiche relazionali per cui la dottoressa sembra provare solo scetticismo e distacco emotivo nei confronti di Sergio e della sua ricerca. Acuta osservatrice dei protocolli da rispettare, nonostante la diffidenza non riesce a sottrarsi al suo ruolo di ricercatrice, e decide di perseguire con autentica veracità ogni momento degli incontri con la macchina da presa. Sulle pareti di scena e di fondo ne vediamo le proiezioni, inquadrature in grado di amplificare i primi piani del gorilla, focalizzandosi sulle sue reazioni ai fertili stimoli del regista. Sergio gli legge libri di Stendhal, gli fa ascoltare Schubert, gli fa ammirare Botticelli. I discorsi sulla bellezza della poesia diventano terreno fertile e strumento imprescindibile di comunicazione con un animale che non può parlare la medesima lingua ma che, forse, può provare i medesimi sentimenti. Dopotutto è la stessa dottoressa che enuncia con precisione scientifica la strabiliante somiglianza con l’essere umano, una compatibilità che riesce a raggiungere persino il 98% statistico.
A costituire la tessitura drammaturgica sono quattro fasi (con introduzione ed epilogo) che vogliono rappresentare in scena l’evoluzione del processo amoroso: conoscenza, avvicinamento, incontro, abbandono. Ogni fase è scandita da una trasformazione non solo del rapporto tra l’alter ego del regista e il gorilla, ma anche delle loro reciproche relazioni con la dottoressa, tanto gelida e professionale quanto sensibile e desiderosa di calore e affetto, svelandone i segreti e i dolori. I personaggi escono quindi da sé stessi, diventano esseri umani veri, tornano attori, si estendono fino al pubblico nel rievocare il dolore universale della perdita di un figlio, dell’annientamento di un gruppo, della malinconia della solitudine.
Le suggestive luci (Max Mugnai), ora fredde nel rievocare l’ambiente asettico e severo del laboratorio sperimentale, ora calde nella scena del lutto per richiamare i rapporti profondi che vi si sono instaurati, dipingono le piastrelle cementificate della scenografia di Monica Boromello, composta inoltre da due appendiabiti, due scrivanie con gli oggetti di lavoro dei due ricercatori e una teca di vetro apribile, recinzione dello stesso Tandzo, interpretato con estrema delicatezza e verosimiglianza da Lorenzo Grilli. Del gorilla costruisce una presenza imponente e magnetica, manifestando un’attrazione di nostalgica seduzione negli occhi che sembrano umani. È un’umanità animale, dunque, ed è il cuore stesso dello spettacolo, un percorso che viene intrapreso per andare oltre sé stessi ed incontrare l’altro. Un viaggio che si stende sopra le musiche (Wonderful Life, Animal Instinct, Take on me…) che parlano di lacrime versate, le stesse che intravediamo nella commozione del gorilla e nella poesia che si cela dentro ogni dolore e bellezza.
E forse è proprio questo che crea quel vincolo tra platea e scena tanto caro al regista, un legame che permette quella che lui stesso chiama “la sopravvivenza antropologica del teatro”( ne parlava in questa intervista). Così, anche se l’esperienza artistica è autofinzione e presuppone un patto di menzogna che lo spettatore è chiamato ad accettare, essa si configura come il regno di possibilità della realtà, e non cede ad essa ma la trasforma in poesia, quella di due cuori che finiscono per battere all’unisono. Perché capita anche agli esseri umani di innamorarsi di un animale. E talvolta capita anche inspiegabilmente d’essere ricambiati.
Andrea Gardenghi
In scena fino al 5 maggio 2022, Piccolo Teatro Grassi, Milano
ZOO
scritto e diretto da Sergio Blanco
traduzione Angelo Savelli
video Miguel Grompone
scene Monica Boromello
costumi Gianluca Sbicca
luci Max Mugnai
musiche e suono Gianluca Misiti
aiuto regia Teresa Vila
preparazione vocale a cura di Laura Raimondi
con Lino Guanciale, Sara Putignano, Lorenzo Grilli
produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa