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Una guerra troppo fredda. Queens Row di Richard Maxwell

L’ultima opera di Richard Maxwell, visto alla Triennale di Milano in occasione di Fog Festival, mette in forma di trittico un’immaginaria guerra civile nel cuore dell’America. Recensione.

ph. Paula Court

Curioso: negli Stati Uniti ci sono quattro città chiamate Odessa. Una di queste è in Texas, ed è parte della geografia di Queens Row, dell’autore e regista americano Richard Maxwell, voce arcinota della scena d’oltreoceano, sapientemente portato in Italia da Triennale Milano per quella vetrina internazionale sui linguaggi della scena che è Fog Festival. La stessa Queens Row, Massachussetts, è una città, però solo immaginaria. Queens Row, città che non c’è, teatro di una guerra civile di cui, nello spettacolo, non si parla che per ellissi, eppure non si dice d’altro: un’apocalisse in absentia, che è già accaduta ed è dunque sottratta allo sguardo, a discapito di esplosioni, macerie e di ogni iconogarafia millenaristica che le arti di questo tempo propongono in infinite variazioni sul tema. Queens Row, secondo una traiettoria consolidata nell’opera di Maxwell, è invece purgata del pathos che abita ogni elaborazione estetica della fine del mondo. Restano solo tre storie: tre apostrofi rivolte in un fiato, frontalmente, al pubblico, per bocca di tre donne, in tre giustapposti capitoli del dramma.

Una trinità femminile fa esercizio di memoria, attraverso una scrittura essenziale, affilata: ogni capitolo è al passato, una retrospettiva non nostalgica che confida una perdita. Nessuna implicita domanda di commiserazione. In Queens row tutto si limita all’asserzione, così come il titolo che postula semplicemente un luogo, immaginario appunto, ma talmente preciso da comparire nitido nell’oscurità, come un dedalo notturno di periferie americane incendiate da sempre. A questa vastissima scenografia mentale servono un allestimento e un disegno luci minimi e rigorosissimi: un piedistallo circolare alto appena un passo, in alto un’americana dello stesso perimetro sul quale corre un impulso luminoso a velocità costante, un moto orbitante che accende e spegne a ritmo blando, uno dopo l’altro, i fari che illuminano il centro della scena. Il sole di questa rivoluzione non scalda le parole né i tre corpi. Non una rivoluzione, infatti, ma una guerra civile, un conflitto interno, invisibile a se stesso e per ciò impermeabile a quel pietismo catartico, facilmente strumentale, da iconografia bellica. Simili violenze sono frutto del caso, o della necessità, non del desiderio, nemmeno un desiderio perverso. Non si può, dunque, prendere parte in questo conflitto, di cui si è inevitabilmente ed esclusivamente vittime.

ph. Paula Court

La prima persona di questa trinità senza nomi (Nazira Hanna) accenna alla genesi della guerra: “il nazionalismo […] diventò tribalismo e pervase ogni ambito, persino al di là dell’amore, della famiglia e della percezione di sé”. Il conflitto si alimentava di “razzismo, xenophobia, influenze straniere, rabbia di classe e di una ribollente paranoia” così “le persone si sono sentite umiliate e, che lo fossero o meno, non importava: si sentivano in quel modo e hanno scoperto che c’erano altri come loro […] la rivolta ha travolto il paese e ci siamo trovati in una guerra civile”. Nessun sensazionalismo, nessun tentativo di connotare le parte in causa. “Mi limito a raccontare quello che è successo e lascio trarre a voi le conclusioni” dice, “troverei volgare costringervi a qualsiasi empatia”. Le particelle elementari di un conflitto si dispongono freddamente davanti a noi, senza commento, senza spartiti né partiti, vertiginosamente tragiche come arnesi chirurgici su un tavolo operatorio. Poi l’asciutta sagacia saggistica – una sottile, potentissima critica al linguaggio giornalistico contemporaneo – lascia il posto al privato. La donna racconta come è morto suo figlio, emigrato a Odessa, Texas, dopo la guerra in cerca di lavoro: ucciso dalla polizia dopo aver ucciso, a sua volta, per gelosia.

Guerre en abyme, anelli di una sciagura riconoscibilmente nazionale e identitaria per un autore americano (Odessa è su un meridano che taglia idealmente a metà di States), ma che pure, attraverso il nitore di una drammaturgia e di interpretazioni impeccabili, attinge alla costruzione classica e dunque universale della tragedia. La seconda figura (Antonia Summer) è una giovane di Odessa, racconta di un amore perduto – forse per sempre, forse si tratta del figlio della prima donna, che ha letteralmente lasciato la scena alla seconda, senza che le due si incontrassero, indietreggiando fino all’ombra totale del fondale, articolando così un’unione invisibile, una scossa elettrica inferta dalla nostra pretesa di logiche coesive che la storia, le storie, invece consumano. L’intero e il frammento, l’universale (la guerra) e il locale (la sperduta periferia delle praterie del centro-america), l’immaginario (Queens Row) e il reale (Odessa) sono rammagliati in una scrittura la cui finezza chiede allo spettatore italiano di scavalcare il gradino della lingua e del gergo stranieri, oltre a quello, vero ad ogni latitudine, dell’ineluttabile frontalità del dramma. La meticolosità drammaturgica, la perfetta sintesi registica e scenografica, la bravura attoriale sono siderali, eppure Queens row paga lo scotto (incolpevole quanto insormontabile) dell’intraducibilità, che allontana lo spettatore più in là ancora rispetto al punto di caduta designato di un lavoro che, già di per sé, vuole arrivare in primis attraverso l’intelletto.

ph. Paula Court

Il suo soggetto, d’altro canto, pare essere la trascendenza della parola come veicolo per rappresentare l’essenza del tragico, il suo linguaggio quello delle icone. Come un trittico d’altare ecco una madre, la prima figura, che poco prima si svanire confida di trovare conforto nel Corano, che la avvicina alle “stelle e all’insondabile”.  Poi una figlia, che vaga per il Texas cercando dove spargere le ceneri del suo amore. Infine, da un’interferenza di luci e suoni, lampi improvvisi e porte sbattute fuori sala, l’ultima figura (Soraya Nabipour) viene a preconizzare una lingua nuova, che somiglia a quella vecchia, solo distrutta. Le parole diventano suoni e gesti, che però ne preservano le radici – i sopratitoli rendono il cattivo, ma inevitabile servizio di schematizzare la tensione sonora in segni grafici. La storia di Queens row si riconfigura in un geroglifico performativo, ma di quel segno volatile, astratto e pure precisissimo, si fa fatica a trattenere un corrispettivo emozionale.

Andrea Zangari

Visto alla Triennale di Milano,  marzo 2022

QUEENS ROW

regia, drammaturgia: Richard Maxwell
commissione, produzione: Institute of Contemporary Arts (Londra)
con: Nazira Hanna, Soraya Nabipour, Antonia Summer
scene, luci: Sascha van Riel
costumi: Kaye Voyce
direttore di produzione: Nicholas Elliott
NYCP office manager: Eric Magnus
commissionato da: Institute of Contemporary Arts (London)
con il sostegno di: Richard Maxwell Commission Supporters Circle, Friends of the Institute of Contemporary Arts, Cockayne – Grants for the Arts, London Community Foundation, The Kitchen (New York City)

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Andrea Zangari
Andrea Zangari
Architetto, laureato presso lo IUAV di Venezia, specializzato in restauro. Ha scritto su riviste di settore approfondendo il tema degli spazi della memoria, e della riconversione di edifici religiosi dismessi in Europa. Si avvicina al teatro attraverso laboratori di recitazione, muovendosi poi verso la scrittura critica con la frequentazione dei laboratori condotti da Andrea Pocosgnich e Francesca Pierri presso il festival Castellinaria prima e Short Theatre poi, nel 2018. Ha collaborato con Scene Contemporanee, ed attualmente scrive anche su Paneacquaculture. Inizia la sua collaborazione con Teatro e Critica a fine 2019, osservando la realtà teatrale fra Emilia e Romagna.

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