Dux in scatola. Autobiografia d’oltretomba di Benito Mussolini è lo spettacolo scritto, interpretato e diretto da Daniele Timpano, portato per la prima volta in scena nel 2005 (in finale al premio Scenario) e ripresentato fino ad oggi. Lo abbiamo visto al Teatro Elfo Puccini di Milano, dove la compagnia Frosini/Timpano ha presentato un Dittico sui dittatori che comprendeva anche Gli sposi.
«Forse solo l’ambiguità riesce davvero a restituire il senso problematico della storia». È questa la riflessione che Daniele Timpano vuole tramandare con Dux in scatola. Autobiografia d’oltretomba di Benito Mussolini, riportando in scena al Teatro Elfo Puccini uno spettacolo che ha avuto ben 17 anni di erranza in Italia. L’artista vuole, infatti, dimostrare come il semplice (ma non scontato) atto del ricordare non basti a sviluppare una coscienza critica nell’individuo. Il recupero a teatro di un fatto “recentemente” accaduto non deve ricucire la storia in virtù di una nuova interpretazione, ma deve scandagliarne le fratture, lasciare emergere i dubbi ed evitare prese di posizioni. Si tratta di una scelta provocatoria che invita il pubblico ad aprirsi alle problematicità di un passato prossimo per stimolare, al tempo stesso, la fertilità di un pensiero nel tempo presente. Autore, attore e regista, Timpano condensa in sé tutte le figure di uno spettacolo che ha già visto il suo successo con il Premio Scenario 2005 e che è arrivato finalista al Premio Vertigine 2010, presentato da anni non solo nei palchi di tutta la “nazione”, ma anche nei pub, in luoghi casuali, spazi all’aperto, fino ad arrivare nei salotti di casa. Una rappresentazione che, nei gesti e nella mimica di un corpo che si carica di profondi significati, continua a scuotere menti prossime al coma, trovando nella sua forma bizzarra il modo, l’unico forse, di parlare al mondo di oggi.
In sala regna il buio. Non si tratta di una di quelle oscurità abissali in cui tutto sembra perduto, quanto più la foschia di una tenebra da cui riescono a trasparire i contorni di una figura. L’attore è già sul palco, immobile, come un arredo della scenografia. Una luce incandescente, come in un effetto iride cinematografico, stringe sulla sua mano destra, anch’essa immobile, come un arredo della scenografia. L’altra, riposta scrupolosamente all’interno del proprio taschino, non sembra destare l’attenzione della direzione e viene lasciata nella penombra. Rimaniamo, così, in attesa che qualcosa accada. Il tempo passa, saranno due, cinque, sette minuti, forse di meno, forse di più, poca importa per un attimo che sembra eterno. Sui sedili il pubblico comincia ad agitarsi; c’è chi tossisce, chi si muove, chi si toglie il cappotto. C’è chi arriva in ritardo, chi bisbiglia, chi sbadiglia. Nulla è in grado di smuovere l’attore che rimane bloccato nella posizione di un gesto. La luce comincia a espandersi e quel gesto, carico di significato, ora lo vediamo bene: lui ci indica. E quel dito che sentiamo puntato addosso ci interpella, proprio come le sue parole: «Nella nostra bella Italia, tra le due guerre, fioriva in Italia uno statista meraviglioso: Benito Mussolini. Facciamo uno sforzo d’immaginazione collettiva: fate conto che sia io. Morto».
Mussolini è morto e il suo cadavere è riposto in un baule chiuso. Di mostrare l’invisibile si fa carico l’attore che si veste del corpo defunto del duce per dare avvio ad un monologo che ne rievoca le travagliate peripezie. In una febbrile dialettica che intreccia vicende autobiografiche dell’io narrante e fatti storici realmente accaduti, ripercorriamo in maniera frammentaria la tournée della salma di Mussolini: dal trasporto del corpo all’aggressione della folla in piazzale Loreto, dal suo occultamento al suo seppellimento a Predappio. Ma dopo uno sterminato elenco di citazioni dirette e nascoste, frasi canzonatorie, nomi incompleti, date e luoghi imprecisi lo spettatore non rimane che confusamente stordito. Vittima, forse, del vertiginoso articolare di un abilissimo affabulatore come Timpano. In realtà è proprio questa la sensazione che siamo chiamati ad indagare, il disorientamento: in un mondo in cui i giovani perdono progressivamente punti di riferimento, in cui si è abituati al self-service al benzinaio, nella ristorazione, nell’arredamento ma non nella vita di un pensiero, quello che si chiede alla regia dello spettacolo è di dare una risposta, di prendere una posizione. Un escamotage per aggrapparci ad una storia che continua a sfuggirci, vissuta nell’indottrinamento didascalico sui libri di scuola più che nel confronto di un dibattito critico a teatro.
In una conversazione fatta col regista, emerge proprio come lo spettacolo nasca dalla riflessione: «Da una parte c’è l’incontro casuale con un curioso saggio di Sergio Luzzato, Il corpo del duce, dall’altra la volontà di distaccarmi ironicamente da quel fare teatro paternalistico, didattico e di schieramento tipicamente antifascista. In realtà, dentro, ho voluto mettere un po’ di elementi contrastanti, il culto del corpo, il gusto del macabro (personale), l’ironia aggressiva; poi la fine del fascismo e lo snodo di Loreto come mito di fondazione della nascente Repubblica, sempre se di mito si può parlare». L’ambiguità, dunque, è l’unica vera presa di posizione di Timpano che mette in scena un tema storico con i materiali culturali di un’epoca. «Non volevo sembrare un sacerdote del culto civico», mi confessa, evidenziando un nutrito rifiuto di quel senso memoriale della storia che finisce per riempire l’anno di date da ricordare, senza poi lasciare la traccia di un ragionamento. Lo stesso paradosso che si avverte nel neofascismo di oggi, che se in alcuni produce una sorta di negazione (noi non siamo fascisti come loro), in altri porta a un’adesione vuota e radicalmente forzata, simbolo, forse, di un attualissimo bisogno di condivisione di forti ideali.
Accadde nel 2010, nella sala di un altro teatro milanese durante la performance di Timpano: «finito lo spettacolo, nel pubblico si alzò una protesta di quindici spettatori che sventolava bandiere e intonava cori fascisti. Ma quello che era quanto più ironico era che loro, il biglietto, in fin dei conti l’avevano pagato. Anzi, tra la folla c’era anche il figlio di Domenico Leccisi, con il quale parlai e mi confrontai qualche giorno prima dello spettacolo. E tutto questo mi rese particolarmente curioso». In fin dei conti, qualcosa lo spettacolo aveva smosso e questo era l’obiettivo principale: continuare ad interrogare, a infastidire, a rimuovere quella polvere depositata sulla storia recente (vittima anch’essa del fagocitante vortice d’amnesia tipico dell’epoca contemporanea). E non importa se poi lo spettacolo, al pubblico di destra, non piacque. Ciò che è importante è che è stato visto, inducendo qualcuno a prendere una posizione, perché «è proprio quando una risposta non viene data che si innescano i meccanismi del pensiero». E noi tutti ora torniamo a casa, con qualche riflessione in più nella testa e un peso in meno sul cuore.
Andrea Gardenghi
Gennaio 2022, Milano, Teatro Elfo Puccini
testo, regia e interpretazione Daniele Timpano
disegno luci Marco Fumarola
progetto grafico Alessandra D’Innella
collaborazione artistica Valentina Cannizzaro
uno spettacolo di Frosini/Timpano
Produzione Gli Scarti, Kataklisma teatro in collaborazione con Rialto SantAmbrogioFinalista Premio Scenario 2005 Finalista Premio Vertigine 2010 Selezione Face à Face 2011