HomeDIALOGHIIntervisteUno spettacolo di Fantascienza per raccontare la rappresentazione identitaria

Uno spettacolo di Fantascienza per raccontare la rappresentazione identitaria

Intervista a Liv Ferracchiati sula nuova creazione Uno spettacolo di Fantascienza, in scena oltre a Ferracchiati Petra Valentini e Andrea Cosentino. Contenuto in media partnership.

Foto Luca Del Pia

Sabato 26 e domenica 27 febbraio 2022 debutta in prima assoluta al Teatro Sperimentale di Ancona Uno spettacolo di fantascienza scritto e diretto da Liv Ferracchiati pluripremiato autore, regista teatrale e performer al suo primo lavoro con Marche Teatro.

Lo spettacolo dopo le date di Ancona sarà in scena a Udine al Teatro San Giorgio il 4 e 5 marzo. La tournée ripartirà poi nel gennaio 2023.

Dove e quando nasce l’idea di “Uno spettacolo di Fantascienza”? 

Nasce durante l’École des Maîtres (nell’edizione speciale 2020 e 2021 dedicata ai drammaturghi europei, condotto da Davide Carnevali, ndr) da un appunto di Čechov che si riprometteva di scrivere un dramma con tre personaggi su una nave diretta al Polo Nord.

Nel mio testo c’è una rompighiaccio, ma è diretta al Polo Sud. La drammaturgia, comunque, si discosta molto dalle modalità čechoviane. L’esperienza dell’École des Maîtres, condotta da Davide Carnevali, è stata per me un momento di ricerca, forse per questo ho deciso di affrontare un tema vasto e complesso come quello della “rappresentazione identitaria”.

Il testo che ho consegnato per l’École però è solo in parte quello che vedremo in scena, perché si è trasformato profondamente durante le prove. Mi piace infatti pensare la materia teatrale come un organismo vivente che si conosce e forma durante il processo creativo. 

Foto Luca Del Pia

Andrea Cosentino è un attore con una precisa autorialità e poi c’è la visione di un giovane dramaturg come Giulio Sonno che ha cominciato dalla critica teatrale;  a vedere il cast insomma sembra che tu abbia voglia di rischiare e collaborare con nuove energie. Cosa cercavi?

Sono incontri nati per affinità personale. Giulio Sonno, anche quando faceva critica, è sempre stata una persona con cui mi piaceva confrontarmi. È capace di leggere la scena ed è intellettualmente onesto, questo era quello che cercavo. 

Andrea Cosentino si è proposto quasi per gioco, ma io l’ho preso sul serio. Avevo scritto un post e lui ha risposto: sono rimasto molto sorpreso, ma ho capito subito che sarebbe nato qualcosa. È un autore geniale e un interprete magnetico, sicuramente una persona di cui sento di potermi fidare. Devo dire che in questo processo creativo è voluto rimanere nel ruolo di interprete, credo anche per rispetto della mia autorialità, ma ogni volta che ha proposto qualcosa è stato un valore aggiunto. 

Petra Valentini è il terzo elemento di novità. Anche se abbiamo già collaborato nel Platonov e anche se ci conosciamo dai tempi della Paolo Grassi, questa è la prima volta in cui abbiamo affrontato una sorta di scrittura scenica insieme. Lei è un’attrice di enorme talento, diversa e complementare ad Andrea. La sua formazione è più classica, ma in questo progetto sta facendo tutt’altro e apprezzo molto la sua capacità di variare.

Tre persone, una nave diretta al Polo Nord e il tentativo dei personaggi “di scongiurare una catastrofe climatica, mentre sperimentano la fine di un altro mondo, quello della gabbie di schema sesso-genere, della Norma del patriarcato.” Cosa collega le questioni di genere con quelle ambientali? 

In realtà, la nave diretta al Polo Sud e la catastrofe climatica che si avverte costantemente come background sono pretesti per raccontare il vero nodo tematico: la rappresentazione identitaria. Non è facile spiegare in poche parole di cosa tratta questo lavoro, ma potrei riassumere dicendo che abbiamo cercato di indagare come ci comunichiamo agli altri attraverso l’assunzione, più o meno consapevole, di segni convenzionali che, di fatto, vengono a esprimere e a raccontare chi siamo. La vita, anche se non ci facciamo caso, è piena di convenzioni. La divisione della giornata in 24 ore, lo studio di alcune materie scolastiche piuttosto che altre, il fatto che ci incontriamo per prendere un caffè e non un succo alla pera (questione che potrei contraddire io per primo, giacché sono un grande fruitore di succhi alla pera) e potrei andare avanti. Tra queste milioni di convenzioni che noi assumiamo come “cose che si fanno”, che ci sembrano “normali” e che vediamo, in un certo senso,  come inamovibili c’è anche il genere e i suoi modi di comunicarsi, ma è solo uno dei numerosi aspetti. Lo spettacolo è molto cambiato rispetto alla prima presentazione a cui fa riferimento la vostra domanda. 

È un tema talmente vasto e complesso che mi riprometto di tornarci, credo non si possa esaurire in un solo lavoro. Forse se non fosse iniziato tutto in un programma di studio e di ricerca, come quello dell’École des Maîtres appunto, non avrei nemmeno avuto il coraggio di iniziare a  scriverne. Lo considero come una prima tappa.

Foto Luca Del Pia

Nelle note di regia dello spettacolo c’è un’allusione a un “drammaturgo pigro che non sa mai come finire, anzi, che non sa neanche come ha iniziato”: la questione della creazione artistica incarnata da un autore (che ci riporta alla filosofia pirandelliana) era centrale anche in Platonov. Cosa ti interessa di questa riflessione sulla creazione e sul ruolo del creatore?

Uno spettacolo di fantascienza è un testo dai continui scarti di registro, in cui il linguaggio cambia bruscamente: ci sono due modi di rappresentare e, dunque, di scrivere, molto diversi tra loro. Provo a spiegarmi. La scrittura drammaturgica, come le persone, segue delle regole e delle convezioni. Assumere certe regole o convenzioni drammaturgiche piuttosto che altre è ciò che va a definire il profilo autoriale. In questo modo, perciò, quando uno spettacolo inizia sappiamo anche, più o meno, con quale stile terminerà. Cosa succede però se, inaspettatamente, questo stile varia e in un modo in cui non ci aspetteremmo? Come si muove la nostra percezione? Dove ci posizioniamo? Come cerchiamo di decifrare quello che abbiamo davanti? Può esistere una verità o se si preferisce un piano di realtà che sia simultaneamente valido per ogni livello di rappresentazione?

Spererei che durante lo spettacolo allo spettatore capitasse di sentirsi un po’ spiazzato, un po’ spaesato pur percependo un filo conduttore, come a tutti capita quando cerchiamo di definire gli oggetti intorno a noi, le altre persone e le situazioni nella vita. A ogni modo, credo sia uno spettacolo ironico e che invita ad essere autori di sé, dei creativi, insomma, senza prendere troppo sul serio ciò che sembra assodato. Le convenzioni sceniche e drammaturgiche sono per me una metafora delle convenzioni che assumiamo nella vita quotidiana. 

Non a caso Goffman negli anni ’40 ha scritto: “La vita quotidiana come rappresentazione”. Il quid e il motivo del metateatro che, a mio avviso, non è mai puramente metateatrale e mai fine a se stesso, parte da una domanda: se togliessimo, strato dopo strato, tutti i segni che ci sono stati raccontati e che a nostra volta continuiamo a raccontare, cosa rimarrebbe? Forse si potrebbe avvertire un vago senso di vertigine, perché il rischio è che possa rimanere davvero poco di quel che siamo.

Foto Luca Del Pia

Il 28 febbraio, ore 18, al Teatro Palamostre di Udine, con Chiara Valerio (editor di Marsilio) presenterete il tuo primo romanzo “Sarà solo la fine del mondo”. Scrivere un romanzo (che tra l’altro rimanda nel titolo alla fine, anche se solo metaforica, del pianeta) come ha influenzato il tuo fare teatro?

Mi accorgo che ogni mio lavoro di scrittura è come una tappa, il cui percorso lo riesco a vedere solo se mi allontano e lo guardo nella sua interezza. Tutt’ora è in divenire, ma ogni mio lavoro ha dei nessi con gli altri.  

Il libro è sicuramente il proseguimento della riflessione su come costruiamo e decostruiamo, nel tempo, i nostri tratti identitari, di come inconsapevolmente aderiamo a certi canoni. 

Il protagonista del mio libro, Guglielmo Leon, nasce in un corpo femminile, non si riconosce in questa anatomia e, dunque, senza cambiare i tratti fisici, inizia a vivere nel ruolo maschile, ossia in quello che culturalmente definiamo l’essere “uomo”. Peccato che andando avanti nel tempo si accorge che è un’altra gabbia, che ha comunque altre regole di rappresentazione e, dunque, intuisce che non ha molto senso né definirsi “uomo”, né definirsi “donna”.

Ma la scoperta delle scoperte è che non ha senso per nessuno, nemmeno per chi non si definisce persona transgender. Piuttosto è auspicabile una composizione creativa della propria identità, secondo quello che ognuno sente proprio e stimolante per sé. 

Ad esempio,  chi nasce in un corpo femminile e si definisce “donna”, ha costruito la sua identità a livello di espressione di genere (dunque tagli di capelli, vestiti, gusti etc) esattamente come chi nascendo sempre in un corpo femminile ha costruito però la sua identità a livello di espressione di genere come “uomo”. Una predisposizione naturale indirizza verso un codice di rappresentazione, ma sempre di un codice si tratta.

Il tricheco sembra diventare sempre di più la mascotte dello spettacolo. Da dove arriva questa idea e immagine?

Arriva dalla Siberia e, in effetti, non è un’immagine felice, anche se nello spettacolo se ne parla in modo giocoso e il fuoco è sempre spostato su un discorso più complessivo. 

I trichechi, come raccontano ormai molti documentari, non hanno più la banchisa, soprattutto quando le temperature aumentano, così si rifugiano, ad esempio, su alcune lande rocciose della Siberia e le sovraffollano. Sono costretti ad inerpicarsi su dei cumuli di rocce e non essendo animali adatti a questo tipo di attività, in molti casi, purtroppo scivolano e cadono giù. Questo significa che molti esemplari perdono la vita e, dunque, i  trichechi sono  a rischio estinzione, un po’ come noi umani. 

Ad ogni modo, per tornare a questione meno serie, il tricheco peluche di cui si vedono in giro le foto è, di fatto, il quarto attore e per la sua densità scenica ci aspettiamo una sua candidatura al Premio Ubu. 

Redazione

Uno spettacolo di fantascienza_quante ne sanno i trichechi ha testo e regia di Liv Ferracchiati e vede in scena (in ordine alfabetico) Andrea Cosentino, Liv Ferracchiati e Petra Valentini, aiuto regia è Anna Zanetti, dramaturg di scena Giulio Sonno, scene e costumi sono di Lucia Menegazzo, il disegno luci è di Lucio Diana, suono Giacomo Agnifili, lettore collaboratore Emilia Soldati. Lo spettacolo è prodotto da MARCHE TEATRO Teatro di Rilevante Interesse Culturale, CSS Teatro stabile d’innovazione del FVG, Teatro Metastasio di Prato.

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