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Un’intervista per chi vive in tempi d’estinzione, con lacasadargilla

Intervista con la compagnia lacasadargilla, fra la posticipazione del debutto a ERT con il Ministero della solitudine e il nuovo lavoro per il Piccolo di Milano nell’ambito del progetto europeo Sustainable theatre?, passando per le traversie produttive del Teatro di Roma

Avrebbe dovuto debuttare a Bologna Il ministero della solitudine de lacasadargilla, un titolo che era già entrato nell’inconscio collettivo degli osservatori, rilanciato per più di due anni da quell’insolita eco di una gestazione produttiva durata tanto quanto questa pandemia. Un titolo icastico, che disegna il profilo di un edificio cupo, edificato su una pia intenzione, ma sinistramente suggestivo di un universo totalitario, in cui la solitudine è amministrata statalmente. Googlare è d’obbligo: davvero nel 2018 il governo britannico di Theresa May s’era inventato quell’istituzione, per combattere una sad reality of modern life. È cambiata oggi la solitudine? È un buon parametro di descrizione per la condizione che artiste e artisti si trovano ad affrontare in questa lunga fine dell’emergenza pandemica? Abbiamo incontrato lacasadargilla per discuterne, a cavallo fra quel debutto rimandato, proprio a causa di alcuni contagi nella compagnia, e la preparazione di un nuovo lavoro che debutterà al Piccolo di Milano il prossimo 3 marzo: Uno spettacolo per chi vive in tempi d’estinzione. Appunto. Lo scambio seguente è da intendersi avvenuto con un coro – le parole di Lisa Ferlazzo Natoli, Maddalena Parise, Alice Palazzi, Alessandro Ferroni si mescolano in una voce sola in cui i nomi propri non si possono discriminare dall’ensemble.

In questi giorni state preparando il debutto di Uno spettacolo per chi vive in tempi d’estinzione al Piccolo di Milano, mentre solo poche settimane fa avete visto rimandare a ottobre 2022 il debutto de Il Ministero della solitudine, su cui avete iniziato a lavorare nel 2019. Come vi sentite a lavorare a ritmi serrati subito dopo un appuntamento mancato?

foto di Stefano Triggiani

Forse non abbiamo ancora vissuto un momento collettivo di revisione e orientamento su come ci hanno cambiati questo lungo, parallelo processo creativo e produttivo de Il Ministero della solitudine e poi la sua interruzione, su come abbiano informato la natura emotiva delle nostre giornate e persino il nostro modo di fare teatro. Quando abbiamo iniziato le prove due dei nostri interpreti erano già positivi quindi, nonostante tre giorni di allestimento tecnico molto belli, era già chiaro che a un certo punto ci saremmo fermati. E tutto questo succedeva dopo un precedente inciampo già accaduto con il Teatro di Roma. Il Ministero della solitudine avrebbe dovuto debuttare all’Arena del Sole a gennaio, per poi approdare al Teatro India, ma è emerso che il CdA del TdR non avrebbe approvato il bilancio dello spettacolo per una produzione a India. Lo spettacolo si sarebbe dunque spostato al Teatro Argentina nell’autunno del ’22. Giorgio Barberio Corsetti e Francesca Corona ci avevano chiesto di portare a India uno spettacolo di lunga tenitura, proprio tentando di cambiare il paradigma secondo cui ciò accade solo all’Argentina. Noi abbiamo accettato con entusiasmo: per noi non c’è alcuna differenza di qualità fra i due spazi, anzi la scelta ci sembrava avere un valore politico importante. Lo spostamento evidenzia un problema storico del TdR: esiste evidentemente un bilancio di serie A e uno di serie B per i due teatri. Poi il commissariamento e l’interruzione di produzioni e coproduzioni ha posto il problema in maniera ancor più radicale, a noi come a tutti gli altri artisti coinvolti: cosa ne è di processi produttivi sospesi, spesso già vessati dalle interruzioni imposte dalla pandemia? Cosa ne è delle relazioni che in seno a quei processi si creano, relazioni fra persone che si sono scelte costruendo delle vere e proprie famiglie allargate? La prima responsabilità oggi, per noi, è difendere i compagni di strada. E poi continuare a lavorare radicalmente anche in questa fase disorientante e scivolosa, provando a non sovraesporci malgrado i calendari siano diventati complessi. Scegliere progetti che coltivano la nostra identità continuando con passo e pensiero tenui: i nostri spettacoli si tengono su una tela di ragno, non di nylon.

Da dove partiva il progetto de Il Ministero della solitudine? E perché avete scelto di tornare alla scrittura originale dopo anni di adattamenti?

Nel maggio 2019, Maddalena ci raccontava del progetto del governo britannico di istituire un Ministero della solitudine: avevamo un titolo prima ancora di cominciare! Era da qualche mese che attraversavamo testi di drammaturgia contemporanea in tre o quattro lingue, alla ricerca di una scrittura particolare che ci corrispondesse nell’orizzontalità, nel “non essere scritta per un eroe” (come dice Bovell) ma per una comunità. E intanto tornava un’urgenza. L’ultima scrittura interamente originale era stata Foto di gruppo in un interno (2009), poi forse è stato necessario passare attraverso grandi testi per capire come si scrive e come volevamo scrivere. Čechov, Andrew Bovell, Edward Bond, Caryll Churchill ci hanno insegnato cosa ci commuoveva e suggerito la tecnica per arrivarci. E poi dovevamo incontrare un drammaturgo che si desse in pasto  al progetto, con il talento di fare anche un passo indietro rispetto al proprio linguaggio e alla propria autorialità. Abbiamo conosciuto Fabrizio Sinisi nel giugno 2019, grazie a un suo bel testo, Blackstar, che avevamo ricevuto in lettura. Ci siamo incontrati subito intorno a questo tema, la solitudine, che parlava di tutti noi e del nostro tempo. Poco dopo abbiamo coinvolto Marta Ciappina, che subito ha aderito con entusiasmo e ha fatto fiorire il lavoro sul corpo che avevamo iniziato, a nostro modo, da anni. E poi Caterina Carpio, Tania Garribba, Emiliano Masala, Francesco Villano e Giulia Mazzarino. Cinque attori e attrici, cinque compagne e compagni di strada che sanno scrivere in scena, scrivere insieme. Anche per questo Il Ministero della solitudine deve andare in scena. Per non disperdere questi incontri.

Come si è articolato il lavoro a più voci, disseminato in un tempo così lungo, complicato? Come avete vissuto i vostri ruoli?

foto di Sveva Bellucci

Abbiamo iniziato con una serie di incontri intorno alla domanda più semplice: che cos’è questo Ministero della solitudine? Ovvero, cosa è il luogo-ministero e cosa la solitudine, e come ne vogliamo parlare, da quale prospettiva. Forse il primo passo è stato decidere di quale solitudine non volessimo occuparci: quella psicologica, melanconica. Ci interessava piuttosto una solitudine strutturale. Intorno ad essa, ciascuno dei cinque attori ha costruito una propria monografia, con Fabrizio che interveniva nelle costruzioni decentrandone la prospettiva, intercalando materiali eterogenei romanzi, saggi, film, racconti personali. Cinque figure che attraversano il luogo, figure e non personaggi, perché la figura non ha una psicologia, ma narrative e posture emotive. Alcuni hanno operato in maniera molto eccentrica rispetto alla propria biografia, altri invece l’hanno presa nuda e cruda, ma per oggettivarla, spostandola fuori da sé e lasciandola manipolare dalla compresenza delle altre. Questo lavoro ha insegnato a ciascuno a farsi un po’ indietro, per far subentrare l’altro. Fabrizio si è fatto indietro nella scrittura, facendosi piuttosto architetto e dramaturg delle parole; le parole si sono fatte indietro rispetto alla drammaturgia del movimento di Marta; Marta e Fabrizio hanno dovuto imparare a comunicare, scoprendo un loro lessico privato. Cosa è, rispetto a tutto questo, la regia? Mettere insieme le persone giuste, combinare, raccogliere, interrogare: fare “da vigile” come dice scherzosamente Lisa… E trovare risorse, la cui materia è soprattutto il tempo. Un tempo che dobbiamo rendere profondo, fino alla domanda radicale sul senso e sul modo del fare teatro in questo momento.

Cosa tiene insieme il vostro percorso e questi due lavori tanto ravvicinati, in un momento così complesso in cui le energie rischiano di disperdersi  tra affanni e inconvenienti produttivi?

Nel Ministero della solitudine c’è una figura, quella di Francesco Villano, che pratica l’apicoltura, una figura emersa dal tema di fondo dell’estinzione, che abbiamo codificato nella precaria forma vivente delle api. L’estinzione: la scomparsa della specie come morte collettiva, che restituisce un senso diverso a quella individuale, è un tema che attraversa il nostro lavoro sin da La casa d’argilla. Ciò che muore, ma, per contrappunto, anche ciò che resta, dunque il tema dell’eredità. Potremmo visualizzare il collante fra Il Ministero della solitudine e Uno spettacolo per chi vive in tempi d’estinzione di Miranda Rose Hall nelle letture che sono letteralmente tracimate da un lavoro all’altro. Pensiamo a La malinconia del mammut di Massimo Sandal, o a Città sola di Olivia Laing, la sua analisi puntuale e anatomica della solitudine nelle grandi città come deficit di senso di appartenenza e la proposta di un’arte come tentativo di ricucire dentro sé stessi le proprie perdite, le proprie morti e i propri morti. Il nesso con Il Ministero della solitudine è evidente, ma poi Città sola è diventato anche un vero ponte per Uno spettacolo per chi vive in tempi d’estinzione. Claudio Longhi ce ne ha infatti chiesto un adattamento in formato podcast, una registrazione da scaricare e ascoltare col proprio device in qualunque momento. Ci siamo dunque ritrovati a registrare Città sola, sempre con l’adattamento di Fabrizio, subito dopo l’interruzione de Il Ministero della solitudine e prima dell’inizio delle prove di Uno spettacolo per chi vive in tempi d’estinzione, proprio mentre la sensazione di solitudine era pervasiva.

Avete iniziato a riflettere sulla solitudine poco prima che un evento epocale isolasse concretamente nella solitudine dei corpi, portando poi ad una prospettiva culturale, tecnologica, politica tutta nuova. Come è mutata la materia della solitudine fra le vostre mani?

I nostri movimenti, le nostre voci, le posture sono cambiate: il passo stesso dello spettacolo. Tutto è diventato più verticale e tutti sono diventati più radicali, irremovibili su determinati temi che per ciascuno erano diventati fondamentali nella propria monografia. Nei primi mesi ci siamo imposti di non citare la questione della pandemia in scena: sarebbe stato pornografico. Ma la solitudine poi era diventata il perno delle giornate, era diventata una strategia di sopravvivenza. Abbiamo sentito, con Olivia Laing, che la solitudine è un posto molto affollato. Se prima era un discorso individuale, psicologico, ora la stessa facciata dei palazzi di fronte a noi ci suggeriva una teoria di solitudini numerose come le finestre. Senz’altro l’esperienza della città nei nostri corpi è entrata integralmente nello spettacolo. Prima, forse, ci commuovevano di più certe solitudini radiose e divergenti, vitalissime come certe signore anziane del Quadraro, dove Lisa e Alessandro vivono. Ora ci guardiamo reciprocamente lavorare in scena, e ci commuove quella solitudine. Le ricadute sociali e politiche di tale solitudine ci hanno imposto delle domande nuove: quanto si sente solo, e non lo sa, chi aspetta la prossima pandemia costruendo il proprio bunker – chi, cioè, non ha fatto quel passaggio empatico, guardando davvero la facciata del palazzo davanti a sé? Oggi non possiamo non interrogarci anche sulla solitudine dello spettatore: lo possiamo lasciare solo davanti al nostro spettacolo? E perché dovrebbe venire a vederci, in quel caso? La risposta non è certo fare spettacoli semplici, ma prendere per mano lo spettatore, fargli male se necessario, per creare una eco, una triangolazione vera ed efficace fra testo, attori e spettatori. Solo così l’immaginazione di chi guarda e la nostra deflagrano insieme. Un’esplosione immaginifica che trasforma il mondo in senso ‘atomico’ – parafrasando le parole di Civica ne L’Angelo e la mosca: ragionando su questa mutazione il pubblico ci chiama in campo e ci terrorizza. Ed è una cosa sana.

Parliamo di Uno spettacolo per chi vive in tempi di estinzione, segmento di un progetto curatoriale e spettacolare europeo che tocca il tema della sostenibilità.

A play fot the living in a time of extinction, regia di Katie Mitchell – foto di Claudia Ndebele

Il progetto si chiama “Sustainable theatre?” in cui dodici teatri europei si sono riuniti intorno all’esigenza, prima che a un bando o a un finanziamento, di un teatro sostenibile su cui riflettere, da tradurre in scena, e hanno scelto come artisti per innescare la riflessione Katie Mitchell e Jérôme Bel, due attivisti nel campo, che sviluppassero una sorta di in-folio da reinterpretare, riscrivere, ri-ragionare scenicamente in ciascuno dei teatri partner del progetto. Uno spettacolo per chi vive in tempi di estinzione è il testo della drammaturga americana Miranda Rose Hall che Katie Mitchell ha portato in scena fissando, per il progetto, una serie di parametri da rispettare in ciascun adattamento: per la forma monologante un’attrice afrodiscendente, la presenza di un coro, ma soprattutto un vincolo energetico. L’energia necessaria allo spettacolo deve essere pari a quella prodotta in tempo reale dalle pedalate di un certo numero di ciclisti, nel nostro caso quattro. Un piano di verità evidente: tutta l’energia dello spettacolo è prodotta davanti allo spettatore. Senza banalizzare il pensiero ecologico (è certo che il ciclo produttivo di un qualsiasi spettacolo non sia fra le principali cause di inquinamento globale), è rilevante che un network europeo si interroghi su cosa significhi un teatro sostenibile. Il concetto per noi ha anche un’accezione di fattibilità economica – un orizzonte che forse, da altre parti in Europa, risulta meno urgente – ma anche relazionale, professionale: come si vive, come ci si comporta nel teatro come luogo di lavoro? Il progetto nel suo insieme è dunque un grande tavolo di lavoro per gli stessi teatri coinvolti. Per noi è certamente un singolare cantiere in cui tutto si compie per esperimenti: il Piccolo ha trovato un’associazione, Pedal Power, che provvede a tutto il sistema di produzione energetica a pedali, e ogni aspetto tecnico dell’allestimento, dalle luci al suono alle immagini, deve essere compatibile col meccanismo pedalante. Un cantiere che non è però estraneo al nostro percorso: proprio Katie Mitchell ha lavorato su un testo di Alice Birch Anatomy of a Suicide, che ci aveva recentemente folgorato, tanto da acquistarne i diritti per lavorarci nel futuro prossimo (sulla traduzione di Margherita Mauro che ha anche tradotto e adattato Uno spettacolo per chi vive…) – ed è proprio l’incontro con quel testo, di cui abbiamo parlato con Claudio Longhi, che ha costituito un ulteriore legame con il progetto “Sustainable theatre?” e la Mitchell stessa.

Fra Il Ministero della solitudine e Uno spettacolo per chi vive in tempi di estinzione avete vissuto dei modelli di produzione diversi, ma sempre non-convenzionali nel nostro panorama.

ERT è una struttura con un’identità unica e radicale, in questi due ultimi anni ci ha protetto e ha investito in un processo che si è nutrito soprattutto di tempo, di tante sessioni disseminate nei mesi – certamente più complesse e onerose che un’unica fase di prove. Il percorso è iniziato quando Longhi era ancora direttore, poi è proseguito con la stessa cura grazie a Walter Malosti, a riprova che un teatro può avere una forza e una sua natura determinata da tutti coloro che lo compongono, a prescindere da chi lo dirige. Anche lacasadargilla ha investito parte delle proprie risorse, lo consideriamo un processo di maturazione della compagnia. Accanto ad ERT e Teatro di Roma, abbiamo poi attivato una rete di sostegno produttivo nella nostra città, Roma, per finanziare tutto il lavoro di extra-produzione che in questi due anni particolari si è reso necessario. ATCL, Carrozzerie N.o.t., anche l’Angelo Mai: questo percorso prova che è necessario costruire alleanze e proteggere gli artisti – aspetto questo in cui nessuno si distingue quanto Massimiliano Civica, che si è aggiunto come coproduttore de Il Ministero della solitudine col Teatro Metastasio. Data la scarsità di risorse e di luoghi, la competizione è inevitabile, ma in tempo così difficili dovremmo guardare a tutto il paesaggio teatrale un po’ più che a noi stessi. Ora siamo al Piccolo, con trenta giorni di prove prima di andare in scena: un lasso di tempo generoso considerate le consuetudini, una cura che ci consente l’agio di riassorbire le inquietudini e i disorientamenti di questo periodo storico. Essere parte di questa progettualità – secondo un ragionamento lungimirante e allargato di Claudio Longhi nell’orizzonte di un teatro d’arte per tutti – che guarda a ragionamenti europei e li dilata nel  tessuto della cittadinanza con dispositivi di avvicinamento e accompagnamento come il podcast Città sola di Olivia Laing è un privilegio, ma non ci dimentichiamo l’onere e l’onore di restare una compagnia indipendente. Se domani dobbiamo tornare a lavorare negli spazi indipendenti romani, lo faremo – e non per dimostrare qualcosa, ma perché anche quelli sono luoghi in cui si è fatto e si deve fare teatro.

Il vostro lavoro si è sempre diramato in percorsi paralleli ai formati scenici. Avete mai considerato di trasformare Il Ministero della solitudine in qualcos’altro che non fosse un oggetto teatrale, soprattutto dopo quegli inciampi?

foto di Stefano Triggiani

Proprio il lungo, organico processo della scrittura ha portato ad un oggetto indifferibilmente teatrale. Forse l’unica forma alternativa possibile è la forma romanzo, pensiamo in particolare alla possibile gemmazione letteraria della monografia di uno dei personaggi, Simone, impiegata del Ministero della solitudine. Ma si tratterebbe di un’appendice. La solitudine attiene soprattutto ad un certo grado di prossimità: avvicinarsi o allontanarsi troppo dall’oggetto dispiegato letteralmente su un palco impedirebbe di percepire ciò che noi chiamiamo “l’acquario”, che è l’ambiente stesso de Il Ministero. C’è bisogno che lo spettatore possa vedere quello che fa Francesco mentre Tania parla, che si possa vedere quell’abitare la scena di solitudini simultanee, e che proprio in quanto simultanee sono radicalmente ‘sole’. Per questo, se il tempo storico lo richiedesse, assieme a ERT e Met, investiremmo ancora come compagnia perché Il Ministero della soltudine vada in scena. È una questione di responsabilità: certi ragionamenti devono arrivare fino in fondo, per poi andare oltre. Se poi ciò non potesse avverarsi, ci troveremo intorno ad un tavolo e ci chiederemo: cosa resta? E ciò che resterebbe non potrebbe che restare nella forma della cronaca. Un’altra cosa. Per certi versi è proprio intorno al tema della sovrabbondanza e dell’eredità che abbiamo preparato la pubblicazione, promossa da ERT, che accompagnerà lo spettacolo, un libro in cui non ci sarà solo il testo, ma una raccolta di materiali asimmetrici, anarchici, traditori come il glossario pensato da Maddalena e compilato a più voci. Per estensione, è vero che lacasadargilla lavora spesso con oggetti in espansione verso altri linguaggi; il cuore pulsante però è materia teatrale. Nel caso de Il Ministero della solitudine, poi, il corpo è flagrante. Il corpo che trema, quello che Marta (Ciappina) chiama il corpo-poroso. Fabrizio lo ha infatti definito uno spettacolo di danza con parole. Il Ministero della solitudine è proprio questo: un inno all’impossibilità del teatro in assenza di corpo. E va bene così, non tutto si può ri-mediare.

Andrea Zangari

Bonus track: suggerimenti di lettura e ascolto

Olivia Laing, Città sola
Massimo Sandal, La malinconia del mammut
Dubravca Ugrešić, Il museo della resa incondizionata
Manuel Vilas, In tutto c’è stata bellezza
Joan Didion, L’anno del pensiero magico
Sandor Marai, Le Braci
Kazuo Ishiguru, Non lasciarmi; Klara e il sole
Yasunari Kawabata, La casa delle belle addormentate
Michel Houellebecq, La carta e il territorio
Dave Eggers, Il cerchio
Judith Schalansky Inventario di alcune cose perdute; Lo splendore casuale delle meduse
Emmanuel Carrère, L’avversario
Beniamìn Labatut, Quando abbiamo smesso di capire il mondo
Mark O’Connell, Appunti da un’Apocalisse. Viaggio alla fine del mondo e ritorno
Roland Barthes, Frammenti di un discorso amoroso; La camera chiara
Gilles Deleuze, L’Abécédaire de Gilles Deleuze; Cosa può un corpo? Lezioni su Spinoza
Maurice Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito; Il visible e l’invisibile
Peter Handke Canto alla durata
Helen Jukes Il cuore di un’ape
Don De Lillo Rumore bianco
Maurice Blanchot, La comunità inconfessabile
Jonathan Franzen E se smettessimo di fingere? Ammettiamo che non possiamo più fermare la catastrofe climatica
Peter Godfrey-Smith, Altre menti. Il polpo, il mare e le remote origini della coscienza
Jacques Derrida, Ogni volta unica la fine del mondo

Suggestioni musicali

David Bowie, Under pressure
Tanita Tikaram, Twist in my Sobriety
Placebo, Too many Friends
Baccara, Yes Sir I Can Boogie
Sistem of a Down, Chop Suey!

 

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Andrea Zangari
Andrea Zangari
Architetto, laureato presso lo IUAV di Venezia, specializzato in restauro. Ha scritto su riviste di settore approfondendo il tema degli spazi della memoria, e della riconversione di edifici religiosi dismessi in Europa. Si avvicina al teatro attraverso laboratori di recitazione, muovendosi poi verso la scrittura critica con la frequentazione dei laboratori condotti da Andrea Pocosgnich e Francesca Pierri presso il festival Castellinaria prima e Short Theatre poi, nel 2018. Ha collaborato con Scene Contemporanee, ed attualmente scrive anche su Paneacquaculture. Inizia la sua collaborazione con Teatro e Critica a fine 2019, osservando la realtà teatrale fra Emilia e Romagna.

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