Recensione. Closer di Patrick Marber, con la regia di Fabrizio Falco, nelle sale del Teatro Biondo di Palermo.
Closer è la seconda opera di Patrick Marber, insignita di vari premi ed entrata nell’immaginario collettivo grazie all’omonimo film del 2004 (regia di Mike Nichols, sceneggiatura dello stesso Marber). Il Teatro Biondo di Palermo la propone in scena sotto la direzione di Fabrizio Falco, già vincitore del premio Marcello Mastroianni a Venezia (2012) e dell’Ubu come Nuovo attore under 35 (2015). La rappresentazione si tiene nella Sala Strehler, contenuta ma sempre accogliente.
La scena, negli attimi prima della rappresentazione, si presenta in una geometria asettica: un cerchio, lievemente sopraelevato, inscritto in un quadrato, a terra. L’occhio viene inevitabilmente attratto verso il centro, all’incrocio delle diagonali e dei raggi. Le luci vi proiettano bande indaco quasi fluorescenti, quasi da night club. Prima scena: Dan (lo stesso Falco), redattore di necrologi e aspirante scrittore, incontra Alice (Paola Francesca Frasca). Di lei si sa soltanto che è una stripper. Scena successiva: Dan incontra Anna (Eletta del Castillo), fotografa ossessionata dal volto degli sconosciuti. Terza scena: per via di una combinazione affatto casuale, Anna conosce il dermatologo Larry (Davide Cirri, che è anche assistente alla regia), goffo e gioviale. Incontri voluti dal fato, se è con questa parola che si vogliono definire le imprevedibili espressioni di un’istintività incontrollata e pulsionale. Tra i quattro personaggi si stabilisce un gioco labirintico in cui le coppie che si formano sono oggetto di costanti ricombinazioni. Relazioni insensate, dettate più dal masochismo e dalla paura di essere amati che dalla reale esigenza di riconoscersi nell’altro. Determinate da quel processo di aggregazione e disgregazione che riduce l’essere umano a particella volubile e volatile, che impone un’ipoteca ai rapporti tra gli esseri umani. Liquide.
Per Zygmunt Bauman, attraverso Freud, l’invito ad amare il prossimo come se stesso è il fondamento della vita associata; al contempo, è la ragione dell’egoismo, della ricerca di una felicità che non tiene conto delle conseguenze delle proprie azioni sull’altro. Così fanno i protagonisti di Closer, sospesi tra il bisogno che qualcuno si prenda cura di loro in modo assurdamente gratuito e la paura della dipendenza emotiva. Vogliono confondersi nell’altro, senza perdersi: è qui che l’impulso irrazionale cede il posto al calcolo, alla considerazione sui benefici che possono derivare dal condividere la propria vita con uno o con un altro individuo. La menzogna, subita o agita, è la merce di scambio che regola queste transazioni affettive: soltanto nella suite Paradise, dove Alice si spoglia per un Larry ubriaco e ridotto all’ombra di se stesso, è possibile la verità. Ma è una verità che viene fraintesa, e che comunque viene comprata: il corpo non è immune alle sofisticazioni oltre le quali si nascondono gli interessi dell’istinto, le affezioni che si celano oltre il filtro delle cose che vengono dette e manifestate. È così per il volto di Alice che, immortalato da uno scatto di Anna, grandeggia in una sala espositiva tra quelli di perfetti sconosciuti. Bellissimo e triste. Guardandosi, il soggetto della foto è consapevole di essere lo strumento di una menzogna, di una rappresentazione della realtà che si serve della sofferenza per fornire un’immagine migliore del mondo. Un ornamento fittizio al quale viene impresso il nome di arte.
Ogni volta che Anna scatta uno foto, in scena cala il buio per alcuni secondi: il flash è un’oscurità che colpisce la persona come uno sparo, e dalla quale i volti emergono con chiaroscurale difficoltà. Le luci al neon di Marco Santoro, e con loro il commento sonoro di Sergio Beercock, perturbano appena la scena minimale di Luca Mannino: il risultato è uno spazio astratto, costantemente sottoposto a stimoli inquietanti. Gli attori lo solcano a scatti violenti, ma non manca in loro una certa delicata empatia. Un’indefinibile tenerezza viene infusa anche nei momenti più esplosivi, come quelli legati all’ossessione di Dan e Larry per l’orgasmo femminile. Tra le loro urla di rabbia si percepisce l’insicurezza, la ricerca di una conferma che si nega e che li lascia sempre scoperti: il maschio, a differenza della donna, è condannato a un piacere che non può essere simulato.
La regia traduce visivamente la rete di relazioni che unisce i protagonisti: le coreografie tracciate dal loro passaggio lungo le diagonali della pedana hanno l’esattezza ritmica di un modello matematico; le traiettorie, scontrandosi, formano angoli che pongono i corpi degli interpreti in rapporti prospettici sempre mutabili nella loro studiata definizione. Lungo questi assi gli attori si muovono ora con sicurezza, ora con incertezza, secondo velocità sempre determinate dalle mutevoli disposizioni dei personaggi. Ma agiscono anche con una freschezza imprevista, con una comprensiva indulgenza nei confronti del limite umano. Non temono di cedere a una comicità che strappa una risata strozzata al pubblico (e che invece veniva sacrificata dal film). Un’ironia presente già nel testo di Marber: le spetta il merito di sollevare un poco l’individuo dalla sua ineluttabile pochezza.
Tiziana Bonsignore
Teatro Biondo, Palermo – Gennaio 2022
Regia Fabrizio Falco
Regista assistente Davide Cirri
Scene Luca Mannino
Luci Marco Santoro
Musiche Sergio Beercock
Personaggi e interpreti
Alice: Paola Francesca Frasca, Dan: Fabrizio Falco, Larry: Davide Cirri, Anna: Eletta del Castillo
Produzione Teatro Biondo Palermo