Recensione. Un racconto in prima persona da una serata alla Scala di Milano con La Bayadère nella versione di Rudolf Nureyev
Andare al Teatro alla Scala di Milano per assistere a La Bayadère nella versione testamento di Rudolf Nureyev, magistralmente diretta eseguita e interpretata, essere sorpreso da un infastidito spettatore, e capire che cosa può un balletto: la recensione è fuor di misura e scongiura pazienza, ma perché doppia è stata la comprensione, e la gioia.
È stata una gran serata. E non solo per l’eccezionalità degli interpreti: con Svetlana Zakharova, étoile della Scala e del Bolshoi, ha danzato a sorpresa (perché annunciato all’ultimo, quindi a causa della contingenza pandemica) Jacopo Tissi, primo italiano nominato étoile al Teatro Bolshoi di Mosca. Eccezionale però anche grazie soprattutto al vero e proprio ‘coreografo aggiunto’ della serata: il direttore d’orchestra, Kevin Rhodes. La partitura del compositore austriaco Ludwig Minkus (1877) per questo improbabile balletto esotico, spesso a torto considerata cursoria e mediocre, tra le mani di Rhodes ha ritrovato tutta intera la sua più vera vita espressiva, quella del palcoscenico. Lungi dal pretendere una classicità romantica solo immaginaria e irreale, il direttore con un’intera orchestra perfettamente (e mirabilmente) sintonizzata con le sue intenzioni, non solo ha condotto l’indubbio anacronismo testuale (l’India nello stile dei valzer viennesi) a un suo possibile compimento contemporaneo (è la resistenza dei classici quando tornano alla vita per chi è capace di riconoscerla), ma ne ha mostrato tutta l’adeguatezza e la necessità contingente per le richieste degli interpreti e della coreografia (richieste altissime, trattandosi della versione di Rudolf Nureyev del 1992).
La prassi esecutiva dal basso di Rhodes è stata talmente connessa con quanto succedeva in scena, e perfettamente dentro la lettura della partitura, che sembrava dirigere in modo organico anche luci persone e cose. A fronte della realtà di tanta concretezza, fanno ridere, e molto, le stantie categorie estetiche evocate da certa critica di danza circa il ‘sublime indicibile’ e le ‘seduttive utopie’ nell’esecuzione dei passi coreografici delle étoiles in scena (che follia: ma non avevamo già imparato che sono proprio queste le vie di mascheramento, nel classico, di ideologie di morte, oppressive e totalitarie?). Qui invece, fra danza e musica, è tutto un campo di tensioni ed emozioni generative. Questa attitudine compiuta della felicità nella prassi, che appartiene al regno della libertà, è il più vero argine alle forme di fascismo oggi più o meno striscianti, a partire dal linguaggio.
IMPREVISTE EPIFANIE
Nel mentre, questo è successo. Un discortese spettatore, arrivato all’ultimo trafelato e un po’ aria “padrone di casa” (aveva pure un taccuino), malauguratamente sedutomi accanto, durante il primo atto, infastidito in qualche modo dal mio vivere con soddisfatta energia la visione, mi invita perentorio e scorbutico «a lasciare che diriga il direttore». Improvvisamente, allora, mi accorgo di quanto fisica sia (ovvero partecipata, condivisa, sentita, presente nelle micropulsioni ad esempio delle mani) la mia ricezione, la mia spettatorialità (ma, ripeto, orchestra e direttore erano bravissimi e in fondo irresistibili, con tutto il Corpo di Ballo perfettamente sintonizzato, impossibile non esserne travolti, nella mente e nel corpo). Io però affranto, immobilizzo subito le mani sul programma di sala, dispiaciutissimo, nonostante l’insolenza, come colto in flagrante, lo zucchero sul bavero. Lui, invece, tutto rigido e compìto e sospirante a ogni allongé di Zakharova (sarà lei il motivo di tanto puntuto richiamo?), con peraltro tutta una congiuntivite potenziale per avere gli occhi sempre pressati sul binocolo da sala, bellissimo e molto professionale ma anche molto fané, ch’egli aveva portato con sé, ormai ha come eretto un muro, affinché la distanza tra noi risulti esemplare (e dunque mi accorgo che è in corso una lezione: gli eletti composti senza residui come lui, e i barbari frastornati e frastornanti come me).
Avrei senz’altro voluto dirgli: «caro Lei, sapesse quanto è vero!, come i miei studenti si divertono e ridono (e certo parodiano) questo mio volerli col corpo sulle cose della musica e del canto e della danza, negli ascolti e nelle visioni: tutto, fuorché accettazione passiva di un’opera senza ricadute sui sensi, i corpi e insomma il vivente. E funziona, mi creda, li ritrovo poi in Fenice a cercare posti e biglietti…». Il mio maestro all’università, Marzio Pieri, cantava in classe, lui melomane dalla voce ingiusta, per dimostrarci che tutto era sperimentabile, e che occorreva entrare nei materiali per poterli interrogare, non solo capire ma esperire dunque accettare. E per lasciarci anche trasformare dalla loro per niente secondaria dimensione materiale. («Sono sempre lì che ci vengono incontro, basta allungare le mani».) Noi allora ridevamo ma poi riempivamo i teatri tutti. All’inizio del secondo atto, invece, lo scortese mio prossimo in Scala non si è ripresentato. L’ho immaginato distante, turrito e con lo sguardo torvo nello scovare l’angolo più perfetto da cui rubare il momento perfettissimo della sua attesa rivelazione epifanica. Ho pure dubitato fosse mai stato un fantasma. Come quelli dei sogni, per intenderci. Quelli che al risveglio poi non restano. Boh.
Ma ecco allora però, svelarsi due modi fra i tanti possibili, oggi, di intendere il ruolo spettatoriale del balletto (non solo di repertorio). Da un lato, un’esperienza fisica, direttamente nel corpo, senza i ricatti dello spettacolo e del cartellone, ma in piena apertura per ciò che un corpo danzante sulla musica può e riesce sul palcoscenico (è un’etica dello sguardo, che riconosce e trasforma). Dall’altro, il ricatto normalizzante del rito sociale a cui accedere con muta, ispirata, intenzionale ma sempre un poco stitica, perché disciplinata, devozione (mai épater les bourgeois!). Una devozione in fondo senza complessità psicofisica, incapace di emozione e di mondo se non normata attraverso la visione passiva e rispettosa sí dell’opera, ma perché azione soltanto compiaciuta (di sé all’opera, e non dell’opera in sé).
Ecco, questa Bayadère (lett. danzatrice del tempio) ci ricorda che i teatri oggi non sono più templi di una pattuita e addomesticata contemplazione, ma luoghi dell’affetto, del desiderio, dell’esperienza emotiva, del colpo al cuore, dove possiamo reimparare insieme a sentire e amare e progettare nuovi mondi. A partire dalla vita che si genera in chi vi concorre, e non dai cancelli di un cimitero del quale pretendere essere i guardiani.
CALCOLATE MERAVIGLIE
Infatti, in questo balletto di Marius Petipa c’è praticamente di tutto: è ambientato nell’India che si voleva immaginare in piena età romantica, secondo un esotismo consono ai miti privati della corte Imperiale, alle ossessioni e aspirazioni personali di controllo della forza del perturbante e dell’immaginazione altrettanto reali. È balletto pieno di calcolate meraviglie da diventare nel tempo un vero e proprio repertorio, silloge, regesto di invenzioni di passi e atmosfere a cui attingere e saccheggiare. Ha una densa trama dall’inizio alla fine (per chi può seguire), ambientazioni meravigliose (templi e palazzi nella giungla, panorami nebbiosi dell’Himalaya), due ruoli di ballerina fortemente drammatici, lunghi passaggi di virtuosismo per tutti e tre i principals, assoli meravigliosamente intricati e un incisivo lavoro degli ensemble. L’atto bianco finale, in cui il Corpo di Ballo si snoda lungo una rampa e intorno al palcoscenico illuminato dalla luna, ripetendo all’infinito e in modo ipnotico la stessa sequenza di passi (posé arabesque, fondu), è una delle più inquietanti di tutto il repertorio ballettistico. Qui in Scala è perfetto: lode ai maître de ballet. Di più: il direttore Rhodes sul primo arabesque penché rallenta talmente tanto la musica che appare come un difficile tempo fermo, tempo di sospensione dello scorrere cronologico, tempo di fatica fisica di tutto l’ensemble che sembra resistere alla tentazione di una qualche interpretazione metafisica o trascendentale del balletto: questo tempo invisibile, di sforzo e fatica immobile, trattiene il tempo presente proprio dalla minaccia del suo precipitare nel caos.
Nella versione di Nureyev tutto è potenziato: i ruoli e i passi sono intensificati per un massimo di spettacolarità (e difficoltà), fino all’effetto pop/rock, ad esempio, nell’ingresso della danza dei tamburi del secondo atto. Zakharova è memorabile nel ruolo di Nikiya, mentre l’indubbio fascino di Tissi (nel ruolo di Solor) non basta a coprire gli incerti equilibri nei salti, ancora da governare. Il passo a due di fidanzamento nel secondo atto è però perfetto, e Maria Celeste Losa (nel ruolo di Gazmatti) chiude con una sapiente climax che potenzia in termini drammatici l’arrivo della sua antagonista. Su tutto dominano, precise e ben regolate nel gusto richiesto, le scene e i costumi di Luisa Spinatelli. L’indiscusso successo di questa storica ripresa scaligera, supervisionata benissimo da Michel Legris, racconta di come la vita del passato sia capace di riaprire il suo ciclo del tempo.
Stefano Tomassini
Gennaio 2022, Teatro alla Scala, Milano
LA BAYADÈRE
Durata spettacolo: 2 ore e 41 minuti ca. incluso intervallo
PRIMO ATTO 46 minuti / Intervallo 20 minuti / SECONDO ATTO 40 minuti / Intervallo 20 minuti / TERZO ATTO 35 minuti
Nuova produzione Teatro alla Scala
Corpo di Ballo e Orchestra del Teatro alla Scala
Balletto in tre atti
Libretto di Marius Petipa e Sergej Kudekov
Coreografia e regia | Rudolf Nureyev
da Marius Petipa |
Ripresa da | Florence Clerc e Manuel Legris |
Supervisione coreografica di | Manuel Legris |
Direttore | Kevin Rhodes |
Orchestrazione | John Lanchbery |
Scene e costumi | Luisa Spinatelli |
Assistente scene e costumi | Monia Torchia |
Luci | Marco Filibeck |
CAST |
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Nikiya | Nicoletta Manni |
Solor | Timofej Andrijashenko |
Gamzatti | Maria Celeste Losa |
La Bayadère di Ludwig MINKUS (orchestrazione di John LANCHBERY)
Editions Mario Bois
rappresentante per l’Italia Edizioni Curci s.r.l.
Rappresentata finora solo dal Balletto dell’Opéra di Parigi per cui fu creata nel 1992, La bayadère di Nureyev per la prima volta verrà messa in scena alla Scala, e con un nuovissimo allestimento di Luisa Spinatelli. Straordinario debutto per una produzione fastosa, ricchissima di virtuosismi e variazioni, che si conclude riportando il classico in tutta la sua purezza, nel candore del Regno delle Ombre, quadro che aprì la strada alla fortuna occidentale di questo balletto e all’astro splendente di Nureyev.