Recensione. La Compagnia Oyes debutta al Teatro Metastasio di Prato con una rilettura de La coscienza di Zeno di Italo Svevo.
Partiamo dalla fine: il Novecento è oggetto di catalogazione ed è chiuso protetto in un museo. Si perdoni la rivelazione, ma è per evitare che lo stupore distragga. Si tratta di un’operazione talmente artificiosa, troppo nostalgica, da non essere immediatamente comprensibile, anche se gli elementi sono tutti ben visibili. Lo scenografo Stefano Zullo ne riproduce una sala alla perfezione: ci sono pannelli esplicativi, proiettori per diapositive e teche per reperti archeologici. Se si fa tanta attenzione, perché è probabile che qualche parte della coscienza (quella dello spettatore) proprio si rifiuta di capire, si vede chiaramente che Zeno Cosini e il suo psicanalista S., in scena Fabio Zulli e Dario Merlini, sono introdotti da un cartellino. Daniele Crasti appare da dietro uno dei pannelli e accende le luci: si presenta come un guardiano. Il fumo delle eterne ultime sigarette che Zeno accende riporta a una dimensione più intelligibile. Che siamo malati anche noi? Sicuro.
La terapia ha inizio come uno smaliziato gioco di tiro alla fune: il dottore tira e il paziente di finta malavoglia si lascia trascinare. A guardarli, seduti su una panca, Ada e Augusta, le coinvolgenti e appassionate Francesca Gemma e Livia Castiglioni, insieme a Guido, Francesco Meola; poi intervengono, interagiscono con i ricordi, sono lontani quanto le vecchie fotografie ingrandite al proiettore eppure presenti proprio come quelle. Niente è tanto vero quanto un sogno e un ricordo. Quello schiaffo terribile, l’amore non corrisposto per la passionale Ada, l’insistente pressione della propria mediocrità, l’invidia della prestanza di Guido, l’affetto tiepido per l’accondiscendente e fedele Augusta: lo psicanalista segna tutto febbrilmente sui suoi quaderni, mentre con la stessa frenesia procedono i drammi borghesi. S. non concede un attimo di tregua e incalza morboso, pare si alimenti della nevrosi del suo paziente. Improvvisamente uno sfarfallio del neon lancia uno strano segnale; il guardiano, rimasto immobile su una sedia, all’improvviso si alza e si allontana per sistemare il guasto. Solo Zeno si accorge di lui come elemento di disturbo. C’è un attimo di confusione, poi il dramma riprende. Altro fumo, fumo ovunque.
Manca l’aria per tutta quella concitazione da cui riescono a spiccare le sole voci di Gemma e di Castiglioni, sostenute pure dal tratto interessante e problematico del vissuto dei loro personaggi. Augusta e Zeno si sposano e forse la guarigione è già avvenuta, ma il dottore non è d’accordo e urla il proprio disappunto. Di nuovo tutto si sfascia: la luce si attenua, e la mite Augusta scaraventa per terra le due pesanti sedie di suo marito e del suo terapeuta. Furente si scaglia contro gli uomini, i maschi malati viziati egocentrici piagnoni, e contrappone la sua forza di donna che sceglie; un destino infame, vicino all’uomo che non la ama e che la tradisce, ma ha scelto. Il maschio è in via di estinzione, “il Novecento è finito!” grida. La Castiglioni sferza severa, dalla gola la voce la rende giunonica e quasi schiaccia i suoi interlocutori. La modernità irrompe nel dramma della condizione femminile, ma pure quello è un attimo: uno sfogo incomprensibile a cui il medico per poco non attribuisce l’isteria. Fuori luogo, ma davvero d’effetto. Zeno è esausto, vorrebbe smettere, ma il medico insiste; non può farne a meno, lui è il suo ruolo e non può fare altro che quello. Poi, finalmente, l’ultimo confuso tumulto: i due si scontrano, e Zeno, strappando i fogli del quaderno di S., scopre che sono completamente bianchi.
Ci si accascia sulle poltroncine sfiniti, ma il guardiano richiede la nostra attenzione. Dice tutto quello che fino a quel momento si è cercato con tutte le energie di non considerare: sì, quella è la sala di un museo e sì, Zeno è quell’ultima parte di umanità, anzi archeologia dell’umanità, che va salvata nella memoria. Il mondo fuori è invivibile, l’aria è irrespirabile; alla fine l’uomo è esploso come una malattia che ha contaminato il pianeta, e sta lentamente vivendo la sua tragica fine. Se solo non si fosse scelta la strada della distopia, la quale non è altro che una pallida visione della fine, ci si sarebbe accorti che la Fine è iniziata proprio dalla psicanalisi di Zeno e ha serpeggiato per tutto il corso del secolo. Una riproposizione filologica del testo a quel punto sarebbe bastata. Quindi sì, è vero, sta finendo tutto. E da parecchio anche. Ma la fine non ha nessun merito e nessun interesse: che importa al moribondo di sapere perché e quando morirà.
Valentina V. Mancini
Teatro Metastasio, Prato – Febbraio 2022
uno spettacolo di Oyes
regia di Stefano Cordella e Noemi Radice
testo di Stefano Cordella, Dario Merlini, Noemi Radice
con Livia Castiglioni, Daniele Crasti, Francesca Gemma, Francesco Meola, Dario Merlini, Fabio Zulli
scene e costumi Stefano Zullo
disegno del suono e musiche originali Gianluca Agostini
disegno luci Alberto Biasutti
consulente / dramaturg Simone Faloppa
produzione Teatro Metastasio di Prato, LAC Lugano Arte e Cultura, Teatro Stabile del Veneto, Oyes
con il sostegno di Centro di Residenza della Toscana (Armunia – CapoTrave / Kilowatt)