Intervista a Claudio Longhi, direttore artistico de il Piccolo Teatro di Milano riguardo il presente e il futuro del Teatro Nazionale d’Europa tra difficoltà, aperture e nuove modalità di intendere la relazione con gli artisti e i pubblici
Le responsabilità artistiche, civili e politiche di una direzione artistica sono oggi ancora più determinanti per la creazione non solo di una nuova cultura teatrale ma soprattutto di una nuova società. Il mondo è cambiato e se da un lato questa è sicuramente un’espressione retorica, dall’altro, tale consapevolezza spinge a spostare più in là azioni che, seppure nel fluire caotico e indefinito, possano segnare dei cambiamenti. Urgenti. Ed è inevitabile che la soglia di aspettativa sia più alta che in passato. I problemi ci sono, le figure incaricate a darvi risposta devono allora ricalibrare la relazione con i destinatari di queste scelte affinché si possa creare congiuntamente un rinnovato equilibrio.
Raggiungiamo telefonicamente Claudio Longhi, direttore artistico del Piccolo Teatro mentre, trafelato e impegnato come il periodo richiede, si appresta a esibire il suo green pass all’ingresso degli uffici e, appena raggiunta la scrivania, iniziamo il nostro confronto.
Questo 2022 è iniziato tra spettacoli rimandati e consegna delle domande ministeriali, quindi tra blocchi e prospettive. Quali sono i suoi pensieri rispetto al presente prossimo?
È un momento molto complicato, alcune situazioni di criticità sono in riassorbimento ma ancora evidenti. L’incubo Covid-19 è dietro l’angolo determinando una situazione di incertezza soprattutto sul piano della programmazione di cui dobbiamo tener conto. Questi due anni hanno segnato le abitudini delle persone portando a una ridiscussione del patto con i pubblici, ciò determina un orizzonte di fluidità, negativo da un lato ma che, dall’altro, può anche aprirsi verso prospettive nuove. Ci troviamo in una fase liminale, dobbiamo fare i conti con un sistema che scricchiolava già prima della pandemia e ora messo alla prova per ritrovare un nuovo equilibrio. È centrale ripensare il dialogo e la relazione con le persone, che investa a 360° questo rapporto. Stanno cambiando le modalità di andare a teatro, spesso le decisioni vengono prese all’ultimo minuto, e dal punto di vista del programmatore si ha la consapevolezza che la sala possa essere vuota e poi, fortunatamente, si riempie. Da simili dati pratici, ci allarghiamo poi a un’analisi dei desideri, delle paure e delle domande che si sono generate e a cui il teatro deve dare una risposta. In questa prospettiva è centrale l’attenzione ai giovani come testimoni più sensibili e interpreti più avveduti di questa trasformazione, e proprio parlando di questo ascolto si rivendica con forza la nozione di rischio culturale; è inevitabile che quando si percorrono strade che non sono state precedentemente battute, ci si assuma una quota di rischio maggiore. Ma il rischio è la caratteristica pregnante di questi mesi futuri di rinnovamento che ci aspettano e che si lega a un’altra nozione, quella di servizio pubblico. Parlo da una prospettiva, non solo privilegiata, ma anche molto segnata: il Piccolo Teatro è un teatro pubblico ed è il luogo di origine di una certa idea di teatro pubblico, mai come adesso il suo ruolo è necessario nel rapporto con la comunità e deve farsi carico di questa responsabilità.
Da questa idea di teatro pubblico, vorrei allora soffermarmi sul suo passaggio da ERT Emilia Romagna Teatro Fondazione alla Fondazione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa. Che situazione ha trovato al momento del suo insediamento – avvenuto lo ricordiamo durante il secondo lockdown nell’autunno del 2020 – e quanto l’esperienza avuta nel circuito di ERT sta influendo su questa attuale direzione?
La situazione al momento dell’insediamento era decisamente buia, nella quale riversava l’intero sistema non solo milanese ma anche nazionale e direi mondiale. Dopo lo spiraglio di ripresa che si era aperto nell’estate, ripiombare nel lockdown ha generato uno stato di sconforto, disorientamento, stanchezza e caos. Per me tutto questo si associava al cambio di struttura che fortunatamente conoscevo per la mia storia pregressa ma che non apparteneva alla mia quotidianità. Come anticipavo prima, la necessità è stata subito quella di interrogarsi sulla relazione con il pubblico, come mantenere vivo il dialogo, inserendomi a gamba tesa in un sistema che non mi apparteneva, di qui tutta una serie di progetti che abbiamo cercato di mettere in campo. Dal racconto online Edificio 3 a PiccoloSmart con l’intento di fare dell’online non tanto un surrogato dello spettacolo dal vivo ma un luogo di pensiero, dove alimentare il desiderio di teatro per le comunità eterogenee di spettatori che ci mancavano. Il rapporto con ERT continua a esistere innanzitutto per l’esperienza che mi porto dentro, e non mi riferisco solo agli anni della mia direzione, ma anche alla formazione registica e a quella messa in campo in relazione ai progetti partecipativi sul territorio. Ora gli interlocutori sono cambiati e comportano una ridefinizione delle linee progettuali. Vi sono tuttavia degli elementi di continuità che mi accompagnano qui a Milano, come il lavoro sull’internazionale che per ERT significava VIE Festival e che per il Piccolo si esprimerà nella rassegna Strehler 100. Penso anche alla costruzione del rapporto con gli artisti associati europei e alla forte attenzione riservata al dialogo con il territorio e ai progetti partecipativi. A tal proposito, la storia del Piccolo ha avuto da sempre un ruolo determinante nel decentramento – basti pensare alla stagione a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta – che oggi prosegue nell’attuazione di piani relativi alla formazione artistica, mi riferisco alla scuola del teatro, e anche alla formazione del pubblico in età scolare.
Milano, con il Piccolo, è città e teatro d’Europa. A livello progettuale, il teatro come ricucirà la distanza che si è creata in questi due anni di pandemia?
In realtà la distanza di mentalità e approccio del sistema teatrale italiano dall’orizzonte europeo è una distanza che precede questi due anni e che paradossalmente la pandemia ha ridotto, vuoi per la necessità di fare rete non solo su scala nazionale e internazionale, ma soprattutto perché questa emergenza ha contribuito ad annullare le differenze di cui parlavo prima. Prima fra tutte quella relativa alla programmazione: gli operatori stranieri programmano con netto anticipo e in un momento simile è successo invece che tutti sono caduti in uno stato di precarietà diffuso rendendo quindi il confronto più diretto, scevro ora di handicap strutturali pregressi. Il Piccolo sta cercando di mettere in campo più strade per essere, come da statuto, non solo il teatro della città di Milano ma anche quello d’Europa, a partire dall’adozione del modello dell’artista associato, che non appartiene molto al nostro sistema organizzativo ma è invece molto invalso all’estero. Gli artisti non transitano occasionalmente all’interno del teatro, diventano il nerbo del progetto artistico del teatro stesso e interagiscono con la direzione per quanto riguarda le linee di progettazione. Così anche la relazione tra artista e pubblico cambia radicalmente: non legandola alla sporadicità di uno spettacolo la si incardina in una serie di appuntamenti consecutivi che mettono in discussione lo spettacolo come prodotto chiuso in se stesso. L’opera o progetto è allora inserito in un flusso che non è solo quello della creazione ma è anche quello della crescita professionale dell’artista. A queste linee, si aggiunga inoltre la promozione del teatro italiano all’estero, ricordo che De infinito universo, che ha da poco debuttato al Teatro Studio, è il frutto di una coproduzione con il Théâtre National Wallonie di Bruxelles in un’ottica di apertura della scena italiana verso l’esterno.
I fondi a disposizione per l’internazionalizzazione delle pratiche sono sufficienti?
Pare che la UE voglia scommettere con grandi fondi sull’arte e la cultura, il programma Europa Creativa 2021-2027 sulla carta dà molte possibilità con una notevole iniezione di denaro su questo fronte, vedremo quanto questa “apertura di credito” si tradurrà in risorse sufficienti. Dal mio osservatorio c’è anche un forte interesse da parte dei membri della Fondazione, Comune e Regione, verso l’internazionalizzazione delle pratiche al fine di arrivare sempre più all’idea di una Milano europea.
In riferimento proprio a un modello europeo, nello specifico alla tedesca e al lavoro svolto sul repertorio, il teatro come vorrebbe dialogare con gli artisti e i progetti in residenza?
L’idea di associazione è nata dall’osservazione dei modelli organizzativi stranieri con l’intento di superare la dicotomia direttore generale-consulente artistico che con il binomio Strehler/Grassi ha segnato la vita di questo teatro diventando anche una sorta di paradigma per il sistema teatrale italiano. Quello dell’associazione è dunque un nuovo modo di interpretare l’idea di teatro stabile pubblico come casa degli artisti. Le direttrici lungo le quali si sviluppa l’idea di associazione, all’interno di un modello di flessibilità che caratterizza la natura sperimentale di questo progetto, vanno dal sostegno economico di tipo produttivo, alle modalità di ingaggio progettuale, fino all’impegno formativo legato alla scuola. Per esempio, in dialogo con gli artisti associati Marco D’Agostin, Marta Cuscunà e lacasadargilla era nata la scorsa estate la rassegna Ogni volta unica la fine del mondo che li vedeva coinvolti non solo in una dinamica creativa ma anche curatoriale: non solo artisti prodotti ma responsabili del dialogo con la direzione progettuale, anche sul fronte europeo. Per rimanere ancorato a quello che stiamo facendo, Uno spettacolo per chi vive in tempi d’estinzione de lacasadargilla con la collaborazione di D’Agostin (che debutterà il 3 marzo, ndr) rientra nell’orizzonte progettuale della sostenibilità che il Piccolo ha intrapreso in dialogo con altri dieci teatri europei.
Cosa offre e cosa mira a creare questa forma di partecipazione degli artisti?
Il tema dell’associazione chiama in causa anche il sistema di relazione con il pubblico, mi piace ricordare una risposta che diede un grande protagonista della scena italiana, forse troppo sottovalutato: mi riferisco ad Aldo Trionfo che disse, guardando al suo percorso, «non se ne può più della richiesta di capolavori». Non lo dico per deresponsabilizzare chi fa delle scelte artistiche, ma credo che alla realtà corrisponda maggiormente una dimensione di apertura, dialogo e contaminazione, che scardini l’idea di compiutezza dell’opera per alimentare una dimestichezza di dialogo funzionale sia agli artisti per affinare il loro percorso, che alla comunità per la propria capacità critica. Nutrire i percorsi in un’ottica di rifrazione è oggi quanto mai necessario.
A partire dalla dimestichezza del dialogo e tornando però all’orizzonte di precarietà già accennato, parliamo dell’equilibrio tra le sovvenzioni e il rispetto delle autonomie: in che modo un teatro pubblico può creare delle sinergie tra spazi grandi e piccoli?
Partendo dalla convinzione che il teatro sia il luogo in cui una comunità si incontra e si autodetermina, il teatro è quindi strutturalmente il luogo di una città, perciò è impensabile che un teatro stabile pubblico non si nutra di un dialogo altrettanto strutturale con il territorio che abita in tutte le sue articolazioni, dall’orizzonte metropolitano a quello regionale, fintanto nazionale. Trovo molto significativa, in questa direzione, la consonanza di intenti con l’Assessore alla Cultura Tommaso Sacchi volta a dare risposta alla necessità di fare rete con altre città italiane. Cerco sempre di alimentare un rapporto tra “grande e piccolo”, e rispetto a questo tema mi riferisco nello specifico alla collaborazione aperta con ZONA K, che per scala di dimensione è nettamente inferiore a quella del Piccolo ma che ha grande radicamento sul territorio e si contraddistingue per una forte vivacità.
È possibile allora fornire supporto sia alle compagnie prodotte che a quelle indipendenti rispettando di queste la loro natura senza escluderle dalla circuitazione?
L’universo della relazione e dell’accompagnamento si colloca sul crinale che sta tra l’accoglienza e la produzione. Quanto più si investe nel mantenimento dei rapporti con le realtà indipendenti, tanto più quella relazione può tramutarsi non solo in ospitalità ma anche in uno slancio produttivo. Soprattutto adesso, che il sistema è così destrutturato, il dialogo con le realtà indipendenti diventa fondamentale per ritrovare un nuovo equilibrio.
Dal suo punto di vista e per l’esperienza avuta finora nel sistema teatrale italiano, e non solo, come si pone rispetto alla questione della parità di genere, riscontra per le donne una difficoltà di accesso alle opportunità di fare carriera?
È una domanda che insiste su un orizzonte critico complesso rispetto al quale c’è molto da dire. Partirei da una constatazione banale, ovvia, triste e vera: oggettivamente esiste un deficit di pari opportunità, è doveroso rimarcarlo e, con un notevole senso di colpa, io stesso contribuisco con la mia presenza a sbilanciare la situazione, quindi sono anche consapevole di non essere la persona più adatta a parlarne. Il problema ha radici storiche antiche che pertengono alla nostra cultura, e lo dico non per cristallizzarlo ma per evidenziarne la cronicità, rispetto al quale evidentemente il rapporto con l’estero ci vede deficitari. Credo sia importante dare segnali e intervenire in questo senso, dal mio punto di vista, sia organizzativo che artistico, ho cercato di dare risposta attraverso la costruzione del gruppo di artisti associati facendomi carico della questione e cercando di capire come interpretarlo. A tal proposito mi piace ricordare il debutto gli scorsi giorni della personale dell’artista Marta Cuscunà dedicata alla lotta al patriarcato. Aggiungo anche un aspetto e spero venga compreso il senso della mia affermazione: sono partito dalla stigmatizzazione di questo stato di deficit rilevando come sia esecrabile una situazione simile, vorrei però mettere anche in guardia dal rischio di un’ideologizzazione di questa mancanza, altrimenti rischieremmo di cadere nel suo paradosso. Non possiamo pensare di passare dalle pari opportunità alle quote rosa, il che significherebbe non rendere adeguata giustizia alla complessità del tema. Mi rendo anche conto però che tale criticità se non merita di essere affrontata attraverso l’ideologizzazione, dall’altra parte la necessita anche perché è soltanto ponendo radicalmente la questione che possiamo sradicare dei pregiudizi stratificati nel tempo.
Lucia Medri