Una riflessione del drammaturgo Emanuele Aldrovandi, scritta con la forma del dialogo teatrale, per indagare l’annosa questione del teatro popolare d’arte, i rapporti con il pubblico e con la politica.
Ho sempre pensato che il modo migliore per esprimere le proprie idee artistiche non fosse proclamarle, ma metterle in pratica. E in questi dieci anni di lavoro in teatro ho cercato il più possibile di far coincidere quel che facevo con il modo in cui pensavo andasse fatto, senza perdere troppo tempo a parlarne.
Nell’ultimo periodo però ho rivalutato l’importanza di dichiarare pubblicamente il proprio “approccio”. Non tanto per ragioni artistiche, ma per ragioni di politica culturale: essendo il teatro finanziato da soldi pubblici, è giusto che si discuta pubblicamente su come questi soldi vengono spesi.
Perciò ho deciso di dedicare saltuariamente l’1% delle mie energie alla “nobile arte della polemica”: nel 2020 ho scritto un post in cui mi auto-candidavo – in modo ironico, ma dicendo cose che pensavo davvero – alla direzione del Piccolo Teatro di Milano e il mese scorso un altro in cui rispondevo a un articolo di Andrea Pocosgnich chiarendo cosa volesse dire per me parlare di teatro popolare (link post).
In seguito a quel confronto, mi è stato chiesto di scrivere un pezzo per TeC partendo proprio da questo: quale dovrebbe essere il ruolo del teatro pubblico? Cosa significa fare un teatro popolare d’arte “per tutti”, senza abbassare l’asticella qualitativa?
Per rispondere a questa domanda me ne sono fatte tante altre, ho scritto due manifesti, cinque decaloghi, una tavola dei diritti universali degli spettatori e qualche anatema, ma ogni volta chiudevo il computer e non ero contento, probabilmente perché il mio cervello non funziona attraverso forme argomentativo-assertive, ma attraverso forme dialettiche.
Quindi sono ricaduto nella cosa che mi diverto di più a fare: ho scritto un dialogo. Nel quale, sì, ci sono dei “personaggi”, e lo so che questo per alcuni fa molto ancien regime, ma per come mi ci approccio io, la considero una forma di ricerca.
In scena ci sono un grande maestro del teatro italiano e un neo-ministro della cultura.
MAESTRO Buonasera, signor ministro.
MINISTRO Maestro, la ringrazio per essere venuto. Come sicuramente saprà, sto per insediarmi al ministero della cultura, ma io sono un agronomo e sì, ogni tanto vado al cinema e ai concerti, ma diciamoci le cose come stanno: io, di cultura, non so niente. Per questo ho deciso di avvalermi della consulenza di alcuni esperti, uno per ogni ambito. E lei, oltre a essere uno dei più grandi attori italiani, è anche un fine conoscitore della storia e della filosofia del teatro, nonché un attento osservatore del mondo contemporaneo, quindi la prego… mi dica come dovrei fare.
MAESTRO Per fare cosa?
MINISTRO Per fare in modo che il teatro di prosa possa adempiere veramente ai propositi che si prefiggeva Paolo Grassi nel 1946 quando scriveva – me lo sono andato a cercare, eccolo qui – che “Il teatro è il miglior strumento di elevazione spirituale e di educazione culturale a disposizione della società. Noi vorremmo che autorità e giunte comunali, partiti e artisti si formassero questa precisa coscienza del teatro, considerandolo come una necessità collettiva, come un bisogno dei cittadini, come un pubblico servizio, alla stregua della metropolitana e dei vigili del fuoco, e che per questo preziosissimo pubblico servizio nato per la collettività, la collettività attuasse quei provvedimenti atti a strappare il teatro all’attuale disagio economico e al presente monopolio di un pubblico ristretto, ridonandolo alla sua vera antica essenza e alle sue larghe funzioni”. Ecco, io ho la sensazione, da spettatore occasionale, che ora questo ruolo pubblico e queste larghe funzioni… si siano un po’ perse. Lei cosa ne dice?
MAESTRO Si sono decisamente perse.
MINISRTO E perché, secondo lei?
MAESTRO La società è cambiata. Cinema, televisione, internet, social network. i teatri non sono più luoghi centrali della vita culturale.
MINISTRO E cosa potremmo fare, noi, perché tornino ad esserlo?
MAESTRO Niente. Il tempo passa e le cose cambiano. Al massimo sarà la storia, a fare qualcosa.
MINISTRO D’accordo, ma io ho a disposizione circa novanta milioni di Euro (il 20% del Fus, dati Mic) che spendo ogni anno per il teatro di prosa e non vorrei spenderli male. Perché non sono tanti, è vero, ma non sono neanche pochi. Ho incontrato i miei futuri collaboratori e loro parlano solo di numeri, di giornate lavorative, di “quantità”, ma io vorrei con tutto me stesso che il nostro investimento d’ora in poi avesse al centro la “qualità”. Solo che non so come fare.
MAESTRO Perché la qualità non esiste.
MINISTRO In che senso?
MAESTRO Secondo lei, esiste?
MINISTRO Fino a un secondo fa, pensavo sì.
MAESTRO E cos’è?
MINISTRO Non saprei dare una definizione, ma credo abbia a che fare con la bravura.
MAESTRO E in cosa consiste, la bravura?
MINISTRO Dipende dall’ambito. Per quanto riguarda il teatro, non ne ho idea. È per questo che ho chiamato lei.
MAESTRO Quando facevo l’accademia, ero convinto che la qualità esistesse e avesse a che fare con la tecnica. E mi impegnavo il più possibile, per apprenderla. Poi un’estate sono andato a Londra e ho ascoltato uno dei primi concerti dei Sex Pistols. La mia ragazza di allora studiava al conservatorio e si è arrabbiata, “Questi non sanno suonare!”, eppure a me piacevano. Chissà perché, forse perché mi trasmettevano energia, incarnavano il mio desiderio di ribellione… mi accendevano. Anche se era evidente che non sapessero suonare. Ma era quello il punto? No. Quanta gente sapeva suonare benissimo, eppure non era in grado di accendermi? E allora dove stava, la qualità? Quando sono tornato a casa è cambiato qualcosa, nel mio approccio alla recitazione: non ho smesso di occuparmi della tecnica, ovviamente, ma ho capito che la cosa più importante… era comunicare. E la mia bravura non doveva essere una bravura astratta, ma consisteva nella relazione con chi avevo di fronte: il pubblico. Dovevo diventare bravo a trasmettere qualcosa al pubblico. Ma ogni pubblico è diverso perché ogni persona è diversa: con qualcuno comunichi in un modo, con qualcuno in un altro, non c’è niente in grado di fare lo stesso effetto a tutti.
MINISTRO E quindi?
MAESTRO E quindi bisognerebbe rinunciare a parlare di concetti che non esistono, come la bravura e la qualità… bisognerebbe rinunciare all’idea di poter creare delle gerarchie, delle classifiche o dei sistemi di valore… esistono le tecniche specifiche delle singole arti, certo, e in generale conoscere queste tecniche ti aiuta a esprimerti al meglio delle tue possibilità – basta guardare Picasso che prima di inventare il cubismo era in grado di fare ritratti figurativi perfetti – ma questo non è per forza sempre vero e di sicuro non può essere un criterio esaustivo, perché ognuno si esprime come vuole e tutti hanno il diritto di farlo.
MINISTRO E allora, mi faccia capire, perché lei è considerato il più grande attore italiano vivente?
MAESTRO Perché siamo in un sistema capitalistico e anche l’arte, come tutto il resto, è una merce da vendere. E visto che gli artisti sono tanti, l’offerta è sempre superiore alla domanda, per cui se tutti avessero lo stesso valore, sarebbe un valore bassissimo. Se invece alcuni diventano “speciali”, il loro valore sale, perché tutti li vogliono. Così aumenta il profitto sia per loro che per quelli che hanno contribuito a renderli “speciali”. Questo ovviamente fa sì che si creino gruppi di potere che hanno tutto l’interesse a perpetrarsi e auto-alimentarsi, in nome della “qualità”, consolidando un posizionamento che garantisce a tutti un profitto, sia economico che d’immagine.
MINISTRO Quindi lei crede che i suoi colleghi siano tutti al suo livello e che sia solo una questione di…
MAESTRO Assolutamente no. Io sono convinto di essere il migliore.
MINISTRO Ah, ecco.
MAESTRO Ma questo è soltanto il mio punto di vista e oltre a non avere nessuna corrispondenza diretta con la realtà, non ha neanche nessun valore. Se non per me e per il mio ego.
MINISTRO Capisco. E sono d’accordo sul fatto che sicuramente il mercato ha una grande influenza su queste dinamiche, ma non crede che ci siano artisti in grado, come diceva lei prima, di comunicare a più persone?
MAESTRO Certo. Ma se iniziamo a far diventare la bravura una questione di quantità, lo sa dove arriviamo, vero?
MINISTRO No, dove arriviamo?
MAESTRO A dire che i film di Natale sono meglio di Kubrick, perché li va a vedere più gente.
MINISTRO E quindi?
MAESTRO E quindi siamo in un cul-de-sac.
MINISTRO Maestro, lei non mi sta aiutando.
MAESTRO Perché lei non vuole un aiuto, signor ministro, lei vuole approfittare della mia credibilità per non assumersi la responsabilità di compiere delle scelte, come i suoi colleghi che si nascondono dietro “Eh, l’hanno detto gli economisti” o “Eh, l’hanno detto gli scienziati”, ma io non posso aiutarla, sia perché non sono d’accordo con questo modo “tecnico” di intendere la politica, sia perché la mia esperienza non mi consente nessuno sguardo privilegiato. Lei cerca un’oggettività che nell’arte non esiste. Le scelte che deve compiere sono scelte politiche.
MINISTRO D’accordo. E io infatti voglio compierle. Ma non so neanche da dove partire a ragionare. Lei come si comporterebbe, se fosse al mio posto?
MAESTRO Beh, io ho una visione molto precisa di cosa dovrebbe fare un teatro pubblico, però è una visione che si basa sulle mie riflessioni personali e non ha nulla di oggettivo, nulla che la faccia essere superiore alle altre visioni.
MINISTRO La vorrei sapere lo stesso, se non le dispiace.
MAESTRO Perché?
MINISTRO Perché brancolo nel buio, maestro. La prego. A livello informale. Le prometto che non userò in nessun modo la sua credibilità per giustificare le mie scelte. Voglio solo un consiglio.
MAESTRO Lei usa piattaforme per vedere film on-line?
MINISTRO Sì, certo.
MAESTRO E avrà notato che più guarda film o serie di un certo genere, più le propongono nuovi film o nuove serie dello stesso genere.
MINISTRO Sì.
MAESTRO Perché l’industria dell’intrattenimento sta sviluppando algoritmi sempre più sofisticati che riconoscono i nostri gusti e ci offrono prodotti in grado di soddisfarli nel modo più conforme possibile alle nostre aspettative. Questo succede a ogni livello e influenza i meccanismi di produzione: vengono selezionati, sviluppati e realizzati prodotti sempre più polarizzati, perché sono più facili da etichettare e da vendere al target specifico a cui si rivolgono. Così i profitti salgono, ma calano le possibilità che gli spettatori incontrino qualcosa che li metta veramente in crisi. Anche quello che dovrebbe scuotere, indignare o scandalizzare, viene pensato per essere veduto proprio a quel target di pubblico che vuole essere scosso, indignato e scandalizzato, quindi il meccanismo di messa in crisi è completamente disinnescato. E cosa ti manca, quando non vieni mai messo in crisi?
MINISTRO Cosa ti manca?
MAESTRO Il pensiero.
MINISTRO Ho capito: quindi l’arte, secondo lei, deve stimolare il pensiero?
MAESTRO No, signor ministro, l’arte non “deve” fare niente, perché non ha scopi e se ne ha, sono molteplici.
MINISTRO Ma lei ha appena detto…
MAESTRO L’arte “può” stimolare il pensiero. Ma se questo genera opere difficilmente collocabili all’interno del mercato, finisce per farlo sempre meno. Come infatti sta succedendo. E qui arriviamo a noi: il teatro pubblico è una delle pochissime forme di produzione culturale che può fregarsene delle dinamiche di mercato, perché non sopravvive con i biglietti o con la pubblicità, ma con i novanta milioni di Euro che lei deve scegliere come investire. Quindi, il mio punto di vista politico è che un teatro pubblico dovrebbe avere come priorità assoluta quella di permettere agli artisti di occuparsi di qualcosa di cui le forme di produzione privata si occupano pochissimo e che invece sarebbe fondamentale per i cittadini, cioè, appunto, il pensiero.
MINISTRO Ma per questo non ci dovrebbero essere i mezzi d’informazione?
MAESTRO I mezzi di informazione hanno un solo obiettivo.
MINISTRO Informare?
MAESTRO No. Sopravvivere vendendo pubblicità. E per riuscirci devono tenerci attaccati, quindi anche loro ci offrono contenuti in linea con quello che ci aspettiamo. La dinamica è la stessa dell’arte, dei social network e di qualsiasi altra forma di produzione di contenuti fondata su questo meccanismo che a lungo andare tende a rafforzare le nostre posizioni, estremizzare i nostri punti di vista e lasciarci una diffusa sensazione di “avere ragione”. Ma è proprio quando pensiamo di avere ragione, che smettiamo di pensare.
MINISTRO La scuola, allora? Non dovrebbe essere la scuola, a occuparsene?
MAESTRO In parte, ma vede… la scuola ha a che fare con l’insegnamento, con il trasferimento di nozioni e sì, anche con il pensiero, ma si tratta di un pensiero strutturale: fare collegamenti, organizzare informazioni, comprendere sistemi di segni più o meno complessi. E questo è importantissimo – infatti anche la scuola, in teoria, dovrebbe essere pubblica – ma non ha niente a che fare con il tipo di pensiero che può stimolare l’arte: un pensiero divergente, scomodo, che mette in crisi perché ha a che fare con lo spostamento della percezione. Ecco, se proprio vuole sapere come la penso, io credo che con i soldi pubblici si dovrebbero produrre spettacoli di teatro popolare d’arte che possano essere compresi e seguiti da un pubblico più ampio possibile – le “larghe funzioni” di cui parlava Paolo Grassi – che coinvolgano gli spettatori utilizzando in modo sapiente le tecniche dell’intrattenimento e che però non si limitino a quello ma siano in grado, dopo che li hanno coinvolti, di sconvolgerli, anche radicalmente, senza aver paura di affrontare temi complessi in modo radicale e non consolatorio. Spettacoli semplici da capire, ma difficili da interpretare, dai quali gli spettatori dovrebbero uscire sentendosi spostati, anche solo di un millimetro e anche solo per cinque minuti, nella loro percezione del mondo, di sé stessi o degli altri. In questo senso, il teatro tornerebbe a essere “popolare”, “alto” e allo stesso tempo “politico” nella sua accezione più pura, perché favorirebbe la messa in discussione, nutrirebbe la consapevolezza della complessità e spingerebbe all’apertura e al cambiamento, arricchendoci sia come esseri umani che come cittadini.
MINISTRO Molto bello, maestro.
MAESTRO Grazie.
MINISTRO E come si fa?
MAESTRO Eh, qui purtroppo entriamo in un altro cul-de-sac, signor ministro. Perché io le potrei dire tante cose. Le potrei dire che i testi classici andrebbero messi in scena meno, con più varietà di titoli e soprattutto in modo da esaltare quello che hanno al loro interno – che è sempre profondo e mette sempre in crisi – smettendo invece di piegarli alle visioni egotiche dei registi che li usano come pretesto per una gara autoreferenziale e sterile coi loro contemporanei o coi loro predecessori. E le potrei dire che parallelamente bisognerebbe invece mettere gli autori al centro del sistema produttivo, come succede in Inghilterra dove il teatro, sempre per citare Paolo Grassi, è ancora una “necessità collettiva”, perché gli spettatori sono curiosi di incontrare storie nuove scritte da chi vive nello stesso mondo in cui vivono loro, ma soprattutto perché in un’epoca come la nostra, in cui siamo costantemente bombardati da stimoli brevi, suggestivi e scollegati fra loro, per risvegliare il pensiero è fondamentale uno sviluppo narrativo in grado di condurre attraverso percorsi articolati che si sviluppino nella durata e che ci portino – mentre ci appassionano o ci fanno divertire – a mettere in discussione quelle certezze in cui la nostra mente si è inconsapevolmente incrostata. E questo non solo è teatro popolare, ma è anche una forma di avanguardia che ricerca nuovi modi per comunicare attraverso le storie, andando oltre la reiterazione stantia di un approccio post-moderno che era rivoluzionario, ma è diventato maniera.
MINISTRO Ma è molto interessante, maestro. E non mi sembra affatto un cul-de-sac.
MAESTRO E invece sì, perché questo è solo un punto di vista personale, soggettivo e opinabile. E anche l’essere arrivati a parlare del “pensiero” fa parte di un mio ragionamento altrettanto opinabile. Magari qualcuno famoso e “riconosciuto” quanto me potrebbe sostenere che lo scopo del teatro pubblico dovrebbe essere, non so, rivaleggiare con le agenzie pubblicitarie su chi è più bravo a creare belle immagini che non significano niente. Oppure approfittare della libertà dalle dinamiche del mercato per fregarsene del pubblico e fare spettacoli solo per i propri amici. O ancora concentrarsi sulla difficoltà di esprimersi e lavorare a opere che girano su loro stesse e non esprimono nient’altro se non questa difficoltà. E la messa in crisi dello spettatore, che io propongo di attuare attraverso la dialettica narrativa, magari un altro crede di attuarla attraverso gente nuda controluce che urla a caso nei microfoni, e io potrei dirgli che questo non mette in crisi un bel niente, potrei argomentare, potrei ribattere, potrei arrabbiarmi, ma sarebbe sempre e solo la mia opinione contro altre opinioni altrettanto legittime, perché fondate su un’aleatorietà di fondo, quella dell’arte, della sua fruizione e della sua funzione.
MINISTRO E quindi?
MAESTRO E quindi è un gran casino, signor ministro. La società cambia, le priorità si evolvono, i gusti delle persone mutano e l’arte si trasforma in modo imprevedibile, non c’è niente da fare. Però lei ha un grande vantaggio.
MINISTRO Ah, sì? E quale?
MAESTRO Che i soldi non sono suoi. E questo le garantisce due possibilità che altrimenti non potrebbe permettersi. La prima: avere una visione “alta”, che non si cura delle dinamiche del mercato perché persegue scopi più importanti che riguardano la collettività. E questo sarebbe bello, ma come abbiamo visto è un percorso difficile e pieno di cul-de-sac. La seconda: non avere nessuna visione. E questo è un lusso che a un privato non sarebbe concesso, perché la sua azienda fallirebbe nel giro di pochi mesi. Lei invece non fallirà, perché ogni anno le arriveranno i novanta milioni di Euro di fondi pubblici.
MINISTRO Sì, ma se non ho una visione, come li spendo quei soldi?
MAESTRO Come hanno fatto i suoi predecessori.
MINISTRO E cioè?
MAESTRO Menefreghismo generale e clientelarismo occasionale. Lei non si preoccupa minimamente dei discorsi che abbiamo fatto finora, lascia che i suoi sottoposti gestiscano tutto ragionando solo sui numeri e sulla “quantità” e ogni tanto interviene per fare qualche nomina politica. E il fatto che poi in certi casi vengano prodotte cose orribili, in altri casi spettacoli autoreferenziali che non hanno nessun impatto sulla vita degli spettatori e in certi altri più rari, invece, opere che renderebbero onore all’intento iniziale del povero Paolo Grassi, beh, è lasciato alla buona volontà dei singoli e ogni tanto alla casualità.
MINISTRO Quindi aspetti, non ho capito, lei alla fine di questo discorso mi sta consigliando… di lasciare tutto così com’è?
MAESTRO A livello informale… sì.
MINISTRO E non pensa che sarebbe un peccato?
MAESTRO Forse. Ma sa cosa le dico? A me non dispiace che mi diano 1000€ al giorno per fare un Re Lear o una Tempesta in cui devo solo mettermi lì, camminare da un punto all’altro e dire le battute facendo un po’ di smorfie e cambiando qualche intonazione a caso, giusto per far vedere che sto recitando. Anzi, devo pagare gli alimenti alla mia ex moglie e alla fine dell’anno, quei soldi, mi servono.
MINISTRO Sì, ma… Non lo so, maestro… io la stimo molto, però questo ragionamento… sì, ecco, non mi sembra giusto.
MAESTRO Signor ministro, il giusto e lo sbagliato sono come la bravura e la qualità: non esistono.
Emanuele Aldrovandi
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Dovrebbe crepare, aldrovandi.