Recensione. Nella stagione delle celebrazioni per Molière e i suoi 400 anni dalla nascita, va in scena Il malato immaginario con Emilio Solfrizzi, per la regia di Guglielmo Ferro. Visto al Teatro Quirino di Roma e in tournée poi a Bologna, Civitanova Marche, Pesaro, in Toscana, a Torino, Calabria, Sicilia, Puglia, nel Lazio a Viterbo.
Un parallelepipedo ligneo occupa il centro del palco, svetta nel mezzo con i suoi intarsi e scompartimenti pieni di boccette e medicinali vari, diversi balconi, almeno due, segnano i piani che scompaiono sotto il soffitto del teatro, una scala a chiocciola permetterà ad Argante di salire e scendere in quella che è una frazione, come un ricordo della sua ricca casa, quasi la sineddoche delle intere possibilità scenografiche. Siamo al Teatro Quirino e Guglielmo Ferro porta in scena Il malato immaginario con protagonista Emilio Solfrizzi: è la prima domenica di gennaio e, nonostante i contagi siano in risalita ormai da giorni, il pubblico (dietro alle mascherine ffp2 obbligatorie) riempie con un buon numero questa pomeridiana.
A distanza di qualche giorno dalle repliche del Quirino, il 15 gennaio sono scoccati i 400 anni dalla nascita del grande drammaturgo francese, quel figlio di tappezzieri nato col nome di Jean-Baptiste Poquelin nel 1622 e che nel bellissimo film di Ariane Mnouchkine si vede affrontare il fango prima di trovare l’appoggio dei nobili, fino a quello più in alto rappresentato dalla protezione reale di Luigi XIV. Il Malato immaginario venne scritto in questo contesto, una Comédie-ballet con le musiche di Marc-Antoine Charpentier.
Nella versione di Guglielmo Ferro non ci sono balli o musiche dal vivo (in realtà nessuna produzione si prende questo rischio), tutto ruota attorno alla performance di Argante. Il malato di Solfrizzi è giovanile, deve dunque puntare tutto proprio su quel carattere che ha reso celebre Molière, la nevrosi, quella mania che Cesare Garboli definiva come «idolo da sconfiggere, malattia da curare, tumore da contenere, da studiare, da riprodurre sotto tutti i punti di vista, scrutandolo sulla lastra di un superiore senso della realtà» e in questo caso dunque la nevrosi che definisce il protagonista (monomaniaco come tutti i protagonisti molieriani) è quella che di primo acchito definiremmo dell’ipocondria. Ma ad Argante, come suggerisce ancora una volta Garboli, «non è la guarigione che gli interessa. […] Finché esistono i medici, esiste anche l’illusione che il futuro di un’esistenza malata non sia la morte, ma un’ipotetica vita da sani».
Se in questo modo lo studioso e traduttore ci fa pensare a un fine altissimo che si identifica con l’obiettivo di ingannare e raggirare la morte – perché «come nessun altro personaggio del teatro antico e moderno, Argante è consapevole che vivere è essere malati» – c’è poi però il livello basico, sotto gli occhi dei personaggi e degli spettatori: il conteggio dei clisteri, le medicine, i nomi latini delle malattie, i lavaggi gastrici e le tisane, la ricerca del rimedio perfetto per gli umori guasti. Ecco allora che nella nostra epoca ipermedicalizzata, non per eccessivo trasporto verso la scienza ma per necessità pandemiche, le satiriche frustate di Molière verso questo stolto riccone borghese appaiono in una luce diversa, ambigua e stridente: d’altronde qui siamo di fronte a un uomo talmente ossessionato dai medici da volere far sposare la figlia a uno di loro solo per assicurarsi le cure future; i dottori che lo seguono d’altro canto lo sfruttano tenendolo per i cordoni della borsa e poi c’è tutta una diatriba interna – anche se agita per riflesso – tra le vecchie e le nuove teorie; insomma una relazione quella tra paziente e medico, tra società e medicina, tutt’altro che sana, anzi nevrotica come solo oggi potrebbe essere.
Come sempre accade nelle drammaturgie di Molière c’è un servo che si porta sulle spalle le responsabilità dei meccanismi comici dai tempi della commedia latina e di quella dell’Arte, qui è Tonina, il cui zelo è ben rappresentato dalla voce e dalle movenze (forse a volte didascaliche) di Lisa Galantini; è il contraltare di Argante per razionalità e praticità; il padrone e baricentro della commedia – interpretato dai più grandi del passato, come da Tino Buazzelli, Romolo Valli, Luigi De Filippo a Franco Parenti, Giulio Bosetti, Alberto Sordi al cinema, fino al recente Paolo Bonacelli – viene qui impostato dal popolare attore pugliese con un deciso tratto comico in cui convergono leggere, ma importanti vene malinconiche in un’interpretazione molto precisa a cui manca però qualche cambio in più di ritmo e colore.
Puntuale ed elegante anche Sergio Basile nei ruoli del dottor Purgone e del dottor Diaforetico, esagerata e grottesca, tanto però da risultare una geniale diavoleria, l’interpretazione di Pietro Casella nei panni del giovane Tommasino. Costumi storici e regia concentrata sugli attori, senza purtroppo riuscire a fare a meno di certi schemi comici ormai desueti, come le ripetizioni e le interruzioni brusche del protagonista nel profluvio verbale della serva. Guglielmo Ferro però lascia un segno preciso e iconico nello spazio organizzato attorno alla struttura verticale in legno di Fabiana Di Marco e nel finale in cui Argante è solo in scena, gli altri personaggi sono divenuti pupazzi, marionette senza fili ad accompagnare l’inevitabile solitudine: non dobbiamo dimenticare che questa per Molière fu l’ultima commedia scritta, l’ultimo palcoscenico calcato prima che la malattia (purtroppo non immaginaria) ebbe il sopravvento.
Andrea Pocosgnich
Gennaio 2022, Teatro Quirino, Roma
Tournée e date in calendario 2022/2023: link alla tournée completa
IL MALATO IMMAGINARIO
di Molière
con Emilio Solfrizzi
e Lisa Galantini, Antonella Piccolo, Sergio Basile, Viviana Altieri, Cristiano Dessì, Pietro Casella, Cecilia D’Amico
e con Rosario Coppolino
costumi Santuzza Calì
scenografie Fabiana Di Marco
musiche Massimiliano Pace
adattamento e regia Guglielmo Ferro
produzione Compagnia Moliere – La Contrada – Teatro Stabile di Trieste
in collaborazione con Teatro Quirino -Vittorio Gassman