Rcensione. Kiva, ultima produzione di Masque Teatro con Eleonora Sedioli e la regia di Lorenzo Bazzocchi è stato ospitato e presentato nello spazio di Atelier Sì.
Sedersi in prima fila nella sala bolognese di Atelier Sì permette un contatto ravvicinato con la scenografia geometrica e scarna di Kiva, ultima produzione di Masque Teatro con Eleonora Sedioli e la regia/ingegneria di Lorenzo Bazzocchi. Un piano inclinato, una parete verticale, un cilindro; queste le direzioni in cui la scena si articola.
Lentamente, ancora immerso nella penombra un corpo livido e grigio e una testa rasata compaiono di fronte a noi, si arrampicano sulla pedana inclinata. Le membra si accartocciano, le dita delle mani e dei piedi – stravolte e tese – cercano un appiglio che non c’è. Un sottile fascio di luce mette in risalto tutte quelle linee, e solchi, e vene e ossa di cui è fatto essenzialmente un corpo. Un corpo che in fretta perde i propri contorni e le proprie geometrie per farsi figura; o ectoplasma, come si legge nella presentazione dello spettacolo, poetica e contorta, che richiama ancora una volta le teorie deleuziane tanto care al teatro del corpo e della modernità.
Un corpo che si scompone e ricompone di fronte a noi. Rimaniamo per un po’ concentrati a studiare ogni linea, ogni vuoto e pieno, ogni cambiamento, mentre un tappeto sonoro ci accompagna con un’inquietudine che si aggiunge alla curiosità e, insieme, a quella segreta e intima repulsione che sempre si prova nell’osservare davvero un corpo estraneo. Per un tempo che ci appare interminabile la figura scivola sulla pedana sempre più inclinata, si arrampica e scivola, tenta di ergersi e cade attirata da una forza più profonda della gravità, una forza interiore che non permette l’evolversi in qualcosa di più sensato di quel corpo. Ci guarda negli occhi, con occhi profondi e neri, con rabbia.
Scompare poi nel buio oltre la pedana e si muove verso la parete che avevamo intravisto sul lato destro del palco. Qui regna l’ombra, l’ombra proiettata dall’alto di una mano che si staglia ma di nuovo non trova a che aggrapparsi, soltanto il vuoto e il bianco, e quella forza che attrae verso il fondo. Lo spettacolo continua così, in un ritmo surreale, sul tappeto sonoro che non lascia mai la scena. L’ultima azione di questo corpo è dissolversi, così come era apparso, in una nuvola di fumo denso. La figura si appresta a scalare quel cilindro silenzioso in fondo alla scena, aiutata da meccanismi che forse vorrebbero trasmettere un senso di magia, ma che intravediamo salire e scendere nell’imperfezione della macchina teatrale. Non si sa se sia il cilindro fumante a divorare questo corpo, o esso a dissolversi nel vapore, in un’aspirazione totale verso qualcosa di oltre.
Fatica questo spettacolo a dirigere lo sguardo. Autonomamente scelgo quali vene osservare, quale parte sconnessa di questo corpo tinto di grigio dalla luce sapientemente orchestrata ma neutra, impassibile. Studio le vertebre in rilievo nella schiena, una per una, e poi passo a un piede, a una mano, una scapola. Pur nel movimento risulta un effetto statuario, di staticità. Contribuisce a questa sensazione il sonoro, una vibrazione profonda e lugubre che non cessa mai, tormentata. Contribuisce il fumo denso che, bellissimo, ipnotizzante, cola incessantemente dal cilindro di ferro che ora mi appare come un totem e mi ricorda il parallelepipedo di Kubrick. Un cilindro freddo che ribolle e vomita.
Mi sento costretta a guardare ancora e ancora quel corpo che ormai mi pare di sapere a memoria. Non rintraccio più il percorso compiuto fino a quel cilindro, il viaggio necessario per raggiungerlo. Anche i confini e le geometrie del mio ruolo di spettatore si confondono, e sentirei la necessità di aggiungere del movimento, il mio, a quella che ora mi sembra una virtuosa forma di installazione, ma non più di teatro; e che potrebbe durare per sempre, ma non qui. Immagino di potermi muovere tra le forme e le rovine di questa scenografia, di vagare nel fumo denso e poter ancora osservare quel corpo da prospettive diverse, scavalcando la visione frontale che percepisco come una limitazione nel rapporto intimo che quel corpo mi impone di stabilire con lui.
Accanto a me siede un filosofo che in questo momento invidio, poiché sicuramente intravede e comprende i riferimenti e le astrazioni che questo spettacolo dichiara di volere rielaborare e fare propri. Kiva rimane una visione affascinante, inquietante, dall’ingegneria forse ancora arrugginita ma anche dalla grande cura estetica. Tuttavia, entrambi ancora ci chiediamo da cosa derivi quell’assenza di vita che percepiamo alla fine dello spettacolo.
Angela Forti
Bologna, gennaio 2022
KIVA
con Eleonora Sedioli
tecnica Angelo Generali
costumi Mood Indigo_Bo
foto Cristian Filippelli
regia, ideazione, luci e macchine Lorenzo Bazzocchi
produzione Masque teatro
con il contributo di Comune di Forlì, Regione Emilia-Romagna, Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì