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 | Cordelia | gennaio 2022 

RECENSIONI  BREVI MA INTENSE. Tra le tre figlie di Re Lear, Cordelia, è quella sincera. Cordelia ama al di là del tornaconto personale. Gli occhi di Cordelia appaiono meno riverenti di altri, ma sono giusti. Cordelia dice la verità, sempre.

Ogni mese apriremo una nuova pagina di Cordelia per recensire il maggior numero possibile di spettacoli. Scorrete fino alla fine per trovare tutte le opere recensite finora.

APPENA PRIMA

Parole, incalzanti una dietro l’altra, come perle di una collana, di quelle che portano le nonne, con il gancetto in oro per fermarle sicure di non perdersi. Calore, che percepiamo entrando a Fortezza Est, sognata e realizzata da Alessandro (Di Somma) e Eleonora (Turco); e poi casa, la stessa della storia di Valentina Minzoni diretta da Tania Garriba per quell’Appena prima in cui siamo entrati ieri sera e che anche oggi sarà in scena nel teatro di questa Fortezza a Tor Pignattara. Sulle assi di legno, a piegare e sigillare dei cartoni, illuminata con luci giallognole, quasi fossero quei neon da cucina, Minzoni impersona un monologo a perdere, ma vuole bloccarlo perché la donna che ci presenta ama le cose ferme, come le date che stanno nel passato e non passano, segnate nell’agendina e scritte sulle scatole impilate. «Mi cado, triste, a prescindere» mentre guarda, ancora una volta, il vhs coi funerali di Berlinguer e quando «non sto male eh, ma neanche bene». L’attrice ricorda i ricordi della nonna e, senza retorica della malattia, ne porta il testimone per collocare le «note a margine della memoria» nella fretta del presente. Diretta da Garriba, seguendo il vorticoso ritmo del dialetto romagnolo, con gestualità eloquente, che sa diventare però minuta e fragilissima, Minzoni fa luce nelle ombre, gli occhi sono brillanti di emozione e, nei silenzi delle mani in grembo come negli inciampi fanciulleschi, riesce a fermare, giusto per un’ora, la caduta delle cose che vanno via…(Lucia Medri).
Visto a Roma, Fortezza Est. Crediti: Di e con Valentina Minzoni; regia Valentina Minzoni e Tania Garribba

 IL BAMBINO DALLE ORECCHIE GRANDI 

Di una storia ci chiediamo spesso come andrà a finire…e se riniziasse da capo, se quei due, noi, ci conoscessimo da sempre? Suoni delicati di filastrocca, luci bianche con sfumature ciano e magenta per la scena de Il bambino dalle orecchie grandi di Teatrodilina, in cui i tappi dei barattoli non stanno mai al loro posto, gli ipod esplodono e una piantina cresce sull’unica mensola appesa in questo lavoro che, con soavità, inaugura la “struttura” 2022 di Carrozzerie not. È una chimica di elementi che reagiscono attraendosi e respingendosi a legare i due interpreti: lei (Anna Bellato) vestita coi toni rosa pastello e lui (Leonardo Maddalena) in camicia e pantaloni blu. C’è l’ardire di uno sguardo proiettato più in là; il fremito delle mani al primo errore, «pensavo mangiassi il pesce», ci sono le espressioni mimiche che si somigliano quando si parla di sogni al mattino davanti al caffè, «lo prendo amaro». Questi aneddoti di un amore sono legati proprio da un sogno condiviso, di un bambino con le orecchie grandi che non potrebbe essere figlio di altri se non di quei due lì, che hanno lo stesso difetto perché la loro è una stranezza armoniosa. Di questo lavoro scritto e diretto da Francesco Lagi amiamo dei protagonisti l’onestà dell’increspatura che rende reale la conoscenza tra due sconosciuti, un’esitazione per cui l’angoscia può essere un sentimento di bellezza quando ci spinge a riavvolgere il rumore delle cose rotte per provare a sentirle di nuovo unite (Lucia Medri).
Visto a Roma, Carrozzerie not. Crediti: Scritto da Francesco Lagi; Con Anna Bellato, Leonardo Maddalena; Foto Loris T. Zambelli

  CALIGOLA-ASSOLO 1 

Caligola-Assolo.1 di Bernardo Casertano parte, sì, dall’opera omonima di Albert Camus, ma offre una sua rilettura personale e squadernata: prima e dopo, contrazione e distensione della lotta di un uomo nella sua solitudine verso la tensione di un impossibile. Non c’è l’esplicita e deliberata crudeltà dell’ultima stesura dellopera teatrale o di quella reazione smodata alla perdita dell’amata sorella, eppure se ne percepiscono, prosciugati,  dei residui. La mostruosità dell’imperatore romano (“mostro, perché hai amato troppo”) è nell’immagine iniziale, nella macchia scura informe, pelosa, accovacciata e di spalle, che avanza. Mostruosa è l’immagine che di lui hanno gli altri: voci, colpite e profittatrici, congiuranti, dei Patrizi, voci da un’unica fonte (quella dell’attore e regista, ora frontale, ingobbito nel suo pastrano che lascia scoperte le gambe nude), variate in un arabesco di dialetti, toni, cavità che scivolano da nord a sud, intente a parlar di lui, di quel Caio Cesare che ancora si nasconde. Di questa versione vista alla Fortezza Est, non si tratta tanto di una reductio ad unum, perché già quel Caligola originario conteneva la tensione assurda di un uomo che desiderò ciò che era di tutti, facendolo proprio (accanimento verso quel bello perduto – che fosse Drusilla o la luna poco importa, sempre di simboli irraggiungibili si tratta). Così è, è avere tutti in un sol corpo, letteralmente, per provare a scacciare quell’assoluta impotenza alla solitudine, dove «soli non si è mai […] Quelli che abbiamo ucciso sono con noi. Ma quelli che uno ha amato; quelli che non ha amato e non l’hanno amato». Allora, guardare in alto, nudi e  però coperti, è già un passo in avanti verso di loro. (Viviana Raciti)
Visto a Roma, Fortezza Est. Crediti: di e con Bernardo Casertano.

 BODY#1 + FIRST THINGS1st 

Tagliente è la notte, fredda e immobile di quarantene che sono piccole prigioni. E lo spettatore dov’è? Sfida il gelo, mostra il green pass, sorride con gli occhi sotto la Ffp2 e si siede in platea. Gli spettacoli cadono come mosche, i contagi se li mangiano da dentro, congelando le compagnie fino a data da destinarsi; chi resiste ritrova il calore del pubblico. Una sera al Quarticciolo accade che nel bel mezzo di una pandemia, in un piccolo teatro di periferia, vengano ospitati grazie alla relazione con l’ambasciata, due coreografi israeliani. Nella stessa serata assistiamo a due diversi approcci alla composizione e allo spettacolo. La prima, Roni Chadash, mette in scena una relazione a due: i corpi di Maya Schwartz e Ido Barak cominciano uno avvinghiato all’altro, in una sorta di essere composto, è un’illusione di gambe e braccia che si uniscono come nelle visioni mostruose di Dimitris Papaioannou (all’Argentina proprio nei prossimi giorni), ma è solo l’incipit, bastano pochi attimi per capire quale sarà il fulcro del movimento: l’instabilità. I due corpi si cercano, si attraggono, ma c’è qualcosa che li destabilizza da fuori o dall’interno; siamo incollati alla scena. Nel secondo assolo, di Michael Getman, agito da Ariel Gelbart, troviamo anche le parole di un discorso in frammenti, l’armonia lascia il posto ai gesti spezzati, duri, il corpo è sezionato proprio come il vocabolario con cui viene creato il discorso verbale; Gelbart ha tecnica sopraffina, ci sfida con il corpo ma anche con uno sguardo profondissimo. (Andrea Pocosgnich)
Visto a Roma, Teatro Biblioteca Quarticciolo. Crediti: BODY #1 coreografia: Roni Chadash con Maya Schwartz e Ido Barak musica: Patrick Watsonluci: Amir Castro – FIRST THINGS 1st
coreografia: Michael Getman performer: Ariel Gelbart dramaturgia: Yael Venezia musica: O-taiko by master Eitetsu Hayashi // Iannis Xenakis – Pléiades II. Métaux disegno luci: Ofer Laufer

 B-TRAGEDIES – TRILOGIA SHAKESPEARIANA TRASH 

Accade che essere in scena è una forzatura di sé stessi e un frustrante dialogo col pubblico. Su cosa si dialoga se la sensazione è che si è già detto tutto? La Bellezza, quella immutabile, invecchia. E talvolta pure male. Allora in scena Francesca Ventriglia e Marco Sanna agiscono di scarnificazione del senso, a partire dai titoli di quello che ripropongono. Non riescono nemmeno a nominarli. Macbeth, Amleto, Otello: da presenze monolitiche a balbettii annoiati e grotteschi. Eliminato il totemico, del monolite non resta che l’ingombro. Senza poesia, Macbeth e sua moglie non sono altro che due assassini dissociati dalla realtà (pure della propria realtà teatrale, visto che finiscono col citare nientemeno che Natale in casa Cupiello); entrambi in camicie da notte macchiate di sangue, instupiditi dalla mancanza di sonno, si confessano inconsapevolmente completando le parole incrociate. Amleto è stanco di sé stesso ed è stanco di parlare; è un attore indolente, smanioso di cambiare mestiere e cantare, rimasto completamente solo con i fantasmi di una storia talmente usurata dalle continue repliche che effettivamente è giusto chiedersi se deve essere ancora o no. Otello c’è solo su carta perché mancano addirittura i presupposti per la messa in scena: Cipro non è il luogo adatto, l’apparato scenografico è ridotto al gonfiabile di una palma, manca il numero spropositato di attori, manca un moro, manca il compenso, manca la voglia. Un problema che ha il seme della critica, ma la propulsione arrendevole di un lamentoso “ormai”. (Valentina V. Mancini)
Visto a Sala Ichòs, Napoli; Crediti: di e con Francesca Ventriglia e Marco Sanna; Assistente alla regia Rossella Sabatino; Produzione Sardegna Teatro in collaborazione con la compagnia Meridiano Zero; Foto Laura Farneti

 AMANDA 

Amanda, dal latino amandus, colei che merita d’essere amata. Che cosa si celi dietro questa parola è un interrogativo che dischiude il senso di uno spettacolo che porta il nome della sua protagonista. L’esordiente compagnia teatrale dei Fratelli Carchidi racconta una convivenza sofferta, quella che costringe una giovane ragazza a sentire molte mosche nella testa ma nessuna farfalla nello stomaco.
Unico corpo in azione, dall’inizio alla fine, è Amanda (Antonella Carchidi), anima fragile che vaga impaurita alla ricerca del senso di una vita donatale già rotta. Da sempre, vive un’esistenza assediata dal suo doppio: lei è sé stessa e la sua malattia. Anzi, prima di tutto è la sua malattia, perché nel buio insondabile di un palco completamente vuoto è lei la prima ad apparire, la patologia dell’acufene. Vestita da detective, tanto irruenta quanto insidiosa, si aggira spasmodicamente sul palco, danzando al ritmo del delirio di sé stessa: un disturbo uditivo. E dal frastuono di rumori confusi emergono le parole di un monologo che diviene dialogo, quello di Amanda con il suo dolore. Un testo la cui scrittura ha tutti i requisiti per essere ulteriormente indagata e approfondita dalla regia di Francesco Ivan Carchidi e di Francesco Aiello, che fanno, invece, dell’essenzialità scenografica il loro punto forte. Alla fine, la quarta parete e il palco stesso traballano fino a spezzarsi. Amanda merita d’essere amata, e la sua è un’esigenza celata dentro le sei lettere del nome che porta, una richiesta in grado di arrivare fino alla postazione in cui sono seduta, fila A posto 7, oltrepassando quel confine che rende lei l’attrice e me la spettatrice. (Andrea Gardenghi)
Visto a Pim Off di Milano – Crediti: ideazione e drammaturgia Fratelli Carchidi, regia Francesco Ivan Carchidi, con Antonella Carchidi, musiche originali Remo De Vico

 TROIANE 

Troiane è un adattamento di Angela Demattè per la regia di Andrea Chiodi dell’omonimo testo scritto da Euripide nel 415 a.c.. Al Teatro Quirino la scena di Troia è chiusa in una piccola e grigia prigione, siamo ai giorni nostri, Elena di fronte a un computer gioca con la propria immagine proiettata sullo sfondo (dove appariranno anche le donne del coro, come in una riunione video). Il tentativo di questa produzione del Centro Teatrale Bresciano è lodevole, ma evidentemente rischioso, nel testo di Euripide tutto è già deciso, la tragedia qui non ammette azione, bisogna solo mostrare i risultati, ovvero le tremende sofferenze: quelle di Ecuba, Andromaca, Cassandra e le altre troiane fatte prigioniere dai greci. E nel naturalismo di una scena fatta per la rappresentazione contemporanea stride la parola poetica, nonostante l’alto coefficiente di talento: Elisabetta Pozzi, Graziano Piazza, Federica Fracassi, Francesca Porrini, Alessia Spinelli. A tratti la recitazione riesce ad avere slanci di credibilità (soprattutto nel caso di Andromaca), ma per la maggior parte del tempo assistiamo al tentativo della scatola scenica di comprimere la potenza assoluta e antinaturalistica del verso tragico. L’incongruenza raggiunge l’apice quando Ecuba/Pozzi chiede a Taltibio/Piazza lo scudo su cui adagiare il piccolo Astianatte ucciso dagli Achei e Taltibio le porge il coperchio di un secchio per la spazzatura. La poesia di Euripde è più grande, si salva da sola, come noi ci salviamo grazie alla durata che non supera gli 80 minuti. (Andrea Pocosgnich)
Visto a Teatro Quirino di Roma, fino al 23/01 – Crediti: da Euripide
adattamento e traduzione Angela Demattè, regia Andrea Chiodi con Elisabetta Pozzi e con Graziano Piazza, Federica Fracassi, Francesca Porrini, Alessia Spinelli. Foto Ctb

 ARISTOTELE’S BERMUDA 

Continua il successo del primo lavoro da solista di Luisa Merloni (fondatrice nel 2001 insieme a Manuela Cherubini della compagnia PsicopompoTeatro) che torna in scena all’Angelo Mai anche questo weekend. Gli applausi si levano alti alla fine del “momento di teatro danza” che chiude Aristotele’s Bermuda facendo fluttuare l’invettiva finora ascoltata, come volteggia l’abito rosa shocking indossato dall’attrice. Per Merloni, la donna non solo deve scontare la colpa originale per non essere più disposta all’esercizio dei doveri materni e di cura per la famiglia, non solo deve fare i conti con la biforcuta lingua del patriarcato che si insinua ovunque (grottesca e ripugnante la mimica scelta), ma deve anche confrontarsi con quel femminismo giudicante che commisera le sfortune dell’eterosessualità (il «gender calcestruzzo») e celebra il colorato mondo del piacere omo, bi e trans sessuale. In un’ora di irrefrenabile one-woman show a colpi di sferzate da stand-up comedian, l’Occidente crolla insieme al lògos aristotelico ormai in crisi e in cerca di nuove categorie (creativi gli incontri con il filosofo “ambulante” ma un po’ deboli rispetto alla vis comico-satirica che sostiene la parte centrale) ridefinito criticamente dall’orizzonte gender fluid. Cultura che la stessa Merloni, con altrettanto critico sarcasmo, ribalta e decostruisce nei suoi paradossi e, già, stereotipi per relativizzare lo spauracchio della cancel culture ribadendo con leggerezza il sano diritto all’ironia, mai dimentico della strenua difesa dei diritti civili. (Lucia Medri)
Visto a Angelo Mai, Roma – Crediti: di e con Luisa Merloni; coreografie di Sarah Sammartino; disegno luci di Camila Chiozza; Foto di Emilia Verginelli

 ZANNA BIANCA 

È il tempo della corsa all’oro verso il grande Nord alla fine dell’Ottocento, quando gli uomini si misuravano con il limite degli spazi sconfinati, delle temperature glaciali, il tempo degli eroi di una conquista. È mai possibile che un tempo simile non abbia scrittori a raccontarlo, renderlo eterno per il tempo successivo? Tra di essi, dunque, Jack London, capace di dipingere il paesaggio bianco e ostile che, da quel momento, avremmo avuto tutti sotto gli occhi. E dentro il paesaggio, l’avventura. Se ne fanno tramite Luigi D’Elia e Francesco Niccolini che traducono sulla scena Zanna Bianca, capolavoro per ragazzi ma non solo, pur intessuto in una drammaturgia arricchita da altri racconti, come il fortunato Il richiamo della foresta. Sul palco una luce che combatte l’oscurità sempre notturna e inospitale, si avverte il ghiaccio polare nelle parole invece calde di D’Elia che, solo in scena e circondato da alcune sagome spettrali animalesche, si prende carico dei molti personaggi che affiancano il vero eroe: il lupo, Zanna Bianca, la cui relazione con lo scrittore, con gli uomini in genere, è un paradigma non solo letterario ma esistenziale. Lo spettacolo procede con maestria evocativa, D’Elia sa gestire il ritmo e condensare le reazioni del pubblico, pone semi di umanità ma senza ergersi sul podio di un insegnamento; si soffre e si gioisce accanto agli uomini e ai lupi, uniti in un legame fatto di dedizione, amore puro, un sodalizio che emerge dalla narrazione come un omaggio alla natura, di cui entrambi – che se lo ricordino o meno – fanno parte. (Simone Nebbia)
Visto a Teatro India, Roma – Crediti: di Francesco Niccolini; liberamente ispirato ai romanzi e alla vita avventurosa di Jack London; regia Francesco Niccolini e Luigi D’Elia; con Luigi D’Elia

 CAZZIMMA&ARRAGGIA 

Cazzimma e arraggia sono due parole magnifiche, che vanno pronunciate arricciando il labbro superiore così che tutto il viso si incattivisca. Volendo tradurle in maniera semplicistica sono rispettivamente cattiveria e rabbia. Per capirle davvero bisogna pensare alla fame, e cosa si è disposti a fare per placarla. Nel 1984 la fame a Napoli è Diego Armando Maradona. Per 59 giorni Totonno Juliano, ex capitano del Napoli, e il socio Dino, in scena Fulvio Sacco e Errico Liguori, restano chiusi in una camera d’albergo a Barcellona in attesa che il Presidente Ferlaino garantisca la presenza dei 13 miliardi di lire necessari a comprare il campione. 13 miliardi, a Napoli… figuriamoci. I due manager, sorseggiando sangria e caffè, devono far credere che la Società ha i soldi e che le trattative possono iniziare. Sono in stanza, in mutande, canotta e maglietta della salute, ingiallite e consumate per i frequenti lavaggi; nonostante tutto, è gente semplice dai modi semplici. Un duo classico, à la Totò e Peppino, alle prese col più classico degli espedienti: ‘o ‘mbruoglio. C’è poco da fare, non si sfugge dalla napoletanità del botta e risposta sagace, dell’arrangiarsi, dell’impapocchiare, del chiagnere e fottere. Non c’è nessun imbarazzo a ridere nell’osservare il tentativo dei due sfasulati (senza soldi) di metterlo a quel servizio ai ricchissimi del calcio mercato. Anzi, si tifa. Sacco e Liguori, da napoletani sentimentali, mostrano con naturalezza e senza troppa indulgenza cosa vuol dire essere gente in rivalsa sociale, cattiva e arrabbiata.(Valentina V. Mancini)
Visto a Piccolo Bellini, Napoli Crediti: di Fulvio Sacco e Napoleone Zavatto; Coatchin artistico Armando Pirozzi; Con Errico Liguori, Fulvio Sacco; costumi e scena Anna Verde; Assistente Umberto Salvato; Foto e video Federico Passaro

 RAUTALAMPI 

Non era facile per Garofoli/Nexus raccontare anni di laboratori con un gruppo di ragazze rom, e traspare forte l’emozione per il portato biografico che lega Giuseppe, regista e art educator di minori rom; Laura, attrice professionista e boxer amatoriale e Nedzad, educatore rom, alla drammaturgia di Rautalampi, Premio “Per-formare il sociale” Festival Presente Futuro 2019, visto al Teatro Torlonia all’interno della rassegna Nuove Generazioni. Tante le realtà (Teatro di Roma, Short Theatre/AREA06, CAOS – Terni, Csoa Spartaco) che hanno supportato la storia di Licia, che vive nel campo nomadi di Rautalampi ed è appassionata di boxe, roba da future donne pronte a sferrare colpi per una vita diversa. Il materiale raccolto è diviso in “scene ipertesto”, comprendenti lettere, elementi video, web e di repertorio, dai tre attori/educatori che, in equilibrio giocoso (a volte confuso) tra i ruoli di persona/personaggio, divulgano la storia di Licia, delle ragazze conosciute e quella di Nedzad che ci parla dello sgombero del campo Casilino 900 dove viveva e del senso di colpa da lui provato nei confronti della sua famiglia una volta trovata, con difficoltà, una casa. La compagnia Garofoli/Nexus non riesce a emanciparsi dal coinvolgimento, tende infatti nei commenti alle azioni a calcare con pathos la vicinanza biografica alla storia, la quale insegna il complesso presente politico, i temi relativi all’inclusività, con le sue voci e i sogni di alternativa. (Lucia Medri)
Visto a Teatro Torlonia, Roma Crediti: Regia, drammaturgia e visual design: Nexus; Con: Laura Garofoli, Nedzad Husovic, Nexus; Supervisione drammaturgica: Wu Ming 2; Foto Manuela Giusto

 IL MIRACOLO 

Il Cometa Off, a Testaccio, è uno di quei piccoli teatri che hanno resistito (e stanno resistendo) alla tempesta perfetta delle chiusure causate dal Covid e che ora lentamente riaprono al pubblico con la capienza piena. I gestori con pazienza e gentilezza fanno accomodare il pubblico in un tutto esaurito domenicale, qualche posto viene lasciato per ulteriore sicurezza. Prima di due settimane di repliche per Il Miracolo: due attori per una produzione Fattore K e un testo di Franca De Angelis che tenta di riflettere su questioni ontologiche, complesse e dunque profondissime attraverso un dialogo a due. Una suora cinquantenne entra in uno studio medico dichiarandosi incinta, il medico però, prima dell’arrivo della donna, vuole porre fine alla propria vita a causa della perdita del compagno. Classico e sempre suggestivo incrocio drammaturgico insomma, una vita rischia di andarsene e una nuova arriva, il prezzo da pagare sarà comunque quella di un essere umano. Nel testo di De Angelis c’è anche il tentativo di far risuonare una relazione oggi centrale e distorta, quella con la medicina. Il testo paga però lo scotto di esplicitare troppo presto certi nodi (perdendo così il realismo di cui avrebbe bisogno); non aiuta poi la cesura per episodi basata sul passaggio dei mesi che dividono la donna dal parto. Puntuale, ricca e credibile l’interpretazione di Anna Cianca, che purtroppo non sempre trova una corrispondenza in quella di Galliano Mariani.(Andrea Pocosgnich)
Visto a Teatro Cometa Off, Roma – Crediti: presentato da Fattore K e ScostumatoTeatro, di Franca De Angelis Regia Christian Angeli con Anna Cianca e Galliano Mariani, Patrizia Bernardini

 PSYCHO 

Il successo del romanzo di Robert Bloch, Psycho, spinse uno dei maestri indiscussi del cinema Alfred Hitchcock ad adattare su pellicola il thriller che ruotava attorno al Bates Hotel, in un caleidoscopio dove ciò che sembra non è mai veramente ciò che è. Le iconiche scelte narrative e cinematografiche sono entrate nell’immaginario collettivo, su tutte la “scena della doccia”, con quel montaggio serratissimo puntellato dallo stridio dei violini acuminati quanto la punta di un coltello da cucina. Arrivarono negli anni altri sequel, fortuna che si spiega nel tentativo di continuare a dare forma a incubi e desideri, e che pochi giorni fa ha trovato anche una versione teatrale (regia di Giovanni Franci) che presenta un Norman alla fine di un percorso riabilitativo, ancora alle prese con lo spettro del suo passato. Giuseppe Claudio Insalaco dà corpo a una Norma ancora viva nel corpo del figlio timido e balbuziente che lotta per la propria sanità mentale (nonostante l’acerbità, c’è del genuino nel tentativo), incalzato da una psichiatra, transfert della pulsione passionale e occlusiva. Alessandra Muccioli si presta anche al ruolo della segretaria Mary, nella seconda parte dello spettacolo in una sorta di flasback che ripercorre il film fino a prima della famigerata scena, ma la sua interpretazione rimane superficiale. Non aggiungono molto gli inserti video a una scena scarna, cui forse l’unico merito è nel palco che si tinge di rosso. Purtroppo, si tratta di una regia che poco riesce ad afferrare delle atmosfere tese, che sposta eccessivamente sul piano sessuale e non riesce a reggere il confronto con la forza di quell’immaginario, senza realmente confrontarvisi. (Viviana Raciti)
Visto a OFF OFF Theatre – Crediti: liberamente ispirato al cinema di A. Hitchcock e ai romanzi di R. Bloch, regia Giovanni Franci con Giuseppe Claudio Insalaco, Alessandra Muccioli, produzione Fondamenta Teatro e Teatri

 

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1 COMMENT

  1. Grazie per la recensione del nostro Rautalampi. Segnalo solo che la data al Torlonia si è svolta all’interno della stagione Nuove Generazioni, non al festival Contemporaneo Futuro (avvenuto lo scorso aprile).
    Grazie, Nexus

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