Recensione del fim Gianni Schicchi di Damiano Michieletto, andato in onda su Rai1 e ancora disponibile su RaiPlay.
C’è qualcosa di sottile, di penetrante e nuovo, nel filmopera Gianni Schicchi, regia di Damiano Michieletto (e direzione di Stefano Montanari), andato in onda il 27 dicembre in seconda serata su Rai 1 (a felice dimostrazione che spessore culturale e intrattenimento non si escludono affatto, in un servizio che davvero voglia dirsi “pubblico”) dopo i passaggi festivalieri (Torino Film Festival) e in alcune sale.
Non un ripensamento, allora, ma una vera e propria intuizione: l’idea che il Gianni Schicchi di Giacomo Puccini con libretto di Giovacchino Forzano, sia già in tutto una commedia all’italiana. Né più, né meno. E di quelle cattive, con famiglie mostruose (Brutti, sporchi e cattivi, di Scola) o ipocrite (Parenti serpenti, di Monicelli, a quanto pare il referente più diretto di Michieletto), ciniche e con tanto di morti (Divorzio all’italiana, di Germi). La famiglia mostruosa e ipocrita, che accende l’intuizione sottile di Michieletto, si trova già nel libretto (per altro, scritto da qualcuno che lavorò anche come autore cinematografico – pure “di regime” – come Forzano), ambientato nella Firenze di fine ‘200 (di Schicchi si parla infatti nel XXX dell’Inferno). Laidi, avidi aristocratici, i parenti diseredati nel testamento del defunto Buoso Donati, chiedono all’astuto nuovo ricco Schicchi di escogitare una soluzione per rimetterli (illegittimamente) in possesso dei beni del morto. Il protagonista, dapprima riluttante, per sdegno degli sprezzanti e rapaci aristocratici, acconsente: impersonerà il morto, dettando un finto testamento al notaio. Salvo profittarne a proprio vantaggio (come scaltra e traffichina maschera da commedia all’italiana, appunto, e prima ancora, volendo, una Mirandolina o un Arlecchino goldoniani) e in favore della figlia, innamorata di uno (tra “i meno peggio”) dei Donati.
Di tutto questo, il film di Michieletto sa che non occorre affannarsi ad attualizzare lo spirito. Perché di fatto non ne ha bisogno, se l’opera pucciniana è già commedia all’italiana. O se classico è – come insegnava Mandel’štam proprio in un saggio su Dante – quanto leggeremo domani. Lo spirito, semmai, va intuito.
Certo, costumi e ambienti della versione di Michieletto sono contemporanei, la casa di Donati diventa la villa d’un ricco collezionista-commerciante d’arte dei giorni nostri. Ma l’operazione del regista, a partire da quella intuizione di cui si è detto, consiste innanzitutto nel valorizzare l’intrinseco, effervescente dinamismo dell’opera. Lo fa, intanto, variando gli ambienti, che nell’opera teatrale sono ridotti a un’unica stanza, mentre nel film aprono a più locali della villa, allo studio del notaio, al convento dei frati – non esattamente pii – legalmente beneficiari del testamento di Buoso. Quella stessa intuizione, inoltre, consente a Michieletto, complice l’acuta e sensibile interpretazione dei cantanti, di penetrare a fondo nel carattere degli avidi Donati. E plasmarli – giustamente, se di commedia all’italiana si tratta – come maschere: Giacomo Prestia è un torvo, dissimulante Simone, Manuela Custer inventa Zita come una vipera occhialuta, e La Ciesca di Veronica Simeoni è un’adultera, che, quando prova a corrompere (come tutti i familiari) Schicchi così da assicurarsi la fetta più ghiotta d’eredità, gli sfiora lubricamente l’orecchio con la lingua.
Del baritono protagonista, Roberto Frontali (già diretto da Michieletto nell’allestimento di Rigoletto al Circo Massimo) fa, intelligentemente, qualcuno con l’apparenza d’un everyman, che la boria dei Donati sottovaluta, e che, magari proprio per questo, ha ottime capacità camaleontiche, e tuttavia non privo di polso, di una sua dignità e paterno amore per la figlia.
La forza del film passa anche per il modo in cui Michieletto riesce a maneggiare una forma decisamente complessa come il filmopera. Come pensare l’opera al cinema senza farne illustrativo teatro filmato, o senza sacrificare l’operistico sull’altare del cinematografico?
Pochi, nella storia del cinema hanno saputo risolvere felicemente il dilemma, e in modi diversi: la spettacolare macchina mimetica de La sposa venduta (1932) di Max Ophüls (da Smetana), l’antinaturalismo radicale e sulfureo de I racconti di Hoffmann (da Offenbach) di Powell e Pressburger (1951), Il flauto magico di Bergman (1975) che transita continuamente, con mozartiana levità, dal boccascena teatrale volutamente naif a situazioni più decisamente cinematografiche, complice l’uso di primi piani così tanto caratteristici del cinema del maestro svedese.
Come conciliare l’azione drammaturgica, attoriale, che assicura la progressione narrativa e realistica del film, con canto e musica, che a teatro accettiamo e altrove suonerebbero artefatti?
È significativo, intanto, che gli interpreti cantino in presa diretta, a differenza di tanto cinema operistico. In questo senso, la musica è completamente incarnata, decisamente immanente, indissolubile dall’azione drammatica. Così, ciò che da un punto di vista tecnico può complicare lo svolgimento delle riprese, aumenta invece coinvolgimento e intensità interpretativa dei cantanti. Credibili anche perché essi stessi credono più decisamente per primi a ciò che mettono in scena. E, quindi, anche rafforzando l’idea in noi spettatori che così – cantando, cioè – davvero si esprimano, e che l’azione – cinematografica, e del libretto – e la musica siano corpo unico.
Attorno a loro, la costruzione delle inquadrature, ora statiche in grandangoli barocchi che esasperano la profondità spaziale, ora invece ipercinetiche, in scene “molto montate” (quella della ricerca del testamento di Buoso, ad esempio), così dinamica, avvince a sua volta, coinvolge in un’azione che, come detto, è insieme canto. Lo fa, a volte, da prospettive inconsuete, folgoranti: gli accordi dei Donati sulla spartizione, presi a bordo piscina, si vedono dall’acqua, dove uno dei nipotini del defunto fa il bagno con una sgargiante ciambella fucsia che quasi ostacola la visuale.
Alle regole di una messa in scena così costruita, Michieletto ci prepara con un prologo in prosa, con Buoso Donati stesso (interpretato da Giancarlo Giannini) che introduce la vicenda, e, per di più, dichiara che la sua villa è stata affittata a una troupe – affaccendata a spostar mobili e quadri, o a trafficare con macchine da presa – perché vi giri un film, quello che in effetti vedremo. Ci fa quindi transitare, come prendendo per mano lo spettatore con lo sguardo in macchina, entro una dimensione le cui regole spettacolari possiamo accettare. Integralmente. È gesto che sigla il patto di quella finzione, fattasi credibile, e non avvertiamo scollamento tra azione filmica e canto, tra opera e cinema. E avvince, come solo raramente, nella storia del filmopera, è accaduto.
Antonio Capocasale
Tratto dall’opera lirica di Giacomo Puccini
Gianni Schicchi
2021 Italia, Musicale, durata 71 min
Tratto dall’omonima opera lirica di Giacomo Puccini su libretto di Giovacchino Forzano, ispirato al canto XXX dell’Inferno di Dante, il film narra le vicende di Gianni Schicchi, un furbo faccendiere toscano che, con un abile stratagemma, riesce ad intascare la ricca eredità di Buoso Donati, anziano collezionista d’arte appena deceduto, respingendo gli assalti dei numerosi parenti del defunto, accorsi in massa a casa del Donati per ottenere la loro parte di lascito.
Regia: Damiano Michieletto
Interpreti: Giancarlo Giannini, Roberto Frontali, Federica Guida, Vincenzo Costanzo, Manuela Custer, Giacomo Prestia, Marcello Nardis, Caterina Di Tonno, Bruno Taddia